25) Trappola e sacca vuota
La scala a chiocciola di quel pozzo, senza parapetto, lasciava che con la fiamma sporta intravedessi il fondo, e più scendevo più le vertigini diminuivano.
«Hai capito?» chiesi a me stesso «Più scendi, più ti rilassi.» mi fermai per guardare in alto i gradini già passati, l'idea di risalire suscitava tremori alle ginocchia
«Non può essere un caso.» chiunque avesse progettato lo scavo di quel pozzo e quelle scale tanto impervie, lo aveva fatto con una intenzione chiara
«È una trappola.» mi ricordò quelle che mi mostravano i pescatori di Portopesce, a forma d'imbuto.
«Facile entrare, molto difficile uscire.» una caratteristica che permeava tutto quel luogo e di cui non mi stupivo più, ero una preda, dentro quella cava.
Il fondo del primo salto quel grosso pozzo circolare, luccicava di gemme con un pavimento irregolare di macigni e pendenze, baluginava di riflessi come onde di un mare congelato all'improvviso.
Esplorarlo col lume mi portò a trovare una mano. Non respirai mentre sollevavo la luce su quella, ne seguii il polso e poi la spalla fin ad arrivare a un volto di pietra, quello di un nano.
Gli occhi chiusi sotto due palpebre corrugate, i denti stretti, quella faccia aveva sofferto e forse soffriva ancora. Alzai lo sguardo e notai le sue gambe, imprigionate sotto il peso di un macigno.
«Ehi nano!» esclamai «Ci sei ancora?» la mia voce partì da me esclamata, ma salì su per il pozzo ingigantita, si trasformò in un rombo di tuono che toccò il soffitto per tornarmi in un eco che fece tremare le pareti «Ci sei?» fece, strinsi le labbra e afferrai la picca.
Con una leva sotto il macigno, potevo sperare di sollevarlo, ma prima mi toccava scavarmi una nicchia per la punta. Mirai bene sulla base della pietra e ci vorticai il piccone contro, diede uno schiocco del quale sentì il rimbombo salire, come la mia voce poco prima, lo seguii verso l'alto con lo sguardo, mi tornò indietro fortissimo, con lui scesero anche della polvere, piccola ghiaia che mi rimbalzò sul naso.
Non ci volli riflettere e diedi un secondo colpo. Dopo il rombo, dal soffitto sopra al pozzo giunse uno scricchiolio, sempre più forte fino a fermarsi di colpo.
«Che cos'era?»
Un attimo dopo una gigantesca stalattite entrò nella luce della mia lanterna, calò dall'alto nel silenzio e schiantò sul terreno con tanta potenza che venni sbalzato in aria e ricaddi al suolo.
Mi fischiarono le orecchie, tornai a sentire in tempo per accorgermi che rimbombo dello schianto risaliva la parete per echeggiare in un suono potentissimo, da scoppiarmi i timpani, a cui seguì un altro scricchiolio sempre più forte e poi interrotto.
Sgranai gli occhi, un'altra stalattite stava cadendo verso di me, non la vedevo ma lo sapevo, la percepivo volare nel buio. Alzai il lume, saltai in piedi, vidi un cunicolo incorniciato dal luccichio di gemme.
Corsi per imboccarlo ma prima che ne passassi l'ingresso la stalattite schiantò sul pavimento, come la prima non mi colpì ma mi lanciò per aria e atterrai già nel cunicolo.
Schiena a terra rimasi zitto finché non fui certo che quel secondo colpo non richiamasse un altro macigno volante. Le due stalattiti cadute luccicavano come il pavimento e, a vederle, la forma di quel pavimento pareva il risultato di molti crolli.
Trovai il coraggio di tapparmi la bocca, lasciare le scarpe e tornare là, in punta di piedi. Del nano non riuscii più a trovare nulla, sepolto. Sollevai il mento e guardai su, solo per un attimo però, temevo che le stalattiti potessero calare in quel momento e bucarmi l'occhio.
Un pavimento ingioiellato sotto un soffitto pericolante, suscettibile a ogni suono di piccone, si trattava anche quella di una grossa trappola e non una qualunque, quella trappola destinava la morte a ogni nano avido.
Supposi che nessun nano del genere avesse superato quel punto della discesa, tuttavia notai di nuovo la cornice di gemme attorno al cunicolo dov'ero scappato. Per me luccicava come a indicare la via di fuga, per un nano avido invece suonava come la promessa di qualcosa di più succulento da trovare, di gemme e filoni ancora più ricchi.
«Chi si ferma per le gemme, o muore o non le ottiene» sussurrai «Tutti gli altri proseguono...» imboccai il cunicolo e questo prese subito pendenza «...e scendono ancora.» e io scesi.
Sempre di più, in quella grotta infinita, cominciavo a scorgere un progetto, gli schizzi di un disegno, non una formazione spontanea ma una costruzione animata da un intento: far scendere i nani.
Le caratteristiche del nano, agile negli spazi angusti, abile minatore, avido di gemme, e pure le qualità che gli stimavo, la testardaggine, la forza, la resistenza, tutte queste cose la cava le esigeva per farsi esplorare e al contempo le sfruttava per irretire chi le possedesse. Come un piccolo cappio sull'ingresso di un buco, non cattura il lupo e nemmeno lo attira, ma è destinato alla talpa, così la cava destinava un cappio al collo dei nani.
Iniziai per questo a guardarmi alle spalle, a sollevar la lanterna più spesso, fino al soffitto. Il timore di quel posto diminuiva, ora temevo l'incontro col suo architetto.
Intanto l'aria attorno a me si scaldava, le pareti si costellavano di gemme sempre più grosse e il mio passo si appesantiva.
Stesi il mantello a terra qualcosa come quattrocento passi dopo il primo salto, senza il corso del sole in cielo il tempo era trascorso senza di me, il sonno me lo disse, col battere delle palpebre frequente fino a non aprirle più.
Spensi il lume, silenzio.
Rannicchiato sul bordo del cunicolo, sotto il mantello sperai di confondermi con l'ombra e sparire anch'io. Potevo immaginare qualsiasi cosa aggirarsi in quella remota oscurità. Qualcosa che gli uomini della superficie non raccontavano e forse nemmeno immaginavano.
Ricordai in quel momento dei draghi, menzionati da Lologgi mentre mi raccontava della cava, il loro alito si accendeva con le lanterne, posai di nuovo le dita sulla miccia della mia, ce le tenni per assicurarmi che fosse spenta, il loro fiato può dare allucinazioni, sollevai il mantello sul naso, e si preannunciano con un fischio, stappai le orecchie e respirai il più silenziosamente che potessi.
Addormentato senza accorgermene, mi svegliai di colpo, convinto di vedere delle fauci nel buio. Tirai fuori l'acciarino e lo picchiai contro la mia selce, le scintille sembravano illuminare quella bocca e confermare le mie paure.
Mi maledissi cento volte prima di riuscire ad attizzare lo stoppino della lanterna. Alla luce della lanterna la galleria non mostrò nulla di nuovo se non che, mi accorsi, le fauci nel buio le vedevo proprio nella direzione in cui il cunicolo proseguiva.
«Prima di partire devo mangiare.» temporeggiai con questa scusa, in realtà provavo una stretta allo stomaco da indurmi il rigurgito.
Aperto la sacca mi accorsi di quanta roba portassi con me che lì dentro non poteva servirmi, come la seconda mantella per la pioggia, la piccola accetta da legna, una delle due cinture, o quella giubbetta di lana, sentivo tanto caldo nemmeno immaginavo di indossarla.
Vuotai la sacca da quella roba, le infagottai attorno il mantello e lo mollai in un angolino, accanto a una roccia. Sarei ripassato di lì a prenderlo, al ritorno. Guardavo quella roba abbandonata e la immaginavo coprirsi di polvere e invecchiare nel tempo e in quel momento dirmi addio, certa di non vedermi più mentre affermavo
«La prendo al ritorno, ho detto.»
Tra tutte le cose che levai dalla sacca mi rimase in mano il diario di viaggio, mi domandai perché non lasciarlo piuttosto di portarlo per strettoie e pericoli. Dopotutto anche quello ingombrava e leggerlo là sotto costava l'olio delle lanterne.
Non volli lasciarlo comunque. Dimostrazione di quanto, senza volerlo ammettere, ero convinto di non veder mai più quel fagotto mollato lì.
Quel diario lo tenni anche nelle profondità dell'abisso, e non per banale affezione, per qualcosa di più grande che posso spiegare. Lì dentro tenevo il racconto della mia storia, una storia che dava vigore alla mia identità.
Ogni cosa che ha una storia è importante e ogni cosa importante ha una storia.
È una cosa che sapevo fin da bambino: nei campi del mio paese correvano due torrenti, uno portava il nome del mio paese, l'altro invece aveva un nome tutto suo: Millerì.
La cosa mi infastidì a lungo, anche perché il torrente senza nome era quello più vicino a casa mia, e molte volte visitai il Millerì per confrontarli. In verità i due torrenti erano nientemeno che uguali, solo che uno, il Millerì, aveva una storia.
Mi diceva il nonno che tempo fa discese un ambasciatore dal nord che prometteva di portare il suo padrone e saccheggiare tutto il paese. Caso volle che appena arrivato incontrò un folletto, questi si ingraziò tanto l'ambasciatore da fargli credere qualsiasi cosa.
Vedi, gli disse, qui signori e cavalieri sono andati in guerra e torneranno presto. Tuttavia non devi temere per le tue mire di saccheggio: per sapere quanti saranno i cavalieri da combattere, e prepararti, ti basta contare le anse di questo torrente, infatti ogni signore ha la sua ansa personale da cui abbeverarsi.
Allora l'ambasciatore risalì il torrente fino alla foce per contare le anse mentre scendeva, ma le anse erano così tante che quello perse il conto e dovette riprendere dalla cima, per dieci volte. All'undicesima tornò dal folletto e si lamentò Mille signori? Non tornerò mai a sfidare questo paese. Il folletto lo seguì supplicandolo di provarci e più supplicava più l'ambasciatore si convinceva che non sarebbe tornato.
Ovviamente nel mio paese non sono mai vissuti mille cavalieri, tant'è che la gente, sulla base di questa storiella, era affezionata alle mille anse del torrente Millerì e ci si abbeverava convinta assomigliare a quei signori.
Alle mie orecchie questa storia suonava ridicola, forse per gelosia, anche per questo non avevo mai creduto che i folletti esistessero. Certo, dopo aver conosciuto il folletto Damafelco, quella storia ha tutto un altro suono. Però non è questo il punto.
Il punto è che Millerì aveva un nome proprio perché possedeva una storia, perché possedeva una storia era il torrente importante del paese.
Col mio diario di viaggio, davo una storia a me stesso e a coloro che mi appartengono e loro mi avrebbero chiamato con un nome proprio e con senso d'appartenenza, penso ai miei nipoti, e magari anche a mio nonno e mia madre
Quindi no. Non avrei alleggerito il mio zaino dal diario di viaggio, anzi si trattava del carico più importante, me lo sarei combattuto coi banditi piuttosto di cederlo, o meglio, vista la situazione, lo avrei combattuto con le ombre dell'abisso.
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