32) Se il corpo non può fuggire fugge il pensiero

Uno sforzo immane non respirare acqua.

I polmoni che bussano alla gola, insistono, gli occhi escono dalle orbite, spremuti da quel pulsare di tempie, sempre più rigida la mia bocca, sempre più convulse le mie bracciate, sempre più inutili, in cerca del fondo di quella galleria.

L'istinto dominò il mio corpo per quell'attimo nel quale schiusi le labbra, aspirai di getto da lì e dal naso quel liquido che mi colò dentro il petto. Il primo momento del mio annegare terminò subito, emersi in una sacca d'aria intrappolata sul soffitto. Lì tossì tutto ciò che di estraneo m'era entrato, pure la voglia di tornare sott'acqua.

Sì, la galleria portava da qualche parte, mi pare anche ovvio siccome posso raccontarlo qui, tuttavia ovvio non lo era nel momento in cui decisi di percorrerla.

Rinfrescai la mente in un anfratto d'aria, sul soffitto della galleria, che appena appena conteneva la mia testa. Di lì potevo proseguire nella speranza di trovare un luogo simile, tuttavia mi balzò alla mente un'idea intelligente, spiccatamente intelligente, direi, viste le condizioni nelle quali versava la mia mente: intorpidita dall'apnea, depressa dal buio, spaventata dalla morte.

«Devo cercare delle impronte.»

Sapevo benissimo che i pesci non hanno piedi visitare qualche porto del nord, e qualche locanda di pescatori, bastava a far conoscere tutte le regole sulla natura dei pesci.

«I mostri marini si riconoscono così: se hanno i piedi, se sono più grandi della tua barca, oppure se hanno i seni.»

E tutte e tre le alternative portavano a pericoli differenti, da cui difendersi in modo differente siccome un mostro coi piedi può issarsi sulla tua barca, il che è male, un mostro più grosso della barca può mangiarsi la barca, il che è più grave che se avesse i piedi, un mostro coi seni, invece, non è grave grave di per sé, ma è comunque pericolosissimo.

«Perché?» e ingenuo io chiedevo «Perché?» a quei pescatori nordici, col puzzo di liquore nell'alito. Quelli si guardavano tra loro e sghignazzavano, come sghignazzavano loro non si sentono sghignazzare se non le oche quando stendono tutto il collo verso l'alto. Comunque mi rispondevano

«Perché per i seni potresti tuffarti in mare. Pure se è un mostro.»

«Non credo.»

«Ah no? Chiedi a Grotber.» e di nuovo a sghignazzare, loro, mentre gli unici seri rimanevamo io e Grotber, poverino, eppure, io avrò bevuto anche poco, ma Grotber portava tanto spesso il calice alla bocca che di lui ricordo solo gli occhi e il nome dell'artigiano che aveva intagliato il calice.

Ermessos si chiamava, l'artigiano. Un nome fuori luogo tra i pescatori, tutti nominati con le coppie di lettere peggiori -urt; oppure -or ; -sper; o anche -erk; tutti che a chiamarli sembrava di gemere per una fitta alla schiena «Arkun!»

«Si?» c'era davvero un uomo che si chiamava Arkun, dubito però che quel nome appartenesse alla fantasia della madre, immagino piuttosto nascesse da qualche nomignolo, affibbiato dagli amici.

Perché racconto questo?

Perché è a loro che pensai, nelle sacche d'aria delle profondità sommerse di Cava Inferno.

L'acqua alla gola, il buio ovunque, la fobia del chiuso e l'ipotesi, sempre più realistica, di non tornare mai indietro. Emozioni che bastavano ad angosciare il mio corpo a sufficienza, avvilente piangere lacrime per mia madre, su un viso già bagnato, uno spreco di energie arrabbiarmi, magari proprio con quel Ror tanto infognato nella caverna, oppure con me stesso e piangere anche per me.

No. In quelle nere acque mi serviva qualcosa di tranquillo e fuori luogo, magari un tantino ironico, come la storia dei seni.

La moglie di Grotber

«Metti due grossi seni a una roccia. Fatto.» la descrivevano così e ridevano.

«E il viso?»

«Il viso è... quello di un angioletto in argilla hai presente?»

«Sì»

«Ecco, dagli un colpo di remo sul naso e uno sul capo, e quella è la moglie di Grotber.»

Come ridevano quei pescatori.

Io che, per curiosità, ho raggiunto il confine nord delle terre emerse, non potevo resistere alla curiosità di vedere questa famigerata Moglie di Grotber.

Riuscii a ottenere l'invito a cena da Grotber, con una semplice richiesta di ospitalità. Costui, lusingato, mi assicurò di riservare a me tutta la birra che aveva in casa, non molta, tutta quella che lui non avrebbe bevuto, quindi pochissima. Pochissima e lo sapevo, ma non per sete di birra venivo a casa sua.

Venivo per la curiosità, una sete irrequieta, a volte senza sonno, almeno nel mio caso. Salii alla casa di Grotber quella sera stessa. Sulla spiaggia la sua barca, tirata in secca, e sul colle casa sua, su per un sentiero tracciato da passi pesanti, pareti coperte di licheni e un tetto di paglia, fuori penzolava il pescato e le reti, mentre dal comignolo sbuffava tanto fumo da sembrare una fucina.

«Non ho ancora finito!» una voce di donna, appena entrai in casa, ancor prima che Grotber mi salutasse, con la sua bocca impegnata col calice.

«Non ho fretta.» rassicurai.

«Mia moglie.» fece Grotber, mentre indicava quella donna di spalle, impegnata col voltare tranci di carne e spolverare erbe su filetti di pesce, la sua forma tonda copriva quasi del tutto il fuoco sul quale lavorava.

«Fame?» Grotber fece saltellare le sopracciglia.

«Già.» abbassai il viso e mi vergognai, il povero Grotber non immaginava la vera ragione della mia visita, vedere il viso di sua moglie, mi vergognai come un ladro di bambini, ancor di più mi vergognai fin alle lacrime quando mi servirono cinque portate, due di pesce, una di carne, un pasticcio di miele e frutti di bosco immersi nel liquore, e se l'abbondanza non bastò a farmi vergognare ci pensò la bontà. Qualunque faccia portasse in viso la moglie di Grotber le pietanze che cucinava facevano di lei un angelo, in ogni caso.

Dico "qualunque faccia portasse" perché alla fine non la guardai, non la guardai in viso nemmeno una volta, chiusi gli occhi per rivolgerle un sorriso, per complimentarmi mi rivolgevo a lui

«Grotber tua moglie farebbe invidia al cuoco di un re.»

«Infatti mi fa sentire proprio un re.» la abbracciava soddisfatto, con tanta goduria che quasi mi fece invidia, quasi quasi se in quella casa avesse abitato anche una figlia, ecco, a Grotber ne avrei chiesto la mano.»

Immaginai la progenie di un beone e di una roccia coi seni, come me la figuravo prima è ovvio, di fronte a quei due invece non potevo che immaginarla incantevole.

«Voglio ripagarvi» mi inchinai «vi posso raccontare una storia di...»

«Oh no!» esclamò Grotber «Il nostro era un invito senza ritorni. Piuttosto mia moglie voleva cantare una storia che potresti portare con te...»

Quella donna cantò, una voce deliziosa, quella di una sirena, di una ninfa, un canto che vibrò sulla mia pelle per il resto della notte.

«No» dissi loro il giorno dopo «Non posso portare con me la canzone di tua moglie.»

«Perché?» domandò lei.

«Il vostro canto è tanto tanto bello da rendere originale ogni storia, e siccome non potrei mai riprodurre un così bel canto, non potrò nemmeno riprodurre l'originale.» le baciai le mani «Voi siete una farfalla, inimitabile e ingovernabile se non facendone strage, schiacciata tra le pagine di un libro.»

Le dissi proprio così.

Ammetto che la curiosità non se ne andò mai, di vedere quel volto mi rimase la voglia e, pure nei momenti più bui, un poco rimpiangevo di non aver approfittato di quell'occasione.

Di certo la mia esperienza di lei, senza vederla in viso, mi diede l'idea della donna più desiderabile della terra, e così forse la recepiva Grotber. Non penso sarebbe stato giusto, nel guardarla e vederla brutta, cambiarne opinione, anzi vederla brutta a quel punto mi avrebbe fatto cambiare opinione su di me.

Servono anche a questo le storie e i racconti, a distrarmi, a sollevare un animo appesantito, anche per un attimo, per lasciargli prendere fiato.

Ripiombato nel mio corpo, battute le palpebre alla luce della gemma fluorescente, guardai in basso. Da sopra la superficie riuscii a vedere il fondale della galleria, un fondale sabbioso su cui erano segnate file e file di impronte, piedi che calzavano grossi stivali e dalla falcata stretta.

«I nani camminano sul fondo dei laghi.»

Raccolsi aria, come potessi svuotare quella sacca e mi immersi, una bracciata rapida col moncone, una più ampia con l'altro braccio e poi i piedi che scuotevano, proprio come alcuni di quei pescatori mi avevano suggerito di fare tempo prima. Non si trattava di pesce e nemmeno di acqua salata, eppure trovai una seconda sacca d'aria, dopo quella una terza e non so quante altre finché la galleria non cominciò a salire e dopo poco non uscii dalla superficie dell'acqua.

Laggiù si provava caldo, tutto quello che portavo si asciugò in brevissimo, quel calore mi ricordò le mie terre d'estate, e provai paura. Quel calore poteva solo significare che l'inferno si trovava molto vicino.

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