Ritorno a casa
Capitolo 21
La riserva sembrava a tutti gli effetti uno dei tanti paesini dell'Alaska; non c'erano mostri per le strade che ululavano e azzannavano innocenti passanti.
Le case erano fatte di legno, graziose e dipinte di giallo pallido. Inoltre, a dare l'idea di una normale cittadina, vi erano vari negozi; una macelleria, un fioraio e anche una panetteria. Evelyn sorrise pensando a quanto gli umani avessero sbagliato in pieno descrivendo la vita dei licantropi in quei libri dell'orrore.
Attraversarono la via principale senza nessuna difficoltà; le poche persone che avevano incontrato – per lo più donne e bambini – si erano immediatamente rifugiati in casa al loro passaggio.
«Hanno paura di te?» chiese Evelyn rivolgendo lo sguardo verso Noah.
«Probabile» rispose lui dando occhiate veloci verso ogni singola casa.
Dopo qualche minuto la sua attenzione fu catturata dall'enorme fortezza che padroneggiava in cima alla collina. Anche da lontano si poteva percepire la freddezza e l'oscurità che vi aleggiavano dentro. Sulla grande porta di legno massiccio vi era attaccato un enorme vessillo che raffigurava un lupo rosso intento a sbranare un sua simile dal manto candido come la neve.
«A quanto pare il nostro amico ha preso possesso della fortezza» commentò Uncas aggrottando la fronte.
«Dio quanto lo odio» sibilò Beulah portandosi le mani sui fianchi e alzando lo sguardo.
Noah non diede peso alle loro affermazioni e svoltò bruscamente verso destra. «Aspettatemi qui, devo fare una cosa» così dicendo si incamminò lungo una piccola strada secondaria.
Evelyn provò a raggiungerlo, ma Beulah la fermò. «Sta andando verso casa. Credo che preferisca rimanere solo.»
Evelyn annuì in silenzio, non osava neanche immaginare la sofferenza che stava provando in quel momento.
***
Camminò in fretta, facendosi guidare da tutti quegli odori familiari e piacevoli. Ricordava tutto; ogni casa, ogni finestra, ogni centimetro di strada.
Quando arrivò di fronte ad un giardino incolto, aveva il respiro affannato, non si era reso conto di aver trattenuto il fiato per tutto il tragitto. Sentì il battito del suo cuore divenne irregolare e palpitante di emozioni.
«Papà! Noah mi ha rubato la palla!»
«Sta zitta, spiona!»
Le voci fantasma di una vita ormai lontana lo avvolsero. Quante volte avevano giocato su quell'erba? Quante volte erano caduti sbucciandosi le ginocchia?
Percorse il piccolo vialetto circondato da erbacce e, una volta arrivato al portico, sospirò.
Quella era casa sua.
Con la coda dell'occhio vide la sedia preferita di sua padre e per un attimo gli sembrò di vederlo lì, tranquillo come sempre, intento ad osservare il panorama.
«Alfa non significa soltanto essere forte. Sarai il loro padre, la loro guida, il loro sostegno...»
Noah si voltò di scatto, ma ciò che vide fu soltanto una sedia scheggiata e gonfia a causa dell'umidità. Scuotendo la testa posò le dita sulla porta e, finalmente, trattenendo il fiato, l'aprì.
L'odore di muffa e di polvere gli fece arricciare il naso. Entrò lentamente, rendendosi conto di avere i muscoli tesi e gli occhi socchiusi.
Centinaia di ricordi lo travolsero; ogni stanza, ogni oggetto, ogni singolo granello di polvere gli riportavano alla mente storie divertenti di un infanzia che non esisteva più.
Attraversando la cucina poté rivedere sua madre intenta a preparare la colazione. Profumava sempre di pancake e di gelsomino.
Sfiorò il tavolo al centro della stanza e, per un unico istante, vide sua madre; sempre bella anche con un grembiule legato in vita e il viso totalmente pulito.
«Mamma...» sussurrò lui costringendosi a sbattere più volte le palpebre.
Le gambe lo riportarono nel corridoio e poi su per le scale scricchiolanti. Il piano superiore era ricoperto di ragnatele, ma ogni cosa era stata lasciata come lui ricordava.
Passò velocemente davanti alla camera dei suoi genitori, per poi finire di fronte alla stanza che da piccolo condivideva con sua sorella.
Il letto a castello era sempre lo stesso, persino le lenzuola erano le stesse; bianche e con degli orsacchiotti stampati sopra.
«Stai dormendo?»
«No»
«Ho paura del temporale»
«Non puoi avere paura del temporale»
«Beh... a me fa paura»
«Sciocchezze»
«Noah?»
«Si?»
«Posso dormire con te?»
L'aveva sempre protetta, come aveva promesso a suo padre. E invece dov'era in quel momento? Rinchiusa da qualche parte, probabilmente dopo essere stata torturata. L'ennesima promessa infranta.
Dopo essere tornato nuovamente al piano inferiore i suoi occhi puntarono la porta sul retro. Quella porta lo avrebbe condotto al giardino, lo stesso giardino in cui aveva trovato il cadavere di suo padre.
Serrò i pugni.
Doveva uscire, ne sentiva l'estremo bisogno.
Raggiunse velocemente la porta ed afferrò con rabbia la maniglia. Cercò di trovare una parziale tranquillità e poi, con forza, spalancò l'uscio.
Altra erba incolta, altri profumi familiari. Il cuore gli martellò nel petto. Il sangue gli fluiva velocemente in tutto il corpo.
Si costrinse a muovere qualche passo, ma le gambe sembravano pesanti quanto due macigni.
Noah non era più un adulto, era tornato un bambino di dieci anni spaventato e confuso.
Per un attimo pensò che il corpo di suo padre fosse ancora lì, ricoperto di sangue e con l'intestino sparso sulla terra fredda. Avrebbe sicuramente visto le mosche, avrebbe sentito il fetore della decomposizione.
Ma lui non c'era.
«Ovviamente...»
Niente, non c'era un bel niente. Soltanto il rumore del vento del Nord e il battito impazzito del suo cuore.
Osservò i cespugli in cui – più di vent'anni prima – si era nascosto. Cosa rimaneva di quel ragazzino? Di certo non la stessa innocenza, e senza dubbio, non c'era più traccia della stessa felicità nell'uomo che era diventato.
La malinconia lo attanagliò. Sentì le forze venigli meno; era stanco. La sua vita era stata una continua fuga, un continuo nascondersi.
Si accasciò sul terreno, le braccia abbandonate lungo il corpo.
«Perdonami» mormorò stringendo con il pugno il terriccio umido. «Perdonami, non sono stato
abbastanza forte»
Una brezza leggera sembrò accarezzarlo in viso. C'era qualcosa, un odore rassicurante.
«Noah»
Era stato il vento? Stava impazzendo per il troppo dolore? Eppure era la stessa voce possente di suo padre, la stessa che aveva ascoltato nelle lunghe ore prima di dormire.
«Papà!» urlò lui tremante.
Nessuna risposta.
Nessuna risposta...
«Noah, stai bene?»
Questa volta la voce era vera e il profumo invitante gli aleggiò sul viso contratto. Evelyn lo aveva raggiunto.
Non poteva farsi vedere così debole di fronte a lei. Così si alzò con fatica, boccheggiando vistosamente. Quando si voltò, gli occhi grigi di Evelyn lo fissavano con pietà.
«Ti avevo detto di aspettare insieme agli altri» disse sputando con rabbia le parole fuori dalla bocca. L'altra fece un passo indietro, forse aveva esagerato.
«Pensavo avessi bisogno di me» concluse lei abbassando lo sguardo.
Noah alzò debolmente le spalle; con lei era inutile discutere e in quel momento non ne aveva la forza. Evelyn si avvicinò, osservando il retro della casa con curiosità.
«E così... questa è casa tua»
«Lo era...»
«Lo sarà sempre» rispose lei voltandosi nuovamente. Si guardarono per lunghi istanti e poi Evelyn si avvicinò, abbracciandolo. Come poteva farlo sentire in quel modo? Era piccola e delicata, ma la sua stretta lo afferrava nell'anima.
«Ti mancano?» chiese poi posando dolcemente la sua bocca a cuore sulla fronte dell'altro.
Noah rispose con uno dei suoi soliti sbuffi e poi la baciò sulle labbra. «Penso ai miei genitori ogni giorno, ogni minuto»
«Continuare ad incolparti non ti aiuterà. So bene, molto bene, cosa si prova...»
Noah passò le sue dita sulla guancia morbida di Evelyn, contemplando gli occhi grigi che lo avevano stregato molto tempo prima.
«Fino a quando non avrò compiuto la mia missione, non potrò smettere. Il mio popolo ha bisogno di me, mia sorella ha bisogno di me»
«E tu? Tu, di cosa hai bisogno?» chiese lei alzando le lunghe ciglia verso l'alto.
Noah rimase spiazzato.
Tutta la sua vita aveva girato intorno alla riserva, ad Alastair. Aveva soltanto problemi e sensi di colpa. Mai prima di allora aveva pensato a se stesso, credeva che fosse troppo egoistico, lui non meritava la felicità.
Guardò Evelyn, e improvvisamente ebbe voglia di urlarle che l'unico bisogno che aveva era di averla tra le braccia. Voleva urlarle che era la sua unica felicità, la sua unica ancora di salvezza. Ma non poteva, non in quel momento, non in quel luogo.
«Vorrei che tu iniziassi ad obbedirmi» disse infine serio. L'altra alzò un sopracciglio, distaccandosi dall'abbraccio.
«Sei sempre il solito...» rispose lei alzando gli occhi al cielo.
«Andiamo, gli altri ci stanno aspettando» senza aggiungere altro, la prese per mano, concedendole un piccolo sorriso che servì ad addolcirla nuovamente. A tempo debito, avrebbe rivelato i suoi veri sentimenti, e l'avrebbe resa sua.
***
La fortezza, vista da vicino, si rivelò essere più inquietante e minacciosa. Evelyn cercò di trattenere la smorfia che minacciava di prendere il sopravvento sul suo viso.
La grande porta di legno e ferro era alta oltre cinque metri e le mura, di nuda pietra, erano alte altrettanto. Improvvisamente pensò che sarebbe stato meglio rimanere al sicuro, seguendo le istruzioni di Noah; stava davvero realizzando che in quel fortino vi erano centinaia di licantropi pronti a sbranarla in qualsiasi momento.
Poi posò lo sguardo sul licantropo che le aveva rubato il cuore ed ogni paura svanì. Con lui non avrebbe mai sofferto, era al sicuro.
Ripensando a ciò che era successo qualche ora prima, una nuova ondata di tenerezza la invase; vederlo con le sue fragilità, con i suoi sensi di colpa le aveva tolto il fiato. Quell'essere sempre imbronciato era soltanto una facciata che si era costruito nei lunghi giorni di esilio. Eppure avrebbe dovuto odiarlo, l'aveva morsa e trasformata in qualcosa di non umano.
Non aveva più pensato alla questione dei non-lupi, pensandoci bene, non le avevano spiegato molto.
Accidenti a te, Noah!
Quando la sfiorava perdeva ogni contatto con la realtà, e anche essere un mostro le sembrava la cosa più divertente e bella del mondo.
«E adesso? Dovremmo dire qualche parola magica?» esordì Uncas continuando ad osservare la grande porta.
«Apriranno, tranquillo» lo tranquillizzò Noah alzando lo sguardo verso le alte mura.
Evelyn si avvicinò a lui, sfiorandolo leggermente con la mano. «Stammi sempre vicina» le sussurrò. Lei annuì, non c'erano dubbi, sarebbe rimasta attaccata a lui qualsiasi cosa fosse successa.
«Stanno per aprire» intervenne Beulah che per tutto il tempo era rimasta appoggiata ad una delle colonne.
Subito dopo, sentirono il rumore cigolante dei cardini antichi.
Evelyn sussultò, e poi si voltò leggermente verso Beulah. Era ancora molto pallida e tesa, non aveva aperto bocca per tutto il tragitto, si chiese cosa avesse.
Il portone si aprì definitivamente, lasciando intravedere un corridoio buio e stretto. Più avanti, una luce filtrava appena dal grande arco posto alla fine del cunicolo.
«Avanti, andiamo» così dicendo Noah entrò per primo, dietro di lui, gli altri lo seguirono.
Il percorso fu breve e lineare, l'oscurità li avvolse, impedendo ad Evelyn di vedere. Il calore rassicurante di Noah riuscì a tenerla calma, ma aveva come la sensazione che, varcata quella soglia, niente sarebbe più stato come prima.
Quella era la vera tana del lupo, un grande vaso di pandore che avevano appena aperto. Quando ritornò la luce solare, Evelyn, inizialmente, non vide niente per alcuni secondi. Sbatté le palpebre e poi finalmente mise a fuoco la scena che aveva davanti a se.
Si trovavano in una sorta di cortile interno, attorno a loro altre mura di pietra. Le sembrò di essere tornata indietro nel tempo.
Appostati ad ogni angolo vi erano degli uomini che imbracciavano delle armi, ovviamente erano tutti licantropi e, la maggior parte, avevano capelli rossi.
Più in là, su una costruzione di legno, un uomo e una donna erano seduti su due grandi troni di velluto rosso bardati di oro. «Finalmente! Venite avanti» una voce possente e autoritaria echeggiò tra le mura, spezzando il silenzio assoluto di poco prima.
«Stà dietro di me» sussurrò Noah apparentemente calmo. Evelyn percepì il lieve irrigidimento dell'altro e poi, vedendolo avanzare, lo seguì.
Arrivati di fronte alla pedana, l'uomo che aveva parlato poco prima, sfoggiò un sorriso inquietante. Anche se non lo aveva mai visto, Evelyn capì, senza ombra di dubbio, che quell'uomo era Alastair. Quegli occhi attenti, quasi come quelli di un serpente pronto ad attaccare, le inviarono sensazioni spiacevoli, emanavano pericolo.
La donna accanto a lui, spalancò gli occhi, le mani appoggiate sul grembo, e anche se non ne era certa, Evelyn notò che aveva un livido sullo zigomo. La osservò ancora per qualche secondo; i lunghi capelli neri e il portamento regale, le ricordarono una persona.
Si voltò verso Noah di scatto.
In quel momento vide la sua espressione sbigottita, e le tornò alla mente la foto che aveva trovato sotto al cuscino di Willow.
Era sua madre.
Evelyn si sentì elettrizzata; era felice per Noah, finalmente una buona notizia. Sorridente e con il cuore in tumulto, fece vagare lo sguardo nell'ambiente circostante. Quando li vide, il sorriso si tramutò in una smorfia di dolore.
Willow e suo zio, erano legati a due grandi pali di legno. Entrambi storditi e ricoperti di sangue, tenevano il capo chino.
Cosa avevano fatto?
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