30) Il cimitero delle statue
Ho raggiunto la cima del pozzo arrampicandomi con un solo braccio, per un'altezza infinita, nel buio. Ci sono riuscito anche se, prima di cadere, solo immaginarlo sarebbe stato surreale.
Ora, dopo aver visto la morte, la mia mente ragiona fredda, invece di puntare dei fini punta dei bersagli, la mia pelle sopporta qualunque dolore, il mio spirito non si affievolisce.
Non può più affievolirsi ormai. La vita deve temermi, portarmi sul fondo dell'inferno non le è bastato a sconfiggermi, ora la vita lo sa ma soprattutto lo so io.
Questo riportato qui sopra lo scrissi appena ritrovato il diario e una luce. Credo in queste parole, tuttavia vi intravedo una sovreccitazione che non condivido più.
Il sangue della bestia nello stomaco riempì di fervore il mio corpo per qualche giorno, lo stesso per il mio morale visto quel che scrivevo. Tuttavia tornai presto alla prestanza fisica di un viandante senza dimora, ora alleggerito di un pezzo, lo spirito mi rimase ma non infiammato, bensì tranquillo e costante, come la carbonella incandescente nascosta sotto la cenere.
Trascorsi così tanto tempo al buio che quando ritrovai una lanterna mi stupii di vedermi i piedi, mi spaventò pure il mio moncone, per la prima volta vidi per bene il segno di un passato che non poteva riscriversi.
«Chissà cosa direbbe mia madre... Che pensiero stupido.» spensi la lanterna, per non vedere il moncone e non pensarci «La mamma non ci crederebbe» la luce cominciava a stancarmi le pupille e il buio a insegnarmi qualcosa «Mia madre non ha idea di cosa sia l'oscurità» la serpe di fuoco che avevo sconfitto non viveva da sola là sotto, anzi, sporto nei pozzi potevo vedere il baluginio delle loro fiamme, altre serpi accese nel buio come per attirare le prede.
«Cosa ne sa mio nonno? Lui non ha mai battuto un piccone fuori dal suo orto.» dopo quell'esperienza il braccio mancante l'avrei sostituito volentieri con un piccone.
«Mia madre ha sempre spellato e toccato carcasse di conigli, mai quella di persone.» tra i cadaveri della squadra di nani ritrovai le mie cose, non presi altro se non due lanterne, qualche brandello di vestito e un piccone di riserva.
«Mio nonno alla vista di una moneta d'oro s'alzerebbe dalla sedia per saltare fin al soffitto, non ha idea di quanto ce ne sia al mondo.» non poteva nemmeno immaginare quanto ne stessi lasciando nelle tasche di quei nani, morti ammazzati.
Non posso dire però d'aver lasciato tutto senza la minima tentazione, accesa una lanterna notai una tiara ingioiellata luccicare sul cranio annerito di uno dei nani «Potrei portare questa a casa e fargliela vedere.» ipnotizzato, allungai il braccio destro per prenderla, la toccai col moncone. Mi accorsi dopo che il braccio destro era quello che mancava, lasciai lì anche quella tiara «A casa farò vedere il vuoto di quel che ho lasciato qui.»
Il labirinto, un ostacolo che Cava Inferno mi dava per la prima volta, un altro ostacolo che avrei posto alle mie spalle, di fronte alla via di fuga.
A furia di girarvi riconobbi quella parte di sotterraneo come un'unica gigantesca caverna, dalle quali profondità si alzavano centinaia di colonne, a loro volta attraversate in orizzontale da ponti e gallerie, il Dedalo dei pozzi e dei ponti appunto come lo chiamava Baff Uncino.
Uno degli ultimi ponti che percorrei lo trovai spezzato, posai metà del piede nel vuoto e allungai la lanterna senza trovare l'altro capo del ponte.
«Mia madre di sera accende una candela, non ha mai acceso una torcia» ne costruii una coi vestiti che avevo raccolto, avvolti sulla cima del piccone di riserva, l'accesi alla fiamma della lanterna e la sporsi «Mia madre non ha idea di nulla di simile.» illuminai l'altro capo del ponte, lontano, riempito di un gran numero di statue, nani pietrificati a decine, quelli più vicini al ponte distrutto tendevano le mani verso il basso come per prendere al volo qualcuno che stava cadendo «Mia madre...» sbuffai e scagliai la torcia dall'altro lato del salto. La sua luce diede un centro alle mie pupille, un segno, un cerchio da colpire. Lanciai dall'altra parte tutto, tranne che un piccone. Con quello stretto in mano presi la rincorsa e saltai.
«Ah!»
La testa del piccone conficcata nella spalla di una statua e i miei piedi a penzoloni nel vuoto. Allungai il moncone per posarlo sulla mano di un nano, tesa a coppa, con quella riuscii a sollevarmi «Grazie» gli feci «Anche a te.» tolsi il piccone dalla spalla dell'altro e raccolsi la torcia da terra.
Sollevata sopra la testa illuminò l'ingresso di una nuova stanza «È la fine del dedalo» una conca gremita di statue, uno stadio al cui centro si trovavano altre statue e ancora altre per tutti gli spalti. Talmente stipato di nani l'ingresso di quella stanza che ci dovetti camminare sopra.
Posati di nuovo i piedi a terra, presi a passeggiare in una folla immobile «Almeno non mi sento solo.» una bugia, la mia voce prese a schiaffi il silenzio tombale che dominava quel luogo «Davvero...» mi morì in gola tanto il suono si trovava fuori luogo, pure l'aria che spostavo con me parve facesse rumore, mi parve infastidire un'imperitura quiete. A pensarci bene, mi trovavo nella più grande e popolata tomba che i miei incubi potessero mai immaginare.
Mi fermai e per qualche istante stetti come una statua anch'io. Guardai i nani attorno a me, ne studiai il volto, di quieto quel luogo non possedeva nulla, me ne accorsi dall'espressione di quel nano alla mia sinistra, i denti di fuori, le mani al collo di un suo simile, cercai alla mia destra dove ne trovai uno con la mandibola storta in un grido e il piccone piantato nel cranio di un altro, ancora guardai avanti, dietro e ancora più in là.
Nani che si strangolano tra loro, nani che si pestano sotto gli stivali, nani che si conficcano lame e picconi da tutte le parti. Quello era un campo di battaglia. Sapevo che i nani si pietrificavano, morti di stenti e privazioni, ma pensavo accadesse dopo un lungo periodo. Questi nani dovevano aver combattuto per un periodo tanto lungo da giungere alla pietrificazione senza nemmeno smettere.
La ferocia imperterrita mi mostrava le sue vittime, numerosissime, spavalda la ferocia ci riempiva un intera sala e le abbandonava lì, perché al mio arrivo mi congelassi dalla paura.
«Sono tantissimi morti...» contai i morti visti fin a quella profondità.
I compagni del capitano nanico Beedwarf, pietrificati nella testardaggine. Poi la squadra di Baff Uncino, carbonizzata dalla tentazione. E pensai pure ai vivi, il nano che teneva la parete di gemme senza volersene separare mai, e il nano Filomeno fermo nella sua stanza per non far passare nessun altro, mi venne molto facile immaginare pietrificati anche loro.
Quello che tuttavia guardavo adesso le superava tutte, mi scuoteva il cuore in petto «Com'è possibile lottare tanto?» dovevano aver impiegato anni di combattimento prima di pietrificarsi tutti quanti «Sapete cosa? Non mi rammaricherò per voi: eravate già pietra prima di diventarla.»
Uno schiocco rimbombò in tutta la sala. Mi zittii, accucciato sotto l'altezza dei nani. Poteva trattarsi di un sasso cascato dal soffitto, oppure di una di quelle statue che picchiava il piede per terra dalla rabbia.
Strinsi le labbra tra loro e ripresi a camminare, dall'altro lato della sala mi immaginavo l'uscita e seguii il tragitto di pavimento lasciato libero.
Mi fermai di fronte a una lancia tesa verso il mio ombelico. Al centro della sala una schiera di nani proteggeva un cumulo di gemme, lo intravedevo dietro i pennacchi dei loro elmi e tra gli spallacci delle loro corazze, doveva trattarsi di un tesoro dai pezzi grossi e unici.
Allungai passi lenti attorno al circolo di quella schiera, passavo tra la punta delle lance e i nani a cui erano rivolte, uno a uno intenti a gridare qualcosa di iracondo che ormai non si sentiva più.
«La piazza del tesoro comune.» bisbigliai tra me «Oppure un magazzino... ma i nani che sono qui, combattevano per la spartizione? O per prendere tutto o per...» sfiorai qualcosa e mi fermai, si trattava di una gemma blu, stretta tra le braccia di un nano «Ma che bel bottino, amico.» alzai gli occhi sul suo volto, mi stava guardando.
Trattenni il respiro, col cuore all'improvviso a tamburellare il petto, alzai la mano e tesi il dito verso l'occhio del nano, posai il polpastrello sulla sua pupilla «Soltanto pietra» non si mosse. Poi abbassai la mano verso la gemma, e vidi gli occhi seguire la mia mano. Saltai indietro di colpo, che la punta di una lancia mi punse sul filo della schiena. Paralizzato, controllai gli occhi dei nani di fronte a me, tutti me li puntavano contro. Voltai il mento e trovai le mie spalle indicate da tre nani con le loro lance dirette su di me.
Un passo avanti, un battito di ciglia e tutto tornò come prima, come lo avevo trovato all'arrivo.
«Uff.» sospirai «Sono qui, solo per passare.» parlavo alle pietre «Sto solo cercando Ror.»
«Ehi» un sussurro, o forse un fruscio. Presi a camminare sperando di non sentirlo più «Ehi» di nuovo quella voce presi a correre, sbattei subito sul gomito di una statua, rimbalzai sulla schiena di un'altra e caddi con la mano su un lingotto, sollevai il naso verso quel nano che lo teneva tra le mani, i suoi occhi feroci sembravano tremare dalla rabbia, altri sguardi su di me tutt'attorno, più sfioravo statue più queste mi puntavano, mi notavano, si muovevano, senza che le vedessi, prendevano a inseguirmi.
«Ehi!» qualcosa mi afferrò il polso e mi strattonò verso di sé «Sta zitto.» un nano, un nano vivo, stringeva così forte che non sentivo più la mano.
«Farai arrabbiare le statue se continui così.»
«Sono Rododendro del sud, sono qui per Ror.»
«Chi se ne importa?»
Una mandibola rigida da cui cascavano dozzine di trecce nocciola, i capelli lunghi e lisci mescolati con una barba identica ornata di anelli d'argento, di certo non portava i segni della pietrificazione «Vuoi il tesoro?»
«Chi sei tu?»
«Parla piano!» sibilò «Le statue hanno le orecchie.»
«Non voglio il tesoro, io voglio Ror, salvare i nani e...» notai l'atteggiamento guardingo di quel nano, le ginocchia piegate e quel suo continuo controllare attorno senza guardarmi in viso «Voglio scrivere le vostre storie assieme alla mia.»
«Vattene via.»
«Vattene tu, esci di qua.» non mi ascoltò nemmeno.
«Ti trovi nella sala del tesoro di Cava Inferno. Accumulavano tutto qui, prima che le cose sfuggissero di mano.»
«Le cose sono mai state sotto controllo qua sotto?»
«In realtà no.» corrugò la fronte e mi guardò in faccia per la prima volta «Ma tu chi sei?»
«Rododendro del su...»
«Ah sì.» tornò a guardarsi attorno «Io sono Udorf, fratello Ror.»
«Fratello di Ror?» spalancai gli occhi.
«Fa silenzio!» si avvicinò a me per bisbigliare «Ror ha molti fratelli, Rododendro, per la maggior parte li trovi pietrificati nel Dedalo dei pozzi e dei ponti, morti nel primo salto, oppure qui, pietrificati. Beh, insomma, non tutti pietrificati: ci sono ancora io.»
«Che ci fai qui? Sei un cavatore? Un geologo? Un capitano?»
«Aspetta...» trattenne il respiro, la fronte in avanti, le pupille a guardare attraverso le sopracciglia «Le statue si muovono...»
«Tu sai come difenderci, giusto? Non è una novità per te.»
«Oh no.» i baffi di quello si sollevarono assieme al suo sorriso «Non è una novità, è un'occasione.»
«Tu vuoi il tesoro?»
«Tutto quanto.»
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