14) Campana, il fabbro cresciuto nella barba di un nano
«Come è possibile?» il folletto Damafelco mi porgeva la pepita di Walgun, la riconobbi in uno sguardo «L'ho gettata a perdersi in mare.»
«Un tesoro che poteva ritrovare solo un folletto.»
«Non è possibile. Tu volevi rifilarmela fin dall'inizio! Per questo hai insistito tanto, hai fatto in modo che vincessi al tuo enigma.»
«Seguo le tue storie da molto, Rododendro, così come le hai raccontate in giro per queste terre e anche con qualcosa in più, non potevo farmi sfuggire questo pezzetto dorato delle tue avventure.»
«Non me lo porgere!» andai indietro spinto con la schiena sulla parete di legno «Se lo tocco... piuttosto muoio. L'ho gettato in mare, rigettacelo e non ricordare dove.»
«Ehi, Rododendro del sud, stai calmo. Allora la storia del drago è vera.» mi carezzò il braccio con la mano libera «Il drago è morto, tu non hai seguito il suo consiglio, sei vivo. È tutto apposto, questa pepita non è più maledetta.»
«Perché? L'hai esorcizzata tu con la tua magia?»
«No, Rododendro, lo hai fatto tu, quando hai gettato la pepita in mare hai spezzato quella maledizione. Ora questa è soltanto una bella pepita.»
Cominciai a credergli «Lo sai che è stata nell'intestino di un orco?»
«Sì. L'ho lavata bene. Adesso potresti riprenderla, in fondo è tua, è il tuo premio e poi, per me, potresti anche usarla come ha detto Walgun.»
«Ma sei impazzito?»
«Vedi... i draghi non dicono sempre il falso, i draghi ti vogliono confondere con delle malignità e quel che dicono dicono, falso o vero non importa, loro vogliono solo che tu ti perda.»
«È la cosa più importante, a costo di sbagliare, non dare mai retta a un drago.»
«E a un folletto si può dar retta?» tese di nuovo la pepita verso di me «Pensa con la tua testa, Rododendro, non con quella di Walgun, senti se lo spirito ti consente di farlo e fallo.»
Io uscì dalla porta di corteccia con la pepita in mano, stranito, non me la ricordavo tanto leggera e nemmeno tanto piccola.
«Addio, Rododendro.» Damafelco uscì con me e si chiuse dietro la porta «Spero di ascoltare altre tue storie.» rimise il cappello piccolo in testa «Vai a nord, non manca molto.» rimise il medio «Mi auguro di rincontrarti al ritorno.»
«Addio, Damafelco.»
«Addio» messo il cappello grande scomparve nel nulla.
Battei le palpebre, sopra la mia testa di nuovo un cielo grigio e quell'albero al centro del prato senza più fessure nella corteccia, tanto meno porte. Tornai dal contadino con una mano a sfregarmi la nuca, sperai di non stare impazzendo, l'altra mano a premere sulla tasca, sì, sentivo di nuovo la pepita, aprii la tasca e di nuovo sì, era proprio lei.
«Dove sei stato?» il pastore alzò il naso con la bocca aperta verso di me.
«Ho trovato il piccolo uomo... mi ha offerto dell'acquavite.»
«Gli hai detto del cane?» tossì nervoso.
«Sì, credo abbia capito di non doverlo fare.»
«Toh, bravo ragazzo, rifatti la bocca.» mi porse la sua brocchetta di acquavite tenuta al caldo vicino al suo petto «Rifatti la bocca con qualcosa di serio. Mica distillato di fatina, questo è tutto frutto della mia cantina.»
Diedi un sorso, lo stesso identico sapore dell'altro, quello di Damafelco, uguale al punto da insospettirmi, chissà che il folletto non si rifornisse proprio nella cantina del pastore.
«Troppo buono, caro pastore, chiudi bene la tua cantina.»
«Se me lo paghi te ne lascio da portare via.»
Strinsi il mantello sul mento «No grazie. Devo tenere dritta la via a nord.» raccolsi il bastone, il sacco e sollevai il cappuccio, quel freddo pungente odorava di umido e di pioggia.
«Andrai ancora a caccia di piccoli uomini?»
«Qualcosa del genere, vorresti venire?» quello mi rise in faccia e io risi a mia volta «Sembravi intenzionato a ucciderlo poco fa.»
«Anche tu, cacciatore del sud, correvi forte che un orso si sarebbe spostato.»
«Addio pastore.»
«Ancora una cosa, aspettavo a dirtela perché mi risolvessi il problema col piccolo uomo prima di partire, ma adesso che parti comunque...»
«Cosa vuoi dirmi?»
«Ai confini della città più a nord dell'isola si trova un famoso fabbro. Tutti raccontano, come l'avessero visto di persona, che abbia imparato il mestiere da un nano e che la sua sapienza nanesca gli muova il martello.»
«Sapevi questo e non me lo hai detto? Chi te lo ha raccontato?»
«Non sei il primo viandante che incastro per farmi aiutare.»
Mi chinai e gli baciai la fronte. Dopodiché partii.
Campana il nomignolo del fabbro, così tradotto dalle parole di coloro che mi indicarono la sua posizione. Chiara la ragione di quel nome, appena vidi il filo di fumo uscire dal suo comignolo sentii pure il battere del suo martello, rapido e irrequieto. I miei passi s'accostarono a quel ritmo senza volerlo e mi capitò di entrare nel suo laboratorio a suon di marcia senza nemmeno presentarmi.
«Un vulcano nel camino...» parlava da solo mentre gettava due bracciate di legna nel suo fuoco «Il metallo dentro la brace, gira due volte...» pareva seguire una ricetta ad alta voce «E via sull'incudine.» tolse una barra incandescente dal fuoco, prese il martello e cominciò a colpirla «Batti! Batti! Batti! Ba... Ohi!» il martello gli sfuggì e saltò indietro, gli occhi fissi su di me «Non ti ho visto entrare.»
«Scusatemi. Maestro Campana, giusto? Sono venuto qua per chiedervi dei nani, non ho nulla da darle in cambio se non qualche storia e magari» mi guardai attorno senza riconoscere nessun attrezzo se non quella zappa laggiù e forse quel acciarino, se si trattava di un acciarino «Magari in cambio la potrei aiutare col lavoro.»
«Senti, ragazzo» l'uomo portava in viso una barba brizzolata che scendeva sul petto tra due grosse spalle tutte sporche di fuliggine e scottate di fresco, avvicinato a me coprì per intero la mia visuale, il suo puzzo di fumo mi bruciò nelle narici e i suoi occhi mi schiacciarono come un insetto «Chi viene da me di solito grida, perché sanno che porto i tappi.» si tolse due pezzi di sughero dalle orecchie e mi sorrise «Deve essere la prima volta che vieni a trovarmi, cosa cerchi figliolo?»
«I nani.»
«Oh! Un altro ammiratore del mio mestiere.» tornò dietro la sua incudine e riprese a picchiare «Sai?» batté «I nani non portano tappi a lavoro» le sue frasi spezzate tra un colpo e l'altro chiarivano per bene di chi fosse la parola in quella fornace «I nani lasciano che i colpi del martello gli otturino le orecchie, come quelli di piccone, non portano guanti, loro vogliono i calli, vogliono diventare il loro lavoro e loro diventare padroni del lavoro. Cambiano» batté il martello «Capisci?» batté di nuovo «Un nano che nasce col nome... Caleo» batté «Una volta cresciuto e diventato fabbro non si chiamerà più Caleo, ma si chiamerà Fabbrocaleo, oppure Caleoilmartello, oppure Mazzacaleo.»
«Davvero?» dissi senza che quello mancò di coprire la mia voce con un colpo di mazza «Aspettate devo segnarmelo» trassi il diario di viaggio dalla sacca e volli usare un carboncino del camino di Campana, quel fabbro, per segnarmelo.
«Se la madre di Caleo lo ricordasse con un buon udito e una voce limpida, quando incontrerebbe Mazzacaleo non lo riconoscerebbe affatto. Ahahah...» stava ridendo ma si bloccò, la barra di metallo incandescente puntata su di me «Ehi! Vuoi rubarmi i segreti? Te li segni su quel taccuino malefico?»
«Io sono Rododendro del sud, cacciatore di nani, ho raccontato storie per molti villaggi di queste isole, voi siete la prima persona che può raccontare una storia a me, da molto tempo.»
«Mi aspettavo la tua visita, sei quasi famoso quanto me.»
«Potete donarmi qualcosa?»
«Cosa vorresti?»
«Trovare i nani e quindi tutto ciò che sapete su di loro.»
«Siediti lì.» mi indicò uno sgabello tratto da un pezzo di tronco.
Mi sedetti, buono e silenzioso, con gli occhi aperti sull'arte dell'uomo mentre tentavo di immaginare un nano compiere gli stessi movimenti e forgiare qualcosa di magico.
Continuò fino a mezzodì, quando il suono del suo martello cominciò a farsi familiare nella mia testa e il dondolare delle mie palpebre si ridusse a un cadere del tutto sulle pupille. Poi lo sfrigolare dell'acqua e un densissimo vapore che si alzava dalla vasca dove Campana aveva lanciato l'ultimo ferro incandescente. Spalancai gli occhi mentre l'uomo posava il grembiule sull'incudine e chiudeva il camino con una porticina in ferro.
«Hai da mangiare?»
«Sì.»
«Vieni con me.»
Mi portò sulla soglia di una radura di spighe, non vi entrammo, seduti all'ombra delle ultime chiome tirò fuori un pezzo di carne cotto a polpetta nelle briciole di pane, io tirai fuori il mio pesce affumicato, risparmiato la sera prima.
«Sai?» cominciò a parlare, ora le sue frasi inframezzate dal masticare «La gente è convinta che io possa forgiare spade con il suono dei passi di un gatto, o con la voce di un pesce» masticava soddisfatto, pareva gradire la carne «Oppure elmetti che indossati ti rendano invisibile... non sono quel genere di fabbro e non ho idea di chi lo possa essere al mondo. Che poi...»
«Maestro Campana» lo interruppi nel suo masticare o nel suo parlare qualunque dei due fosse in quel momento «vi dicevo: se mi raccontaste dei nani potrei ripagarvi con altre storie, o col lavoro, o con quello che posso.»
«Non potrò mai, nemmeno sul letto di morte, svelare a uno sconosciuto i segreti della forgia che i nani mi hanno rivelato.»
«Non voglio quelli, maestro, io desidero sapere di loro: chi ve li ha rivelati di preciso? Dove? Quando? Come?»
«Rododendro del sud, il cacciatore di nani amico dei principi Buliperr e della stirpe Buliperr in generale, quella stirpe flagello di nani... Se i nani mi hanno donato una grazia come posso ripagarli svelando a un cacciatore la loro posizione e la loro identità?» inspirò «Anzi...» diede un'occhiata alla strada, vuota, poi mi guardò, ora in piedi, così alto e possente rispetto a me «Se posso ripagarli almeno un poco...» prese in mano il martello, solo ora mi accorsi che lo portava alla cinta, io spalancai gli occhi e lui portò una mano avanti, a un braccio da me sentii di non potergli sfuggire.
«Ti scaverò una fossa abbastanza profonda che il tuo sangue coli fino alle loro caverne, goccioli nelle loro mani e possano stringerlo soddisfatti.»
«Campana, io sono solo un viandante, non ho colpe.»
«Un cacciatore di nani? Poveracci e sparuti che sono, un popolo di cacciati e incompresi, esuli e giusti che vengono cacciati da un ragazzino, anzi peggio: così in malora che pure un ragazzo di paglia come te si vanta di ammazzarli!» la sua ira parve bruciare nei suoi occhi come il fuoco dietro le due serrature nella porticina del suo camino.
Lo guardai negli occhi, e per tutta la paura che provai prima di quel momento, col drago, con l'orco, coi Buliperr, di fronte a Campana volli domarla col coraggio, lo guardai negli occhi, senza veli d'orgoglio gli confessai «Sì, mi sono decantato come grande cacciatore di nani e non ne ho mai visto uno. Li seguo e li rispetto, ma non l'ho dato a vedere, nemmeno davanti a re Buliperr, un uomo tra i più contenti nel sentirmi chiamare cacciatore.»
«E allora...» Campana sollevò il martello e lo abbatté verso di me. Non mi colpì alla fronte ma la evitò di un soffio per scaraventarlo contro il terreno della radura «Argh! Come è ingiusto.»
«Cosa volevi fare?» domandai come non fosse palese.
«Perdonami viandante, vattene prima che ti faccia del male.»
«No.» andai e ripresi il martello, tra le mie mani riuscì ad avvicinarmi a lui senza tremare «Questo lo terrò io e te lo restituisco se mi racconti dei nani.»
«Sono un uomo solitario e iracondo, la mia arte è il mio gioiello e nient'altro possiedo, perdonami e lasciami stare.»
«Anch'io possiedo un'unica cosa: la cerca dei nani, e per quanto abbia raccontato bugie oppure offeso qualcuno di loro io intendo soltanto trovarli e non mi fermerà nulla a meno di questo martello in testa.» gli poggiai il peso del martello sulla fronte, e lo guardai negli occhi ai due lati del manico «Mi hanno parlato di un nano, ho risalito il mondo per tre anni di cammino per raggiungere un nano.»
Il fabbro parve riaversi quando con la mano afferrò il manico del suo arnese e me lo tolse per rimetterlo alla cinta «Dimmi il nome del nano.»
«Ror. L'ho sentito da alcune persone, è l'unico nome che conobbi da più voci e non per iscritto sui testi.»
«Cosa faresti se lo trovassi?»
«Non ne ho idea, ma ho sognato molte notti quel momento. Lo immagino un guerriero di roccia, un corpo indistruttibile, lo spirito selvaggio di una bestia e la fermezza d'intenti di una montagna, forse cocciuto e forse un po' melanconico di un tempo ricco ormai trascorso.»
Campana abbassò gli occhi «Ed è proprio così.»
Le mani gli tremarono d'emozione, lo sguardo tirato ora da un moto di rabbia ora da una piega di tristezza, solo di fronte all'incudine ritrovò se stesso, solo lì riuscì a parlarmi da maestro a ragazzo.
«Non fu Ror a insegnarmi l'arte del fabbro, quella me la insegnò nano Lologgi, l'usurpatore di Cava Inferno»
«Cava Inferno» sussurrai a fior di labbra, lì per lì incapace di ricordare dove l'avessi già sentita.
«Lologgi mi prese da bambino, mi portò nella sua barba, è così che fanno loro, e picchiò di martello sotto i miei occhi, per giorni e giorni lo guardai lavorare al suo e così imparai il mio.»
Non credo se ne accorgesse, tra un battito e l'altro quando i suoi ricordi fluivano più vividi posava il martello di fianco e guardava la porta del camino, come ipnotizzato dal fuoco.
«Lologgi forgiava su un forno alimentato dal magma di un vulcano, temprava metallo tanto caldo da asciugare vasche d'acqua intere. Molte volte gli vidi prendere a mani nude quel metallo, acceso come un tizzone di legno, e avvicinarvi la pupilla, come ne guardasse il difetto o un particolare che solo lui riusciva a vedere.»
Lologgi segnai sugli appunti del mio diario di viaggio Il secondo nome da nano, Lologgi il grande fabbro.
«Come si chiamava prima di diventare un fabbro?»
«Non ne ho idea» mi rispose «A vederlo si poteva credere fosse uscito dal grembo di sua madre col martello in una mano e la pinza nell'altra.»
«Raccontami ancora, ti prego.»
Riprese a picchiare sull'incudine e riprese a raccontare «Di lui sentii dire avesse forgiato armi leggendarie come... il rasoio del lupo, quello che tagliò la punta dei denti al capobranco di quei lupi che assillavano la capitale. Oppure la mazza di Manlio, il miglior fabbro mai nato su queste isole. Oppure, sì, forgiò le mille spade per i guerrieri di re Buliperr, la peggior commissione che potesse mai accetare. Ma se devo dirla tutta il miglior attrezzo che un nano come Lologgi abbia mai forgiato, è il piccone: tutti amano la foggia delle armi ma un vero nano, quello che la sa lunga, non scambierebbe mai il suo piccone per un'arma.»
«Mille spade per re Buliperr? Dimmi perché la peggior commissione? Campana, i tuoi racconti mi prendono che potrei pagarti con tutto quello che ho, anche i vestiti: devi dirmi di più.»
Campana rise, le sopracciglia corrugate. Ora, forse, intravedeva qualcosa di buono in me, mi riconosceva qualcosa di nanesco magari, sentii di piacergli «Vorresti saperlo, eh?» si burlò un po' di me.
«Oh ti prego!» gli lanciai un guanto che trovai lì vicino «Non farmi aspettare che mi bruciano i piedi e le mani e i capelli dalla fretta di sapere.»
«Allora...» prese un respiro lungo lungo, per farmi aspettare ancora un po' «Sappi...»
«Coraggio» lo incitai.
«Sappi che Buliperr ammirava i nani tanto quanto ama la propria fama di flagellatore di nani. Come accadde altre volte in passato, Lologgi venne invitato alla loro corte e lì pagato in gioielli perché forgiasse mille spade di ferro maculato, una tecnica che nemmeno io ho mai imparato. Lologgi acconsentì e ne costruì mille, l'ultima di queste la consegnò al re e il re la usò per cacciarlo nelle sue segrete e rinchiuderlo come suo prigioniero.»
«Fuggì, vero?»
«Certo che fuggì e su quelle spade cacciò parolacce e sputi, che nessuno osò più toccarle: quelle spade faranno da croce sulla tomba di chi le usa, gracchiava così quando mi raccontava di quella vicenda.»
«Oh per tutto il cielo e la terra» troppo eccitato dovetti alzarmi e camminai da un lato all'altro della stanza con le mani sul viso, mi sfregai gli occhi e mi presi a schiaffi convinto che tutto quello non fosse reale.
«Cos'hai?»
«Sono andato così a lungo in cerca di queste storie... mi ero abituato all'idea di non trovarle. Pensa, ho addirittura trovato un folletto piuttosto che un vero nano.»
«Un folletto? Non dirmi che esistono»
«Io l'ho incontrato ed è stato molto strano.»
«Cosa vuoi ancora, Rododendro? Cantastorie e cercatore dei nani, io so molte cose su di loro e molte cose non ti posso svelare, ma tu devi chiedermele comunque prima che io te le neghi.»
«Chi è Ror.»
«Ror è un nano nato ribelle, Rododendro, abbandonò Cava Inferno per scendere a sud, per una missione senza speranza, folle, non mi dissero cosa, Lologgi non me lo disse, comunque da quella missione tornò fallito e nemmeno col tesoro del drago che trovò per strada.»
«E riconquistò Cava Inferno da Lologgi.»
«Sì» mi guardò come per chiedermi come facessi a saperlo «La riconquistò a Lologgi.»
«Come fece?»
«Ror è un nano di stirpe leggendaria, Lologgi non trovò la voglia di raccontarmi la sua storia, secondo me aveva paura a raccontarmela, paura che una storia tanto imponente potesse metterlo in ombra.»
«Ror» sussurrai mentre lo scrivevo sul diario.
«Ror è tornato a Cava Inferno e ci si è gettato dentro, disperato forse...»
«Dov'è Cava Inferno?»
«Nessuno al mondo potrà mai saperlo se non un nano e qualsiasi nano ucciderebbe chi vuole saperlo o chi lo sa...»
«Volevo dire: cos'è Cava Inferno?»
«È di fatto l'inferno dei nani. Si racconta che i nani non possano morire di vecchiaia: o trovano la loro Roccia Madre e si uniscono a lei, tramutati in roccia, oppure finiscano nella Cava Inferno. Cava Inferno è una grotta senza fondo, si racconta, creata dal mignolo di dio infilato nella terra e che la polvere di quel mignolo sia rimasta sulle pareti di quella caverna sotto forma di gemme. Altre versioni dicono che dio ci abbia cacciato la polvere delle sue mani, oppure che ci abbia cacciato la polvere delle sue unghie, tutte le versioni comunque vogliono indicare la morale: è meglio adorare la polvere delle mani? Oppure le mani stesse?»
«Le mani.»
«Sembra ovvio finché non vedi le gemme dentro quella cava.»
«Come sono?»
«Non lo so. Non le ho mai viste, ma dicono siano così grandi e belle che i nani le ricordino per tutta la loro vita e combattano la tentazione di andarle a cercare finché cedono e si tuffano dentro la cava.»
«E poi?»
«E poi non tornano più indietro.»
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