Terza prova
Il luogo in cui era appena entrato dava l'impressione di essere stato costruito a mano dagli stessi dèi usando stelle, frammenti e polvere di comete, per animare a dovere i loro eterni festeggiamenti. Non un solo angolo era ombreggiato: cristalli, specchi e finestre, in una perfetta macchina di riflessi appositamente studiata, rendevano quel padiglione un intramontabile giorno di gloria, inferno dal dolce profumo di tempi dimenticati che attirava gli invitati, misere mosche, a posarsi sul suo denso miele ambrato per poi ucciderle dopo una lenta agonia.
Sorrise. Dovette ammettere che i Russell ci sapevano fare, con gli effetti speciali.
La sala era tutta un'eco di brusii, pettegolezzi mormorati a mezza voce al passaggio di colui o colei che per l'aspetto o il suo recente vissuto si sarebbe trasformato nel bersaglio occasionale delle malelingue e avrebbe a sua volta reso tale qualcun altro subito dopo. Il circolo vizioso includeva forse anche lui? Non si poneva da tempo quella domanda: dal giorno in cui aveva capito di essere perfetto, al di sopra di tali cose.
Gabriel White sbottonò appena la camicia, poi si passò una mano tra i capelli biondi. Non aveva usato appositamente gel: quella sera voleva che apparissero spettinati, in disordine. Sua sorella gli ripeteva fino allo sfinimento che gli davano un'aria da demonio.
Gabriel non poteva sperare di meglio: quella sera stessa, avrebbe trascinato i demoni della seduzione al perfetto ballo di Cenerentola, avrebbe spezzato la tradizione che da secoli voleva la fanciulla timida e splendida a stupire tutti gli ospiti e far breccia nel cuore del principe.
Sarebbe stata la notte a colpire la regina della festa, col suo irresistibile profumo; l'avrebbe ghermita di forza dai suoi miseri ideali di purezza e candore.
Dov'era, dov'era? La bramava, la cercava. Non poteva aspettare.
Eccola.
Sarebbe stato impossibile per lui non riconoscerla, fasciata nell'abito aderente color cobalto, con la sua cascata aurea sciolta sulla schiena.
Samantha era nei ricordi di Gabriel da quando questi avevano iniziato a fissarsi alla sua memoria: sempre un angelo biondo, con gli occhi blu che rievocavano la visione dell'infinito e selvaggio oceano. Le loro famiglie li avevano fatti incontrare da piccolissimi; erano così amici, ripetevano sempre, un matrimonio tra i due non avrebbe portato altro che gioia in ambe le case. Ovviamente, nessuno avrebbe mai potuto obbligare una ragazza di ventitré anni a unirsi a lui, al giorno d'oggi.
Sorrise di nuovo. Forse Samantha lo faceva proprio per ripicca, ma lo odiava. Ogni volta che si vedevano, gli ripeteva disgustata che mai lo avrebbe sposato, nemmeno se fosse stato l'ultimo uomo sulla faccia della Terra; per Gabriel, quelle parole erano droga, eccitazione allo stato puro che a volte faticava persino a nascondere, riducendosi ad un animale. In tutte le occasioni in cui si recava dai Russell, tutto ciò che aspettava era vedere la burrasca che iniziava a imperversare nei suoi occhi e sentire quelle parole uscire dalla sua bocca una volta soli. Perché non facevano che renderla più desiderabile. Perché erano uno stimolo. Perché lui era Gabriel, ventiseienne duca di White, e il vivere nell'era moderna non lo avrebbe frenato: avrebbe spezzato le catene del tempo, ridotto la sua mente allo stato di più nera ignoranza pur di farla sua... no, lei era già sua. Era l'unica che avrebbe potuto imparare ad accettarlo ed amarlo. Non ce ne sarebbe stata un'altra. Doveva averla.
Si avvicinò a grandi falcate al gruppo di persone con cui Samantha stava discorrendo, senza salutare di proposito per sorprenderla alle spalle. Il conte Russell era con lei. Perfetto. Non sarebbe mai stata in grado di rifiutarlo di fronte al paparino.
- Vuole concedermi l'onore di questo ballo, mademoiselle?
***** *****
Siamo nel 2017 era la frase che le rimbombava in testa da oltre una settimana.
Siamo nel 2017, che bisogno c'è di organizzare una festa da ballo per il mio compleanno?
Samantha si era opposta in ogni modo alla decisione dei suoi genitori. Aveva supplicato, domandato, gridato, inveito, sbattuto porte in faccia. Il risultato finale era stato un secco: "È casa mia, farò quel che mi pare" da parte di papà, che per rafforzare il concetto subito dopo aveva preso carta e penna per iniziare a stilare un elenco di invitati.
E così Samantha Russell, futura contessa, ancora una volta aveva mandato giù il boccone amaro, costretta a sorridere e mascherare il proprio disappunto.
I conti di Russell non avevano un titolo molto importante, ragion per cui il punto forte della famiglia erano alcune attività industriali di suo padre. Il loro obbiettivo era stupire, ostentare con sicurezza la propria opulenza per apparire al livello del fior fiore dell'aristocrazia britannica e possibilmente rimediare a lei, Samantha, un marito "degno di tale nome". Da ragazza aveva dovuto combattere con i genitori per frequentare una comune scuola e liberarsi dai precettori che fino a dodici anni si erano occupati della sua educazione; per ottenere concessioni che per la maggioranza degli adolescenti inglesi sarebbero state certezze, non c'era stata occasione in cui non aveva dovuto implorarli. Evidentemente non sembravano rendersi conto che il periodo vittoriano era terminato da un pezzo ormai, e la sua disgrazia era che, malgrado ciò, voleva loro bene... troppo per opporsi a cose come quella festa.
Ed eccola lì, a sfoggiare il suo vestito migliore e discutere con i marchesi di Earthland di noiose questioni politiche. Non se ne sarebbe mai, mai liberata, ne era certa; nemmeno l'etichetta di "laureanda in archeologia" le avrebbe tolto il fardello di dover essere sempre, costantemente informata sugli affari di stato, nemmeno fosse la regina in persona. Perciò rispose con l'espressione più cordiale che le riuscì di fare che no, non era affatto contenta della situazione che c'era in borsa e sperava che le quote delle azioni di suo padre non ne risentissero molto.
Era la sua festa e stava per addormentarsi. Un'altra persona avrebbe finto un malore e si sarebbe ritirata, ma lei non poteva: i genitori l'avrebbero smascherata e sarebbe stato troppo scortese verso gli ospiti. Samantha si era sempre opposta fermamente a quel genere di eventi, ma se c'era una cosa che non sarebbe mai stata capace di fare era tenere un pessimo comportamento, men che mai a casa sua. Avrebbe pazientemente atteso finché l'ultimo piede dell'ultimo ospite non avrebbe varcato la soglia del padiglione da ballo, ringraziandolo per essere venuto con un gran sorriso sulle labbra. Questi erano la vita, i doveri di una nobile. Non avrebbe mai avuto il coraggio di abbandonarli e ferire i suoi genitori, e in quei momenti ne pagava con dignità lo scotto.
Sospirò. Un'orchestra di cinque o sei persone animava l'ambiente, accompagnata da un impianto stereo -concessione di cui era grata ai genitori. Stava quasi pensando che si sarebbe potuta adattare e trascorrere una serata decente quando una voce melliflua alle sue spalle la fece trasalire.
- Vuole concedermi l'onore di questo ballo, mademoiselle?
Spalancò gli occhi e si girò lentamente. Era troppo bello per essere vero... doveva aspettarselo, dopotutto, che con suo padre a scegliere gli invitati una busta per i White ci sarebbe sempre stata.
Gabriel, loro erede, torreggiava su di lei superandola di almeno quindici centimetri. Gli occhi castani e dalla forma tagliente tradivano la solita, arrogante sufficienza con cui squadravano tutto ciò che capitasse loro davanti. Non appena si posarono su Samantha, però, qualcosa in loro cambiò.
Un sorriso furbo mostrava denti splendenti come perle, ma la ragazza sapeva benissimo che a dispetto del suo cognome l'anima di quell'essere era nera come il carbone. Cercò di non lasciar trapelare il suo odio di fronte ai marchesi. Gabriel aspettava una risposta. Samantha guardò suo padre, scrutandone gli occhi azzurri come i suoi. Essi la guardarono bonariamente, e mentre il vecchio annuiva un'increspatura delle labbra si disegnò sotto i folti baffi grigi.
Lei fece una smorfia quando si girò verso Gabriel.
- Ma certo - rispose atona.
L'uomo le offrì il braccio. Per quanto contrariata, dovette accettare e porgergli il suo. Mentre avanzavano attraverso la sala, la giovane ebbe la sgradevolissima impressione che questa si stesse svuotando e molti ospiti si stessero ritirando verso i lati per lasciarli passare. Lo stomaco le si strinse in una morsa.
Inspirò. Quanto sarebbe durata, cinque minuti? Poteva resistere.
Si posizionò di fronte a Gabriel. Non aveva mai ballato con lui, per fortuna o per miracolo non ce n'era stata occasione. Si meravigliava a volte che l'uomo potesse giungere a un tale livello di astio verso una persona, per quanto arrogante, maschilista e viziata ella fosse. Suo padre sognava, se credeva che un giorno lo avrebbe sposato.
Il suo compagno si mostrò subito pronto: in una mossa fulminea le prese le mani, trasmettendole un'ondata di calore. Le braci dell'inferno, fu il suo pensiero istintivo.
E poi, la musica partì. Credeva che alle sue orecchie sarebbe giunta una melodia ballabile, non troppo movimentata... non un ballo latino. Dio, qualcuno lassù ce l'aveva forse con lei?
D'un tratto si sentì nuda, completamente alla mercé di colui che le stava di fronte e la guidava con un'abilità e una maestria senza pari, passo dopo passo.
- Sei un'ottima ballerina, mia bella - bisbigliò. Samantha arricciò le labbra.
- Non mi sembra che tu sia autorizzato a rivolgerti a me in quel modo.
Una giravolta. La ragazza volteggiò per una frazione di secondo prima di ritrovarsi nuovamente fra le braccia di Gabriel, vagamente stordita e costretta a inspirare un'ondata del suo profumo. Rose.
- Il mio tesoro ha bisogno di un nome che si confaccia alla sua bellezza - dichiarò.
- Mi fai schifo.
Gabriel White sibilò. La natura di quel suono, una volta compresa, inquietò talmente tanto la giovane da farle drizzare persino i peli delle braccia. Cercò di non avvampare; all'improvviso stare a contatto con quel corpo si stava facendo scomodo. Voleva andarsene; anzi, voleva svegliarsi e scoprire che quello era solo un terribile incubo in cui Lucifero, splendente quanto un dio, si schiacciava contro di lei, rubandole l'aria, la capacità di respirare.
Non gli era mai stata così vicina. Detestò suo padre; non avrebbe mai accettato, non fosse stato per lui.
- Non sembri felice - esalò Gabriel, dopo un altro giro. Le note stavano iniziando a velocizzarsi, diventavano oppressive, la costringevano a movimenti sempre più repentini. I piedi si muovevano freneticamente nonostante il tacco delle scarpe, facevano male, la costringevano ad andare dove quell'uomo voleva.
- E non lo sono. La sola cosa che voglio è che questa situazione finisca per potermene andare.
Un brusco cambio di chiave e di melodia stoppò le danze per un breve istante che le parve eterno. Gabriel la tirò a sé, premendo il petto scolpito contro i seni e ritrovandosi col viso a pochi centimetri del suo.
- Non potresti - affermò. -Prima o poi ti conquisterò, è scritto dal destino. So già che lo farò e in che modo riuscirci... me lo hai detto tu stessa questa sera.
- La sola cosa che conquisterai è un ceffone in pieno volto! Lasciami, non starò qui un minuto di più. - Non le importava più nulla delle buone maniere, aveva sopportato abbastanza. Fece per liberarsi, ma Gabriel mantenne salda la presa, avvicinandosi ulteriormente e chinando il capo verso il suo orecchio.
- Non puoi... e lo sai. Ovunque andrai o ci sarò, ti seguirò. Ho visto che i tuoi occhi mi stanno già chiamando. Mostrami la via che verrà. Tu, tu sei la calamita ed io il metallo. Mi avvicino e preparo il mio piano, solo a pensarci mi batte forte il cuore. Buona serata, mia bella. - Detto ciò, con uno scatto secco di liberò del corpo esile di Samantha, quasi fosse una presenza indesiderata da scrollarsi di dosso. La ragazza perse un battito. La lasciò lì, pietrificata, nel bel mezzo della sala, mentre lui si allontanava elegantemente ed usciva dalla stanza. Samantha non gli tolse lo sguardo di dosso, come ipnotizzata. Alla stregua di Medea, restò impotente a vedere Giasone che la abbandonava, mentre nel profondo del suo cuore, neonata mal voluta, nasceva già disprezzata dalla sua stessa creatrice la sensazione causata da quell' abbandono: il vuoto.
Wow, ce l'ho fatta, incredibile ma vero. Ho iniziato ad abbozzare la one shot oggi alle due, perciò non credevo che sarei riuscita a ricopiare otto facciate di foglio A4 scritte nel mio arabo-aramaico in una sera
Le parole usate sono poco meno di 2000, quindi rientrano nei canoni previsti. Eee... niente, spero sia decente!
MattiaSantopietro
Ciauz,
Kincha007
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