21) Imboccare l'abisso
Lologgi rinchiuso in una prigione di cui solo Ror aveva la chiave, Ror sperduto in una caverna dalla leggendaria malvagità, da cui soltanto Lologgi era mai uscito. Gli ultimi nani su tutta la terra imprigionati e solo io testimone della loro prigionia.
«Lologgi, vi ho sempre immaginati come creature dalle mille doti, mi hai dato prova che è vero questo e anche di più.»
«Vuoi convincermi coi complimenti? Non ti ho liberato da una cella per mandarti in una tomba.»
«Mi hai salvato dalla morte.»
«Ma non per mandarti all'inferno!»
Puntai le pupille verso l'origine di quella voce nervosa e abbassai le sopracciglia sugli occhi, il più che potessi, come immaginavo stesse facendo lui.
«Tu mi vuoi tenere lontano dalla cava, vero?»
«Sì!» mi rispose, deciso e svelto, tanto svelto che suscitò in me un dubbio
«Tu non vuoi che un altro sappia dov'è.» Lologgi non smentì «Vuoi ancora tenerla per te!»
«No...» ingoiò e si corresse «Sì. In realtà un pochino è così.» mi sfregò le braccia con le sue mani «Devi capire... Quella cava è la gemma nascosta che tutti i nani vorrebbero... È come... Adesso non riesco a spiegarmi. Non sei tu il problema, è la cava che ci attira... Puoi capire?»
«Vuoi liberarti della tentazione della cava? Dimmi dove sia. Non ti dirò se ci andrò oppure no, ma tu ti libererai di questo peso.»
«Ci andrai.»
«Molla l'inferno Lologgi, tu non lo vedrai mai più.»
Silenzio. Il suo abbraccio si separò da me, percepii i suoi passi arretrare nel buio, lasciarmi. Non fuggì, solo mi parlo da dietro un velo d'ombra o forse levando un velo del quale fin a quel punto non mi ero accorto.
«Ti dirò dov'è. Se dai la tua parola a me, come tuo salvatore e amico, che se mai ci entrassi, non uscirai senza distruggerla.»
«Distruggerla, come un cavatore? Non lo so fare.»
«Ror lo sa fare, è un cavatore, e il modo l'avevo già preparato io, tanto tempo fa.»
«Dovrei andare giù prendere Ror e fargli distruggere la sua cava...»
«Sì. Ho piazzato cunei in tutta la roccia all'esterno della caverna, puntelli già in tiro che salteranno, manca solo un cuneo, da piazzare all'interno della caverna. Messo quello, crollerà tutto.»
«Dove di preciso?» non mi rispose «Lologgi, dove?»
«È... È in un punto che mi è difficile svelare.»
«Lologgi, è il momento di farlo. Oggi! O me lo dirai oggi o il tuo destino sarà di tornarci, te lo assicuro, perché sarebbe già scritto nelle tue decisioni.»
«È... È...»
«Coraggio, Lologgi!»
La luce entrò nelle mie pupille, irruenta si versò nella mia testa e premette sulle tempie per uscirne a forza. Strizzai le palpebre coperte dai polsi.
Ancora sulla soglia di quella prigione da cui uscivo, un pertugio anonimo, infilato sotto la costa sporgente di un monte. Ne strisciai fuori sdraiato sulla pancia per il soffitto basso e per gli arbusti spinati che la nascondevano.
I miei occhi ancora dolevano mentre provavo a tenerli aperti, mi accorsi del sole basso dell'ultimo pomeriggio e di un torrentello che correva accanto ai miei piedi.
«Acqua.» mi bagnai le labbra col liquido cristallino nel palmo «Gelida.» gelida come quella in cui avevo nuotato dentro la caverna, chissà che quel torrente non alimentasse il lago sotterraneo, chissà che la chiave per liberare Lologgi non fosse sviarlo.
Un brivido mi strappò quella speranza dalla testa, tremavo dalle dita dei piedi, al collo, l'unica cosa asciutta che portassi con me era il diario di viaggio, tenuto in bocca durante il nuoto, e qualche parte del mantello.
Spogliato e acceso un fuoco ripresi dominio delle mie membra, asciugai i vestiti e scrissi tutto sul mio diario.
Il mattino, prima di lasciare quel luogo, incisi su una roccia le seguenti parole
Lologgi si trova in questo buco, dietro al lago aspetta.
Non mi importò che lo potesse vedere chiunque, di tutti quelli che ho conosciuto chi sapesse leggere non sarebbe mai venuto in quel luogo disperso. Allontanato dalla costa della montagna ancora non capii dove fossi, sebbene immaginassi quasi per certo di trovarmi ancora nelle Isole Verdi, procedetti verso nord e più avanzavo più capivo che la città di qualche giorno prima era alle mie spalle.
Nessuna strada in cui potesse passare un carro, probabile che nessuno trovasse motivo di percorrere quelle zone tanto a nord. Solo le pecore, e io seguivo il loro sentiero confuso, diramato attraverso pascoli sterminati occupati da loro, pecore dalle corna ritorte, e qui e là da cavalli senza briglie, selvatici ma amichevoli che per poco non ne riuscii a toccare uno. Un giorno di viaggio e dovetti accamparmi là, nel nulla di quel deserto vivo e silenzioso, un regno verde abitato da animali mansueti. La notte mi trovai circondato di cani, non lupi e nemmeno volpi sebbene vi assomigliassero, ma cani. Mi accerchiarono coi loro tartufi e fatta confidenza col mio odore presero a giocare con me, al chiaro di luna. Quando tornai a dormire mi si accoccolarono attorno e il mattino dopo mi salutarono leccando le mie mani.
Quanta pace suscitava quel luogo, la tranquillità di un mondo primordiale, un mondo selvatico, sotto il solo governo della natura, il mondo come Dio lo aveva fatto prima dei demoni e prima degli uomini.
Tant'è che di uomo ce n'era uno, io, e in tutta quella pace camminavo avanti come uno strappo che si apre lungo la stoffa. Sì, non ero più un ragazzo, ero un uomo.
I nani esistevano e li avevo trovati, e questo metteva un tetto alla mia casa interiore, quella che avevo costruito lungo tutto il mio viaggio.
Questo mi rendeva completo, tuttavia non questo mi rendeva un uomo. Quello che mi rendeva un uomo era la responsabilità e la forza per sopportarla.
«Sono l'unico testimone dei nani, di dove si trovino gli ultimi nani su questa terra e sono colui che sta andando a liberarli.» sospirai «L'unico.» sospirai ancora, per enfatizzare quel mio nuovo aspetto che mi si stava dipingendo addosso.
Camminavo ingobbito, come mi trovassi ancora nella grotta, il mantello lasciato a sé, svolazzare in quella brezza fredda, gli occhi stretti sotto le sopracciglia e la barba sempre più spesso carezzata dalla mia mano
«Questa me la lascio crescere fino all'ombelico.» frasi che mi sfuggivano sempre più ad alta voce in quella solitudine «Lologgi ti salverò.» masticavo tra i denti il suo nome e ripensavo alle sue indicazioni «Ancora a nord, ancora a nord e dove il vento soffia scendi nella gola.» impossibile dimenticare la voce di un nano mentre rinuncia al suo tesoro «Ti prometto che porterò Ror fuori di lì. D'altronde io ho già vinto una volta il difetto dell'avidità.»
In cima a un ultimo colle il mio sguardo sconfinò sul mare, dal quale mi giunse, appena lo vidi, un soffio di vento costante che sulla cima della collina fischiava senza tregua.
Mi tremarono le gambe al pensiero d'esser già arrivato, che la pace dei pascoli mi attrasse fortissimo all'improvviso. Percorsi il colle lungo il crinale e trovai subito una gola, tagliata nel terreno con un angolo secco, ne percorsi di sbieco l'apertura e vi discesi appena il terreno lo consentì.
Là dentro il vento ammutolì, l'aria immobile di quella gola mi tolse il coraggio di respirare. Zitta quella strettoia tra pareti, due pareti che più scendevo più mi sovrastavano inclinate su di me, zitta come le pietre che conteneva, come quei sassi su cui posavo il piede ma mi curavo di non ribaltare e rovesciare, perché non rotolassero, perché il silenzio, signore di quel luogo, non aprisse gli occhi su di me e non mi afferrasse le orecchie.
Il fondo della gola, immersa nella sua aura immota e surreale, nascondeva un lago, liscio come un pavimento di cattedrale, nero che guardandovi pareva di vedere l'oscurità di un abisso profondissimo. Al centro del lago un albero, radicato su un macigno che gli faceva da isolotto, i raggi non lo raggiungevano, in fondo a quella gola, eppure la sua chioma fioriva rigogliosa e le sue foglie riempivano ogni ramo.
«L'albero va tagliato...» ripetei le parole di Lologgi mentre fissavo l'acqua «Il lago è contro i nani, ma tu sei Rododendro del sud.» mi calai in un'acqua fredda da spezzarmi il respiro, da stringermi la gola e lasciarmi a fiatare come dopo una corsa furibonda. Ora il mio scialacquio si agitava timido nel silenzio, assieme al mio ansimare. Tenevo il diario in mano, perché di stringerlo tra le labbra tremanti non mi sarebbe riuscito, nuotando con l'altra raggiunsi il macigno e mi arrampicai.
«Non può...» respiro «Non puoi abbattere l'albero con l'ascia, userai un piccone.» sul bordo del macigno, immerso per metà in acqua trovai un piccone coperto di ruggine, come Lologgi mi aveva detto «L'albero infatti è di roccia e la roccia si piccona.»
Al fusto di quell'albero scolpito nella pietra diedi tre colpi, ne bastarono tre e dal foro che gli procurai uscì un fortissimo soffio d'aria, violento fischiò e spirò tanto forte da allargare il foro, da spaccarlo e insistere con potenza fino a far saltare per aria tutto l'albero. Questo volò soffiato dall'aria potentissima che usciva dal centro del fusto rivelato cavo. La chioma cadde e spezzò la quiete dell'acqua con fragore, mentre quel tubo d'aria ancora gettava fuori.
Atterrito dal rumore, mi strinsi al macigno e sgranai gli occhi, vidi il lago attorno a me calare di livello, ora più basso, ora ancora più basso e ora bassissimo che in due battiti di ciglia si prosciugò. Aspirata da sotto la superficie dell'acqua calò nell'abisso che nascondeva, in fondo, in fondo, in fondo, nel buio finché non si vide nemmeno il suo riflesso. Quando il soffio del fusto si chetò, del lago rimase una voragine al cui centro spiccava il macigno su cui stavo, la cima di una torre che posava la sua base nelle profondità.
Mi tremarono le gambe che lì per lì se mi fossi alzato sarei caduto di sotto, nel buio. Guardai la riva da cui mi ero tuffato nell'acqua poco prima.
«Ormai non posso tornare.» in quell'abisso mi sarei calato a forza di braccia «Ho ancora il piccone.» lo legai alla sacca, riposi lì dentro anche il diario di viaggio, incurante del bagnato ora che l'acqua sembrava non esistere più.
Guardai un'ultima volta il cielo «Ti prego, non abbandonarmi nell'inferno.» pregai, ora che sentivo paura «Ti prego.»
Poi abbassai lo sguardo e scesi nell'abisso.
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