22) Il nano senza più nome

Quella parete di pietra, una discesa semplice per il mio corpo leggero e le dita dei piedi abituate agli sforzi, senonché sottovalutai la patina umida rimasta sulle rocce, scivolai non so a quale altezza, caddi e credetti di morire sfracellato.

Il pozzo fece da tromba al mio grido, con quel pallido raggio di luce che scendeva verticale e la mia ombra che volava nel vuoto tra le ripide rocce. Tonfai nell'acqua e l'inerzia mi portò sotto, in cinque bracciate ancora non tornavo in superficie.

«Ah!» ecco che uscii.

Lassù un puntino di luce oscurato dalla mole delle pareti e di quella torre che gli stava in mezzo, il lago calato a quella profondità dava su un'altra riva di fronte alla quale trovai l'ingresso di una grotta, nero come se dentro vi fosse soltanto un muro coperto d'inchiostro.

«L'ingresso della Cava?» mi aspettavo dei guardiani e un cancello, per lo meno una porta o una scritta, dovevo farmi una promessa giunto all'ingresso «Qualunque cosa veda, tornerò indietro...» sebbene per ora non mi pareva d'aver trovato ancora un ingresso ufficiale «Quando lo troverò me lo prometterò per bene.»

Entrato in quella grotta seguì degli scalini salire verso l'alto, scivolosi anche quelli. Occupai qualche momento ad accendere la mia torcia, tenuta nascosta all'asciutto della sacca. Con quella accesa accanto al mio viso i miei capelli si asciugarono, anche la mia manica, vidi molto bene ma nulla di ciò che mi aspettavo. Dove si trovasse la grande porta, o invece la porta piccola, non ne avevo idea, oppure quella schiera di nani Avari a sbarrarmi il passaggio come raccontava Lologgi, eppure non trovavo nessuno. Dopo l'ultimo scalino il terreno tornò asciutto.

«Bene» mi dissi «Però... Se fossi già dentro dovrei vedere le gemme e gli ori.» eppure in tutto quel cunicolo nulla più che grigia roccia, lì una sfumatura di granito blu, lì qualcosa di nero, e anche nel cunicolo dopo e nella discesa, ma sempre banale pietra

«Dov'è che inizia?» voltai un'altra curva pieno di aspettativa, tradita.

«Dove sono le ricchezze?» strinsi gli occhi e corsi in fondo a un'altra discesa, senza veder un solo luccichio

«Dove sono i nani?» un timore fece capolino tra i miei pensieri, feci qualche altra curva del cunicolo «Possibile che non ci siano?» l'ansia mi toccò il cuore e dilagò nel mio sangue, un veleno che intossicò di smania la mia discesa.

«Possibile che anche Lologgi fosse falso?» controllai gli appunti segnati sul diario alla luce agitata della torcia, loro c'erano «Sì l'ho toccato, l'ho sentito... ma non l'ho visto. Poi a toccarlo poteva sembrare un sasso e poi sono svenuto almeno due volte quelle notti.»

«No...» piagnucolai «Non così.» piansi ma non smisi di avanzare «Pensavo fossero veri!»

Le lacrime offuscarono la vista, non vidi un gradino e caddi prono. La torcia mi scivolò e strisciò avanti, filò al centro di un salone, e arrivò a una parete piena di luccichii, dal pavimento al soffitto, poi si spense.

«Spegni la luce, sprechi fuoco.» una voce svelta, mi paralizzò.

«Chi ha parlato?» abbracciato a me stesso aderii al muro con la schiena e pregai che quella protuberanza alla mia sinistra non fosse un nano pronto a parlarmi nell'orecchio. Tre, quattro, cinque lunghi respiri, ancora nessuno mi rispose, trovai allora il coraggio per ripetere con un sussurro flebile flebile «Chi ha parlato?»

«Oh...» il gemito di qualcuno, dall'altro lato della sala, sporsi la testa, con l'orecchio destro in avanti, sporsi anche la schiena e feci un passo «Oh se potessi fermare il tempo.» brontolava la voce, si lamentava.»

«Perdonatemi, sono Rododendro del sud.» avanzai incerto «Mi riuscite a vedere?»

«Sì che ti vedo, umano.»

«Allora sei un nano!» battei le mani.

«E ti tengo di mira.

«Non sono ostile.» le alzai «Sto cercando l'ingresso di Cava Inferno.»

«L'ingresso? Ci sei dentro da un pezzo ragazzino, e se la cercavi... allora sei ostile.

«Ti prego!» immaginai mi puntasse contro un'arma. «Ti prego, sono venuto perché un nano mi ha detto dove fosse, sono qui sulla sua fiducia... è legale... credo.»

«Che ci vuole a trovarla? Scivolarci dentro è facile e all'inizio nemmeno te ne accorgi.»

«Sei il guardiano della cava?»

«No, io guardo i gioielli. E se tu li volessi prendere...»

«No!» misi entrambe le mani sul cuore «Ti do la mia parola che non li voglio, tagliami la testa altrimenti.»

Lui borbotto, un nano che borbotta invece che uccidermi o afferrarmi o insultarmi, un nano che borbotta in quel momento mi spaventò, ma col senno di poi, un poi molto vicino, compresi che il borbottio di un nano è come il mugolio dei cani quando quando gli dici "A cuccia!" e loro ci rimangono.

«Cosa ti ha spinto a scendere?» mi domandò «All'inizio non c'è niente, hanno già preso tutto... e portato più giù.»

«Devo portare un messaggio, e avevo paura di non trovare il destinatario.»

«La paura è il classico movente della discesa.»

Raddrizzai la schiena, quel dialogo nel buio mi ricordò quello con Lologgi, mi diede forza, mi diede l'autostima per alzare un tantino la voce e paragonarla a quella del nano con cui stavo parlando.

«Posso avvicinarmi?»

«No.»

«Posso accendere la luce?»

«No.»

«Puoi darmi la mia torcia?»

«Mh. Solo perché è tua.»

Sentì il legno strusciare sul pavimento, e battermi sulla punta del piede, sollevata tra la bocca e la mano bastò qualche soffio per riattizzarne la fiamma.

«No!» esclamò il nano mentre la luce gli illuminava gli occhi, il volto, il corpo e la montagna di gemme e pepite che teneva dietro la schiena, una parete di preziosi che riempiva un varco di due lunghezze e alto fino al soffitto. Una miriade di ricchezze ammucchiate in bilico, destinate a collassare se non per il sostegno del nano, piantato a gambe larghe e braccia aperte.

«Ti avevo detto di no, maledetto umano! Sei venuto per levarmi qualcosa? Ti levo la vita, sai?»

Camminai in giro per la sala, seguito dagli occhi arcigni di lui, divertito all'idea di costringerlo a guardarmi gironzolare senza potersi staccare dalla sua parete di gemme e pepite. Grattai l'unghia su una roccia, diedi una sbirciata al cunicolo da cui provenivo, allungai il collo in quello che proseguiva oltre la sala in cui ci trovavamo. Alzai le spalle e gironzolai ancora, col mento in fuori e la bocca storta in giù «Dove sono tutti gli altri?»

«Chi?»

«I nani di Ror, quelli che fanno la guardia.»

«Sono scesi per seguirlo. Qui ci sono io.»

«Il più avaro di tutti.»

«Cosa intendi?» gracchiò il nano.

«Intendevo il migliore degli Avari.»

Quel nano portava due baffetti a ricciolo, una frangia di capelli marroni e la barba fino al petto. Parlava appesantito, costipato, forse dal peso di quella parete, o forse da qualche bisogno al quale non rispondeva da troppo tempo.

Mi piaceva, devo dirlo proprio, mi piaceva, e ancor di più mi piaceva stuzzicarlo. Mi sedetti di fronte a lui, raccolsi dei sassolini e cominciai a lanciarglieli uno alla volta, prima giocavo a centrargli la fronte, senonché con quella frangia mi venne difficile, così cominciai a mirare la pancia, più o meno dove immaginavo l'ombelico.

«Sei più magro di come ti immaginassi.»

«Io non ti avrei proprio voluto immaginare.»

Borbottava, brontolava, gli davo davvero fastidio, ma finché badavo solo a lui, finché non davo cenno all'ammasso che sorreggeva, non reagiva per nulla, pareva anzi preferire che continuassi a lanciargli sassi, a ridacchiare e a fargli domande poco discrete

«Come di chiami? Reggimuro degli Avari?»

«Non te lo dico!»

«Fermaporte degli Avari, se non me lo dici terrò questo nome.»

«Finché terrò il mio nome per me, mi sarò risparmiato molta della mia pazienza e rischierò meno. Maledetto umano.»

«Oh» notai là di lato, accanto al nano, tante lanternine, tutte messe in fila una dietro l'altra «Ma guarda.»

«No! Non toccarle, sono le mie, quelle non sono da usare. Le conservo per quando...»

«Ma sono tutte piene!» ne attaccai una alla sacca e ne presi altre due, una per mano.»

«Ehi!»

«Non ti dispiace darmene, vero? Io non vedo niente e poi tu hai il tuo muro.»

«Oh!» mugolò ancora, come lo avevo sentito prima «Vattene.»

«Va bene.» allungai il passo verso il seguito della Cava.

«No. Non di lì!»

Lo ignorai, imboccai il cunicolo e battei piedi, sempre più piano come me fossi già lontano.

Quel nano tuttavia non lasciò la sua parete e le sue rimostranze si chetarono in fretta. Guardai alle mie spalle, oltre il cono di luce della torcia il salone di quel nano tornò buio, oscuro come la pece e silenzioso. Quel nano sarebbe rimasto lì a sorreggere quel muro anche fosse passato di fronte a lui il mondo intero e tutti i suoi anni. Tornai, e lo trovai come lo avevo lasciato, non potei che guardarlo con la bocca aperta e un sopracciglio alzato.

«Chi sei?» lo chiesi in modo tanto spontaneo che lui mi rispose.

«Reggiparete.»

«Non è vero, quello l'ho inventato io ora.» scrollai la testa «Tu sei uno di quelli che non riesce a uscire.»

«Io non voglio uscire. Sai quanto ci ho messo a raccogliere tutti questi tesori? Sai quanto ci ho messo a ordinarli tutti per bene dietro di me? Io, finché sto qua, so di averli, qualsiasi altra cosa potrebbe farmi rischiare di perderli.»

«Vorrei sapere il tuo nome, nano.»

«Maledetto umano, cosa importa il mio nome? Io sono quello che ha la parete di gemme, d'accordo? E non ti preoccupare: la parete sarà sempre mia, perché la proteggo bene e non potrai mai confonderti con un altro nano, non importa il nome. Io sono quello con la parete di gemme.»

«Non ti ricordi il tuo nome.» mi tolse il respiro e dovetti riprenderlo prima di domandare «Se arrivasse uno più forte di te e ti levasse di qui? Chi saresti?»

«Non sarei nessuno! Vai a dare ansia a qualcun altro.»

«Se portassi Ror qui?»

Il nano saltò in su con lo sguardo, da terra a me, inspirò di colpo e smise di piagnucolare «Ror? Ror potrebbe anche prendere il mio posto.»

«Perché lo ammiri? Perché lui è molto più forte di te?»

«No, perché lui ricorda il mio nome.»

Mi sedetti di nuovo. Quel nano era maledetto, ingobbito dal peso di quella parete di ricchezza, sistemata un pezzetto in bilico sull'altro, tutto addossato sulle sue spalle e solo sulle sue, che non fossero quelle di nessun altro. Cominciai a parlargli a bisbigli, cercai di entrare nella sua mentalità, di lasciarmi sfiorare dai suoi pensieri.

«Cosa eri prima di questo?»

«Ricordo solo un pensiero, se vuoi proprio saperlo, ero piccolo e avevo un desiderio: "Se potessi chiudere in uno scrigno la prima ora del mattino, quando tutto può ancora succedere e tutte le ore che restano sono ancora tante. Le terrei tutte lì, che se qualcosa dovesse capitare avrei sempre quelle di scorta." Era una poesia di famiglia, credo.»

«Ma non ti capiterebbe mai niente.»

«Quando?»

«Se le tue ore le mettessi da parte, non ne vivresti nemmeno una, quindi non ti potrebbe mai capitare nulla.»

«Un motivo in più per tenerle da parte. No?»

Tremai, provai paura di quelle parole, e del posto in cui mi trovavo. Tutta quella parete luccicante sembrò poter calare su di me e masticarmi. L'indole di quel nano mi spaventò, mi tirai un tantino indietro, lo avevo preso in giro, avevo cercato di interrogarlo, ma in realtà si trattava di pazzia vera, non di un gioco, né di uno scherzo, né di un semplice vizio. Quel nano era pazzo.

«Rododendro del sud.»

«Cosa?» fece il nano.

«Niente, è il mio nome.» mi alzai «L'ho ripetuto... giusto per ricordarmelo.» presi la direzione del cunicolo, ora convinto che le pupille del nano potessero allungarsi su di me e afferrarmi le caviglie, come fossero grinfie d'ombra, per tenermi lì con lui.

«Rododendro.»

«Sì?» sussultai.

«Porterai qui Ror?»

«Hai paura di separarti dalla tua parete?»

«Sì.» sembrava lì inchiodato per le mani e per i piedi.

Non glielo dissi e proseguii.

Un Avaro, della sua identità rimaneva solo il nome della stirpe, Avaro, chissà che non fosse piantato lì da decenni, o forse da secoli. Oppure da molto meno ma già pazzo, corrotto dall'aura eccitante dei gioielli.

Di lui non mi volli preoccupare, per il momento la mia attenzione si volse a me e alla paura di impazzire anch'io, sicché alla prima gemma che vidi, sola e incastonata tra le rocce, rimasi imbambolato, come un cerbiatto di fronte alla luna piena, poi di colpo scappai.
Ancora più avanti, ancora più giù.

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