Prima prova

Il treno emise uno scossone. Helga si strinse incerta contro il muro e premette la faccia sul finestrino, come se ciò potesse renderla invisibile, intoccabile. Cercò di non mostrare la paura che la attanagliava, che le stringeva lo stomaco e la faceva tremare come una foglia ad ogni fermata. L'unica concessione che si faceva, tutte le volte che il treno si fermava, era alzare lo sguardo ed esaminare spaurita i nuovi arrivati, come il coniglio che mette con titubanza il muso fuori dal nascondiglio a cercare la volpe che lo sta braccando... una volpe alta e robusta in divisa chiamata SS.

Una donna con un bambino, due anziani, una suora: fu questo ciò che vide, e bastò a convincerla a ritornare nella sua nicchia, schiacciata dall' omone corpulento che le era seduto a fianco. Il treno ripartì e Helga si richiuse in sé stessa, beandosi del fresco di cui il contatto con quel finestrino sudicio le invadeva la guancia sinistra.

La Germania, la madre crudele che l'aveva data alla luce per poi cercare in tutti i modi di cancellare la sua esistenza, tornò a scorrerle davanti; a separarle, solo un vetro, una sporca e fredda barriera trasparente. Helga Stern era ben allenata, però: da quando aveva la tenera età di otto anni, infatti, non aveva fatto altro che osservare la sua vita, la sua infanzia, i suoi giorni migliori che le venivano tolti, non erano più suoi. A quanto pareva, ora appartenevano ad un certo Adolf Hitler, come tutto ciò che era nel Reich. Helga era diventata una quindicenne su quel treno diretto in Svizzera, il giorno prima. Era stato l'unico regalo dell'altra sua madre, Julia, quella da cui si era separata all'ingresso della stazione di Berlino con un abbraccio, durante il quale la donna le aveva passato i documenti e un biglietto e le aveva ordinato a denti stretti di non versare neanche una lacrima. Julia era tornata a casa, a prepararsi per un altro viaggio in treno che avrebbe compiuto con suo marito nella parte opposta dell'Europa. A Helga non aveva mai detto la destinazione, ma qualsiasi persona dotata di cervello avrebbe capito che quello era un addio.

Un altro scossone destò Helga. Si era addormentata tutta la notte senza mai muoversi ed era tutta indolenzita, ma notò che l'omone accanto a lei se n'era andato e che ancora nessuno ne aveva preso il posto. Tirò su la valigia che teneva fra le gambe e la mise sul sedile. Fuori, le rare scritte che incontrò erano in francese, ma ciò non bastò a tranquillizzarla. Il viaggio non sarebbe stato sicuro fino alle Alpi... ma se non ci fosse mai arrivata, alle Alpi?

Aveva visto quella scena tante volte a Berlino: uomini strattonati che non erano mai saliti sul treno della salvezza, donne picchiate, bambini in lacrime spostati su altre carrozze che odoravano di morte e venivano dall'Est. Che cosa le garantiva che non sarebbe salito un soldato a cercare anche lei? Che non ci fosse una spia proprio su quei treni, a caccia di ebrei? E se non avessero creduto ai documenti? Se non si fossero bevuti che lei era Gretel, una semplice ragazzina in visita alla zia a Berna? A Helga si formò un groppo in gola, ma si impedì di piangere. Non puoi farlo, non ti permettere. Se ti vedono piangere, sospetteranno qualcosa. Non ti azzardare. Era lei a pensare quelle parole, o la voce di sua madre le stava risuonando in testa? No, no, no. Le incertezze la stavano di nuovo divorando, come al momento di salire in carrozza. Quando aveva lasciato la città, senza nessuno da salutare con la mano, poco ci era mancato che scoppiasse in lacrime. Doveva distrarsi, o sarebbe andata a finire male, l'avrebbero portata nell'Est come i suoi genitori e Dio solo sapeva cosa ne avrebbero fatto di lei le SS.

Si guardò nel riflesso tremolante del finestrino: gli occhi azzurri non erano lucidi, per fortuna, e i capelli castani andavano solo rimessi in ordine. Osservò le labbra piccole, screpolate, e il naso rosso per il raffreddore che si era presa probabilmente stando là dentro. Aprì la valigia. Era la prima volta che ne ispezionava il contenuto e sentire l'odore di casa, dello strudel della mamma e della colonia di papà fu un colpo al cuore. Julia ci aveva messo dentro appena un cambio, un paio di pagnotte e una borraccia di cuoio con dentro dell'acqua. Affamata, Helga divorò un panino, pentendosene istantaneamente: non sapeva in quale parte della Francia fosse, ma quelle provviste sarebbero dovute bastarle fino a Ginevra, e ne aveva già consumato la metà. Strinse il piccolo bagaglio al petto come se fosse la cosa più preziosa che possedesse -la cosa non era nemmeno molto lontana dalla realtà- e si rannicchiò contro il muro. Trovava conforto in quel cantuccio che si era ritagliata, le dava una parvenza di intimità... quasi più di quella che in tutti quegli anni a Berlino le era stata tolta dai nazisti.

Una voce la spaventò e la costrinse a voltarsi di scatto. Doveva avere un'espressione scioccata, perché la signora che le stava davanti inarcò un sopracciglio. Aveva forse capito tutto? Helga sapeva di star iniziando a diventare paranoica, ma ormai per lei il pericolo era ovunque. Senza i suoi genitori, sperduta nel bel mezzo dell' Europa e del Reich, sentiva di non avere più niente, nemmeno un'identità, e di vagare nel buio in un mondo pieno di animali notturni pronti a divorarla. Non aveva più la minima sicurezza, il più piccolo appoggio.

La donna non sembrava una SS, però. Era una francese, con al seguito due gemelle di al massimo cinque anni e un marito. Le chiese, scandendo se potevano sedersi nei sedili a lei vicini; la ragazza rispose nel francese stentato che conosceva, balbettando un "Oui" e tornando muta.
Le gemelle si sistemarono ognuna in braccio a un genitore. Non giocarono, non si rincorsero, non fecero tutto il fracasso che i bambini provocavano in genere per sfuggire alla noia. I quattro scesero tre fermate dopo ed Helga non conobbe mai la voce di quelle creature, ariane, sì, ma pur sempre strappate all'infanzia da un mondo fatto di sola paura e disciplina.

Rimasta nuovamente sola, aprì ancora la valigia. Mangiò un altro po' di pane e si concesse una lunga sorsata d'acqua. Girò la testa verso il paesaggio, che cominciava a inasprirsi e a divenire montuoso. Quanto mancava alla fine dell' inferno? Quanti erano ancora i chilometri che la separavano dalla salvezza? Sua madre le aveva detto che qualcuno sarebbe venuta a prenderla alla stazione e l'avrebbe portata in una casa sicura. Era stato tre sere prima, quando un signore attempato era venuto a casa loro a discutere e lei era rimasta in camera. Julia l'aveva chiamata subito dopo la sua visita e le aveva annunciato la partenza ed Helga aveva preso a tremare. Dove sarebbe andata? Con chi? Perché non scappavano anche loro? Si era addormentata in lacrime fra le braccia della madre e il giorno dopo era iniziato tutto. Guardò il cielo grigio, coperto totalmente di fitte e impenetrabili nuvole. Chissà se in Svizzera c' era il sole.

Un altro scossone. Stavolta, tutte le persone sedute iniziarono a scendere. Il cuore della ragazza prese a battere all'impazzata; fuori dal finestrino poté scorgere un'enorme stazione pullulante di gente ignara di tutto e di tutti, che correva per la sua strada senza preoccupazioni. Ce l'aveva fatta davvero? Si alzò, non badando al formicolio che le pervase tutto il corpo, e stringendosi nel cappotto attraversò con la valigia in mano la carrozza sudicia del treno per uscirne per sempre.

L' aria che le entrò nei polmoni non era fresca e pura come se l'era immaginata, anzi: era un odore pensante di carbone, di bruciato e ferro. La stretta sul manico della valigia si strinse. E ora? Era sola e a migliaia di chilometri da casa. Una ragazzina così non poteva passare inosservata... cosa avrebbe fatto se si fosse imbattuta in qualcuno e fosse apparsa sospetta? Mosse qualche passo sul pavimento della stazione. Le persone non sembravano curarsi di lei... decise di provare a guardarsi intorno. La mamma le aveva garantito che avrebbe trovato chi era incaricato di occuparsi di lei.

Helga era così distratta dal girare la testa qua e là che il bagaglio le scivolò all' improvviso dalle mani e si aprì. Si inginocchiò subito a raccogliere le sue poche cose e a ricacciarle alla rinfusa dentro la valigetta di pelle consumata, quando vide qualcosa che durante tutto il viaggio non aveva notato. Un libro, con la copertina verde rifinita con decorazioni dorate, giaceva aperto, evitato da decine di uomini e donne che per poco non vi impressero sopra un' impronta. Helga lo chiuse per guardarne il titolo: La metamorfosi, Franz Kafka.

Non l'aveva mai letto, ma ne aveva sentito la trama e soprattutto ricordava il nome di quell'uomo sulla lista degli autori proibiti i cui libri erano stati bruciati anni prima. Ce lo aveva messo sua madre, di questo era più che certa, ma non ne capì il perché. Non sapeva nemmeno che ne nascondesse una copia... ma le piacque pensare che quel libro fosse come lei, un graziato che era sfuggito al Reich e non doveva più temere. Helga lo strinse al petto; quel piccolo volume contenente all'apparenza solo inutili, pericolose parole, per lei non era un simbolo d'istruzione e cultura, qualcosa da bandire dalla Germania: a dispetto del messaggio triste e lugubre che portava al suo interno, divenne l'emblema della sua fortuna, della bontà che Dio aveva avuto nei suoi confronti permettendole di salvarsi. L'emblema della Vita.

Ma salve! Non volevo fare uno spazio autrice perché sono un essere pigro e cattivo, ma a quanto pare a causa di determinati problemi devo😂

MattiaSantopietro ti taggo, sperando che la modifica al capitolo faccia apparire il tag visto che la mia applicazione in genere può metterci anche una settimana a metabolizzare alterazioni di capitolo.

E nada, vado a studiare cosí quando mia madre lascerà fiduciosa casa per andare al lavoro potrò imbrattare la cucina e fare un dolce.

Adios!
Kincha007

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