XXVI - Il Lutto della Torre (pt. 3)

«Tarocchi?» La ragazza ripeté sospettosa quella strana parola, scrutando gli sprazzi colorati come se stesse aspettando di vederli trasformarsi in vipere. Con la coda dell'occhio la ragazza scorse la testa del bambino emergere di nuovo dallo schienale, subito seguita dal quieto rimprovero del contadino.

La donna le porse il mazzo con un sorriso. «Prendine una. Tranquilla, piccola, non mordono.»

Kala esaminò diffidente i dorsi delle carte, torturando con veemenza un riccio. Erano tutti decorati con lo stesso intreccio simmetrico di ghirigori neri e argentati, che incorniciavano quella che sembrava una mappa delle stelle e due falci di luna concentriche su sfondo azzurro. No, quei tarocchi decisamente non erano come i malcoci rettangoli di cartafoglia che sembravano infestare tutte le taverne predilette della strega.

La ragazza digrignò i denti e, spinta da un altro sorriso della vecchia, decise di osare. Con un gesto rapido, come se il mazzo fosse coperto di ortiche, afferrò una carta da quel ventaglio di disegni tutti uguali. Subito susultò. Era tiepida, come se fosse stata nascosta tutto il viaggio sotto lo scialle di Enur, e incredibilmente liscia al tatto. La ragazza avrebbe creduto di avere sotto di sé una lastra di legno cerato, o vetro, se la carta non fosse stata sottile come un pezzo di cartafoglia. «Adesso?»

«Adesso devi girarla e guardarla, piccola», le spiegò con pazienza la vecchia, ripiegando il mazzo e adagiandolo in grembo.

La diciassettenne digrignò i denti per qualche istante prima di obbedire: portò la carta davanti ai suoi occhi e la voltò secca, chinandosi con il volto corrucciato. E la giovane si dimenticò come respirare.

Kala non avrebbe ben saputo dire cosa si aspettava da quei tarocchi. Forse si immaginava degli semplici schizzi dipinti con i colori del dorso — più elaborati che semplici, guardando quei complessi ghirigori —, o forse delle banali carte da spade-e-corone colorate. Invece, davanti a lei brillava un tripudio di tinte sgargianti, di neri che sembravano la notte stessa e rossi più accesi dei ribes, di argenti che ricordavano la luna e ori che parevano con i raggi di sole. Il mondo intorno sembrava essere diventato grigio e spento, in confronto a quel misto di colori sgargianti sulla carta.

«È... è....», balbettò la ragazza, incapace di trovare le parole esatte. Un lieve buffetto sulla guancia la riportò alla realtà.

«Allora, cucciola: che arcano hai pescato?»

Kala sbatté le palpebre mentre solo in quel momento si rese conto del sottile contorno scuro che circondava le macchie di colore. E d'un tratto le linee d'argento divennero catene; le macchie di rosso il corpo di un uomo, il volto reclinato all'indietro in un muto grido di dolore e le ciocche ricce che salivano verso l'alto della cornice come se il prigioniero fosse appeso a testa in giù. Gli occhi bianchi e vuoti come quelli di un cadavere, i vestiti e i capelli di sangue appena versato.

«Dei, è il terzo fratello!», gridò la ragazza, lanciando la carta sulle assi davanti a sé.

Un'espressione confusa apparve sul volto della donna. «Il terzo fratello?», ripeté, sporgendosi per vedere meglio l'illustrazione. «Non esiste un arcano del genere. Ah, vedi, piccola? È questo il nome della carta.» Le sorrise paziente, picchiettando l'indice sul fondo del disegno, sul punto più basso della cornice che circondava l'uomo. E lì, proprio dove la vecchia aveva sfiorato il tarocco, la giovane notò un pezzo di pergamena incastrato tra i ghirigori neri, su cui spiccavano una manciata di lettere.

Deglutendo e sforzandosi di sembrare calma, la ragazza si avvicinò alla carta con il cuore che scalciava nel petto. «Il Condannato», lesse con voce tremante, strizzando gli occhi. Dei com'era possibile? Come poteva quel disegno assomigliare così tanto all'illusione che aveva visto nel mondo di sabbia?

«Il quarto degli arcani mortali», disse Enur, mescolando distrattamente il mazzo. «La carta che indica l'innocenza strappata e le amare conseguenze delle nostre colpe più profonde. Nonché, a volte, il nostro cammino di redenzione. Ora, cucciola, raccontami la sua storia.»

La giovane trasalì, il vuoto nelle viscere. «Quale storia?»

«Quella della carta, bambina», rispose con una lieve risata. «È questo il gioco: chi pesca inventa un piccolo racconto basandosi sull'arcano che ha preso e il suo significato.»

«Un racconto?» ripeté strozzata l'adolescente. «Ma io...»

«Hai ragione, piccola: avrei dovuto essere io a iniziare.» La vecchia la interruppe con un allegro buffetto prima di passarle le carte. «Ricordati di mescolarle bene. E, cucciola, hai le dita che tremano: sicura di non aver bisogno di un paio di guanti?»

Come l'adolescente si rese conto subito, mescolare le carte non era così facile come Enur lo aveva fatto sembrare, specialmente con una mano che giaceva fasciata sulla gonna ormai inutilizzabile, e con l'altro arto avvolto dallo spesso guanto di lana che Enur era riuscita a infilarle a tradimento. Specialmente con lo sguardo vuoto del condannato la scrutava dall'angolo del carro in cui era stato lanciato. Anche senza provare a imitare gli elaborati guizzi di polsi e dita della vecchia, i tarocchi scivolavano, si piegavano, si scontravano, rifiutavano i suoi stizziti tentativi di tenerli tra le ginocchia e si sparpagliavano sul fondo sporco di paglia del carro. Alla fine, quando la ragazza riuscì in qualche modo a riprendere tutte le carte e porgere il mazzo a Enur, si trovò accaldata e sbuffante come se avesse corso per tutta Vahrel.

Senza esitazione Enur pescò una carta e la girò. «L'Imperatrice. È come una regina, cucciola», spiegò subito Enur, notando la fronte corrucciata della ragazza. «Nei tarocchi rappresenta i nuovi inizi, la vita e la rinascita.»

Kala distolse a fatica lo sguardo dal quarto arcano, ancora appoggiato davanti a lei, e sussultò. «Mag Mell, ti assomiglia!»

Enur si lasciò sfuggire una lieve risata. «Trovi, piccola?»

«Dei, è praticamente identica a te!» protestò la ragazza, scrutando con occhi sgranati la carta che la vecchia aveva appoggiato tra le assi. L'immagine non era così simile alla vecchia come l'altro arcano era a Lamadidiamante, forse, ma chiunque l'avesse dipinta doveva essersi ispirato a Enur. Doveva, per tutta Mag Mell! La Regina — no, Imperatrice — aveva lo stesso sorriso amorevole della vecchia, la stessa sfumatura scura di pelle, la stessa ciocca argentata tra i capelli sbiaditi. Indossava perfino lo stesso scialle color oliva, Saiph! Eppure l'arcano era anche diverso: la vecchia non aveva di certo una corona sul capo — specialmente non un macabro diadema di pugnali neri che fluttuava a qualche dito dai capelli —, né gli occhi completamente bianchi, senza sclera né pupilla, identici a quelli del Condannato.

Il Condannato.

Ancora una volta lo sguardo dell'adolescente scivolò verso la carta grigia e rossa, e una morsa gelida le strinse il petto. Erano identici, Mag Mell! Identici! A fatica seguì l'inizio del racconto della vecchia, trasalendo quando la voce del figlio del contadino interruppe quella di Enur. Si era quasi dimenticata che c'era anche lui.

«Pecché l'Impettice ha lasciato il palazzo? I re hanno tutto lì»

Una lieve risata, affettuosa ma triste. La ragazza si voltò, appena in tempo per vedere l'ombra di amarezza scomparire dal volto della donna. «Vedi, cucciolo, l'Imperatrice non ha mai amato quel luogo: aveva sempre preferito aggirarsi per le vie della sua città e aiutare i suoi bambini di persona che rimanere seduta su un freddo trono di pietra — anche a costo di inimicarsi altri nobili. E quando è successa una cosa molto, molto brutta, lei ha deciso di bruciare la sua corona e il suo mantello, esiliandosi da palazzo e accettando di vagare per il suo regno come una piuma trasportata dal vento. È proprio in uno di quei viaggi che..»

Lo sguardo della ragazza scivolò di nuovo sulla carta del Condannato, mentre la voce della vecchia si trasformavano in un distante brusio. Enur continuò a raccontare dell'Imperatrice e della nuova corte che formò attorno a sé, ma Kala a malapena la sentì: non esisteva nulla, al di fuori di quella maledetta carta. La ragazza continuava a scrutare gli occhi bianchi del disegno, perdendosi sempre di più nel loro nulla. Era davvero identico a Lamadidiamante: non era possibile, Minhar! Come...

Con uno scatto le dita affusolate di Enur presero il Condannato e lo girarono a faccia in giù, strappando la ragazza dello sguardo vuoto dell'illustrazione. «Le carte utilizzate vanno voltate, cucciola», spiegò la donna con un buffetto, quando Kala sussultò e si voltò di scatto verso di lei, il cuore che batteva forte come se si fosse appena risvegliata da un incantesimo. «Il passato è passato, bambina. Ora, pesca un'altra carta.»

Kala scosse la testa, ancora ansimante e tremante. La sua mano si allungò tuttavia tremante, sfiorando il dorso liscio e tiepido dei tarocchi prima di afferrarne uno e portarlo al petto della ragazza. Mag Mell, che gioco perverso era quello?

«Che carta è, cucciola?», chiese paziente la vecchia, come se stesse parlando a una bambina di qualche inverno.

Dei, perché lo stava facendo? Perché? La ragazza trattenne il respiro e girò secca la carta.

Un sospiro di sollievo fuggì dalle sue labbra quando il sole velato del mattino illuminò l'illustrazione. Non assomigliava a Lamadidiamente, né a Nonna Enur, né a qualsiasi persona conoscesse. Il disegno rappresentava un ragazzo dal volto anonimo — doveva essere un ragazzo: i suoi capelli non arrivavano neppure alle spalle —, avvolto da vesti ricamate con piccoli ghirigori dorati. «L'Alchimista», lesse la giovane, ignorando la fredda vena di inquietudine che stava iniziando a farsi strada in lei. La carta era troppo — troppo! — anonima: gli abiti avrebbero potuto essere quelli di un artigiano quanto quelli di un re, il viso quello di un ragazzo quanto quello di un adulto. Mag Mell, in certi punti sembrava addirittura sfocata, anche se ogni dettaglio era preciso e curato come per le illustrazioni precedenti. Solo due cose erano nitide: i ricami spigolosi sulla veste, così simili alle incisioni sull'arco di suo padre, e lo strano oggetto che il disegno offriva verso l'alto. Non aveva mai visto un costrutto simile: pareva una sfera, formata da numerosi cerchi di metallo concentrici. Dei, cos'era?

Enur sorrise. «Il primo degli arcani mortali, quindi: il simbolo della dedizione, dell'ingegno e della sete di conoscenza. Ora, raccontami delle sue avventure.»

Se Kala aveva pensato che mescolare le carte con una mano era difficile, inventare una breve storie le parve un'impresa impossibile. Per quelli che le parvero interminabili giri di clessidra borbottò le prime parole che le venivano in mente — che erano poche —, cercando di trasformarle in frasi coerenti. Dei, come aveva fatto Enur a raccontare dell'Imperatrice? Non le veniva in mente nulla — nulla! — e l'aspetto anonimo della carta non faceva nulla per aiutarla. Se solo fosse stata simile a qualcuno che conosceva, o a paladino di qualche leggenda: almeno avrebbe saputo di chi parlare!

Quando con un buffetto Enur le disse che non aveva bisogno di sforzarsi ulteriormente, se non riusciva a trovare una storia per il tarocco, alla giovane venne quasi da ringraziare gli dei. Poi, la vecchia le consegnò il mazzo con un sorriso e la ragazza si trovò di nuovo costretta a litigare e inveire sottovoce contro quei pezzi di cartafoglia. Mag Mell, come facevano quei girovaghi a trovarlo divertente? Alla fine, quando la giovane porse sgraziatamente il ventaglio di carte alla donna, Kala non sapeva quale parte del gioco fosse una tortura maggiore.

«La Sacerdotessa», annunciò Enur, posando la carta che aveva pescato sulle assi di legno. «L'arcano del mistero, della lungimiranza e del sacrificio.»

Kala si sporse in avanti con la fronte corrucciata. Sacerdotessa? Solo gli uomini potevano servire gli dei, lo sapevano tut—

Era lei. Identica a come viveva nei suoi ricordi e nei suoi disegni, fino all'ultima pennellata. La matassa di capelli ricci, neri come l'inchiostro di calamaro più pregiato — ne ricordava ancora il profumo, l'acuto odore di arance e di limone con cui tentavano di allontanare quello pungente di infetto e di pozioni sterili. Il vestito rosso, che lasciava nudo parte dello sterno e le braccia scure, olivastre. Il volto, quel volto che non avrebbe mai potuto dimenticare, distorto in una maschera di ira e dolore. Meredith gridava, urlava contro l'ombra dorata che si stagliava alle sue spalle, artigliando con disperazione il cuore pulsante che le loro braccia tese sopra la testa stavano offrendo alle fauci socchiuse della creatura, come un sacrificio. Il sacrificio più grande che lei aveva fatto, per cui avevano perso più di una parte di loro. E gli occhi, per gli Araldi, quegli occhi che erano stati dello stesso colore delle profondità del mare e, ora lo fissavano pieni di lacrime. Bianchi. Spenti, come quel maledetto tramonto, quando il loro corpo ormai fragile e anziano si era steso tra le piante bruciate e i sassi, circondato dall'odore di sale e lo sciabordio delle onde...

Con un rantolo la ragazza si piegò in avanti, boccheggiando alla disperata ricerca d'aria come se fosse appena riemersa dalle acque di un fiume. Il suo cuore scalpitava ancora nel petto, mentre i suoi occhi spalancati saettavano da una parte all'altra del carro. Minhar!

«Tutto bene, cucciola?»

La ragazza trasalì nel sentire la voce di Enur. Scosse la testa, mentre ancora ansimante si rannicchiava su se stessa, portando la mano ferita al petto. Sotto la stoffa l'opale pulsava gelido, attraversato da una sottile vena incandescente. Dei, perché stava tremando? Perché sentiva gli occhi pizzicare come se stesse trattenendo a fatica le lacrime?

Un tocco gentile le sfiorò il volto, come per rassicurarla. «Bambina. Guarda, è solo una carta»

Kala digrignò i denti, spostando esitante lo sguardo sull'illustrazione. Una figura anonima quanto quella dell'Alchimista si stagliava contro lo sfondo dorato, innalzando solenne il cuore di un sacrificio animale ai tetti dei palazzi che emergevano evanescenti dal cielo. «Minhar!» esclamò strozzata, spalancando gli occhi. Dov'era finita la donna dalla carnagione scura, dov'era il grido e le lacrime che poteva giurare di aver visto? Mag Mell, cosa stava succedendo?

Un altro brivido la attraversò, un brivido che tuttavia non proveniva dal suo corpo.

«Suvvia, bambina, non mi pare il caso di imprecare così davanti al piccolo», la rimproverò divertita Enur, dandole un buffetto. «Ora, lascia che ti racconti la storia di una donna che rinunciò alla sua vista per sfidare il destino.»

Ben presto, al Condannato e l'Alchimista, la giovane aggiunse l'Avvelenatrice — Kala quasi si appiattì contro il bordo del cardo sibilando il nome della strega quando vide l'illustrazione —; il Mago, che allo sguardo terrorizzato della ragazza la donna ribatezzò come il Guerriero; e la Voce dei Morti. La vecchia invece pescò il Sapiente; l'Eclissi, simbolo di inganni e false apparenze; e l'Assassino.

Poi, fu di nuovo il suo turno. Esitante, serrando i denti come se stesse infilando una mano in un mucchio di vipere, la ragazza prese una carta dal mazzo teso di fronte a lei e la girò.

E tutto il suo mondo andò in frantumi.

«Bambina?»

Kala non rispose, mentre la mano tesa di nonna Enur e il carro si offuscavano, diventavano privi di significato. L'illustrazione rimase tuttavia nitida, unica cosa vera in un mondo grigio e surreale. Riusciva solo a respirare sempre più pesante, le labbra e le dita tremanti. La carta era capovolta, le lettere del nome rovesciate e l'illustrazione a testa in giù. Eppure non aveva bisogno di girarla per riconoscere la figura.

Prima che potesse rendersene conto, un singhiozzo sfuggì dalle labbra della ragazza.

«Oh, cucciola», gemette la distante voce di Enur, mentre un abbraccio caldo le circondava le spalle tremanti. «Hai perso qualcuno, vero?»

Kala strabuzzò gli occhi arrossati, alzando di scatto la testa verso la vecchia. Dabih, come...? Un altro singulto le straziò il petto, più forte dell'altro.

La vecchia la strinse più forte a sé. «È la Torre, bambina», mormorò piano, avvolgendo le dita attorno alla mano di Kala ancora stretta convulsamente attorno alla carta. «Essa è la nostra roccia salda, il nostro baluardo di protezione, l'ancora che anche nel mezzo della tempesta riesce a darci forza. Tu, tuttavia, hai visto la carta rovesciata: la tua Torre è stata spezzata e portata via da te.»

Uno spasmo attraversò il corpo della giovane, mentre il suo sguardo offuscato scivolava di nuovo sulla carta. Dall'illustrazione ribaltata gli occhi bianchi e vacui di Teucer la fissavano, il viso pallido e il mantello macchiato di rosso avvolto attorno alla torre che si sbriciolava, lacerata da un fulmine. Un altro singulto la scosse, combattendo lo straziante urlo di dolore che da quando la carta si era rivelata si stava dimenando per liberarsi. Poi il muro che per due anni Kala aveva costruito attorno a quella dolorosa voragine crollò.

«Era mio padre!» gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, stringendo i denti per combattere le lacrime. La sua mano fasciata si aggrappò con uno spasmo all'immagine del cacciatore, mandando una fitta lancinante lungo il braccio. A Kala tuttavia non importò, così come non le importò la stilettata di dolore che attraversò il palmo sano e la sottile goccia di sangue che sgorgò dalla carne trafitta dalle unghie. C'era solo la carta, e lo squarcio che aveva scoperto nel suo petto.

«Sh sh», mormorò la vecchia, avvolgendola in un tiepido abbraccio e sfiorandole il viso pallido, distorto dalla lotta contro le lacrime. «Lasciati andare, piccola.»

La ragazza scosse violenta la testa, strizzando gli occhi ormai umidi. «No!» Non poteva piangere, non poteva!

«Bambina, non nasconderti. È normale.»

«Non lo è!» gridò stridula la ragazza, cercando di dimenarsi dall'abbraccio della vecchia e lottare contro i singulti. Non poteva, non ne era degna!

«Puoi sfogarti, piccola. Sei al sicuro qui: non hai bisogno di fingere con questa nonna.»

«No! Io non posso

«Oh, bambina, perché? Tutti possiamo: è un segno di forza.»

«No! No, io...»

«Perché, cucciola?»

«Perché non ho pianto!» esplose Kala, gridando con tutto il fiato che aveva in corpo. Un lungo istante di silenzio, in cui la confessione della sua colpa echeggiò nella campagna desolata. Poi un singhiozzo le squassò piano il petto. Era suo padre, e non aveva pianto. Non aveva pianto quando aveva saputo la notizia, né quando i suoi pochi resti erano stati bruciati sulla pira funebre. Si accasciò contro la vecchia, sconfitta, affondando il volto nella spalla coperta dallo scialle. Non aveva pianto. Traditrice. Ingrata. Insensibile. Dei, che abominio di figlia era? Non hai pianto.

Si meritava tutto quello che le stava succedendo. Cuore di ghiaccio. Se lo meritava, Dabih!

Il petto della vecchia si sollevò con un lieve sospiro, poi la ragazza sentì qualcosa di caldo e morbido avvolgerla come un secondo abbraccio. «Bambina», mormorò piano la donna, mentre aggiustava il lembo del suo scialle sulle spalle tremanti della ragazza. Kala si rannicchiò su sé stessa, serrando le palpebre umide. Non aveva mai pianto! «Ascoltami, bambina: non sentirti in colpa.»

«Ma io non ho pianto! Neppure quando l'hanno bruciato sulla pira funebre!» gridò tra i singhiozzi Kala, soffocando la voce contro la spalla ormai umida. Si ricordava quel giorno, si ricordava il pianto sommesso di sua madre e sua sorella mentre le fiamme bruciavano quel poco che rimaneva di Teucer e dell'altro cacciatore. Si ricordava il braccio della donna stretto attorno alle sue spalle, il viso arrossato di Aryane. E si ricordava il vuoto, il nulla, che aveva provato, guardando le ceneri di suo padre crepitare tra le fiamme con occhi secchi. Normali. Privi di qualsiasi lacrima. Insensibile. Figlia ingrata!

«E per questo l'hai amato di meno, cucciola? Per questo hai sofferto di meno?» Un tocco delicato costrinse la ragazza ad alzare il volto. «Non sempre chi soffre piange, piccola. A volte, ci sono dolori che sono troppo grandi per essere espressi con le lacrime. Forse quando è successo non hai pianto fuori, bambina. Ma stai ancora sanguinando dentro.»

Kala abbassò lo sguardo, rintanandosi di nuovo nell'abbraccio di Enur. Un lieve singulto la attraversò quando Enur le sfiorò i capelli, avvolgendola ancora di più nello scialle di lane. Lo sentiva: sentiva il suo cuore battere straziato, piangere quelle lacrime di sangue che lei quel giorno non aveva versato. Ingrata. Indegna.

«Mi manca», confessò in un singhiozzo, serrando gli occhi arrossati. Ripeté ancora e ancora quelle due parole, affondando il viso nella spalla della donna come da piccola faceva con il mantello di suo padre.

«Lo so, bambina», mormorò piano, iniziando a cullarla dolcemente tra le sue braccia. «Lo so

Con un singulto la ragazza si rannicchiò contro il petto della vecchia, mentre le dita olivastre le accarezzavano piano i capelli e accompagnata dalle note di una lenta melodia la sua mente scivolava nel dormiveglia.

Una lacrima cadde sulla guancia della ragazza.


Ed eccoci qui con una nuova parte. Direi che ormai è chiaro perché il capitolo si chiama in questo modo. Ah, per chi vuole extra feels consiglio di rileggere gli ultimi paragrafi ascoltando in sottofondo il ritornello di "My Immortal" di Evanescence.
Non a caso su instagram la sta utilizzando come canzone del capitolo.

In questo spazio autrice sarò breve, visto che non voglio rovinare troppo l'atmosfera che spero ho trasmesso in questa parte. Tuttavia volevo dire due parole sui tarocchi di Enur: chi conosce queste carte potrebbe aver notato che sono in parte basate sugli arcani maggiori, ma sono anche un po' diverse. I tarocchi alethiani, infatti, sono ispirati a quelli nostri ma sono sostanzialmente diversi, sia per alcune figure che il loro significato che il modo in cui sono divisi. Sono divisi in tre mazzi:
-gli arcani araldici (4 carte)
-gli arcani mortali (20 carte, utilizzate da Enur per il gioco)
- in alcune versioni, gli arcani astrali (12 carte, rappresentano le costellazioni dello zodiaco alethiano)
Vi dico di fare molta attenzione alle carte che sono state pescate in questo capitolo: alcune potrebbero non essere state prese per caso😏

Question time: secondo voi, come e perché alcune carte di Enur rappresentano personaggi del libro? E perché altre invece appaiono anonime?

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