XXIII - Filo spezzato (pt.3)


Era il tramonto quando infine la ragazza si decise ad uscire, la mantella di lana che la madre dei due bambini le aveva prestato avvolta attorno alle spalle e il pugnale di suo padre nascosto nello stivale. Fu più traballando che camminando che la giovane raggiunse la porta che per ore aveva scrutato senza attraversare; e fu con occhi dardeggianti che si affacciò dalla soglia.

Kala aveva già visto i carri in cui i girovaghi vivevano - anni prima uno di quei strani gruppi di vagabondi aveva raggiunto Vahrel e si era accampato per un paio di notti fuori dalle mura - e sapeva che la stanza in cui si era svegliata doveva essere l'interno di una di quelle strane case su ruote, eppure anche così ciò che vide una volta fuori dalla porta la lasciò spiazzata. Intorno a lei si stendeva un vero e proprio villaggio - anzi, un labirinto - di carri, in cui le strade erano i solchi lasciati dalle ruote nel terreno gelato, le botteghe dei cesti accatastati di fianco alle ruote e le mura di cinta delle rovine intrecciate agli alberi. Mille odori - di legna appena tagliata, di panni insaponati, di sudore, di stalla, di minestra mezza bruciata - aleggiavano nell'aria, talmente forti da sopraffare nauseabondi ogni altro senso; mentre camice e gonne rattoppate ondeggiavano al vento, appese a spessi fili di canapa tesi tra le pareti scrostate dei vagoni. Una lieve musica echeggiava in lontananza, un'orchestra confusa di flauti, tamburelli e stonati strumenti a corda.

La diciassettenne si aggrappò allo stipite della porta, le dita pallide e le labbra serrate. Se non fosse stata così debole e affamata, il suo volto si sarebbe contratto in una smorfia di ribrezzo e diffidenza. Dei, dov'era finita?

«Ehi, mocciosetta: sbrigati a scendere quei due gradini, se vuoi cenare!» Failen la aspettava ai piedi della scaletta in legno, le manine sui fianchi magri coperti da una gonna di stracci.

«Non mi chiamo "mocciosetta"!» sibilò Kala, stringendo i pugni. O meglio, stringendo un pugno: la mano sinistra, completamente fasciata, giaceva inerme sotto le pieghe della mantella.

Failen ghignò, facendo dondolare l'incisivo da latte con la lingua. Se la prima volta che l'aveva fatto era rimasta delusa che la ragazza fulva avesse solo sbuffato irritata anziché urlare di disgusto, ora la bambina pareva provare un sadico piacere nell'infastidirla ostentando il suo dentino traballante. «Chissenefrega», ribatté con una linguaccia. Poi, esortandola con un'imprecazione che fece sgranare gli occhi alla ragazza, la piccola le afferrò una mano - non quella fasciata, fortunatamente - e la tirò a forza giù dalla scala di legno.

Fu così che Kala venne trascinata traballante per quel dedalo di carri, chiedendosi in ogni istante perché - perché, per Dabih! - era sfuggita dagli artigli della strega corvina e della morte solo per finire tra quelle persone dimenticate dagli dei. A ogni falcata, a ogni curva, la voce stonata dei flauti e dei tamburelli diventava più intensa, fino a che la diciassettenne non sbucò in uno spiazzo circolare tra i vagoni. Un vivido falò scoppiettava al centro di quell'improvvisata piazzetta, mentre tronchi rovesciati e sgabelli che avevano decisamente visto giorni migliori creavano piccole isolette di legno su cui già molti girovaghi avevano preso posto. Almeno una quarantina di persone erano già radunate lì: tra esse la ragazza riuscì a scorgere cui Tuam e la madre - su un tronco abbastanza vicino al fuoco, insieme a quel farabutto inquietante che i bambini chiamavano "zio" e un uomo che Kala non conosceva -, oltre che a un gruppetto di giovani intenti a suonare strumenti di fortuna.

Senza esitazione Failen si fece strada tra quelle isole di legno, piombando alle spalle del fratello e dandogli uno scappellotto con un sonoro: «Scimunito! Dovevi aspettarmi per mangiare!»

Mentre l'uomo dal volto più inquietante di un brigante sghignazzava orgoglioso e la madre dei due bambini sgranava gli occhi senza tuttavia riuscire a rimproverare la figlia, la ragazza scivolò sul tronco, tenendosi discretamente lontana dai presenti e scrutando tutto con espressione contrariata. La fame era l'unico motivo per cui aveva accettato di uscire e quindi ritrovarsi in mezzo a decine di girovaghi. Sapeva fin troppo bene cosa si diceva di quei gruppi di vagabondi: erano persone condannate dagli dei a vagare per il Regno - per questo erano mortalmente invidiosi di coloro che abitavano nelle città - e fin troppo spesso erano malviventi o fuggitivi macchiati da qualche crimine.

Eppure, la madre dei due bambini e nonna Enur non ti sono sembrate persone malvagie.

La giovane serrò nella mano sana un lembo della sua gonna. Loro no: ma gli altri? Minhar, era sicura che quello che Failen chiamava zio Aròn fosse un farabutto della peggior specie - doveva esserlo, con la sua inquietante cicatrice e il volto olivastro così spigoloso e inasprito -, mentre il ragazzo con la bandana che stava danzando vicino al fuoco era talmente agile che non poteva che essere un ladro o un taglia-bisacce. Forse essere nel mezzo di girovaghi non era come viaggiare con una subdola strega, ma - per tutti gli dei! - non per quello si sentiva a suo agio!

«Immagino tu sia Aryane.»

La diciassettenne alzò lo sguardo verso l'uomo seduto vicino a zio Aròn, rendendosi conto con un brivido che non aveva smesso di scrutarla di sottecchi da quando lei si era seduta.

«Sì, è lei», si intromise Failen, ancora intenta a scompigliare e tirare giocosamente i capelli del suo fratellino.

Lo sconosciuto le scoccò un'occhiata severa. «Voglio sentirlo da lei.»

Non agitarti. Non credo voglia farti del male.

Nonostante la voce di Kian e il refolo di aria gelida che l'aveva sfiorata come una rassicurante carezza, l'adolescente non riuscì a calmare i battiti furiosi del suo cuore o il suo torturare nervoso di una sfortunata ciocca fulva. «Sì, sono io Aryane», sibilò come un gatto con le spalle al muro. Minhar, perché aveva scelto il nome della sua sorellina?

«Bene. Non mi piace perdere tempo, quindi andrò dritto al punto.» L'espressione dell'uomo era dura, forse un po' sprezzante. «Non puoi rimanere qui: domani all'alba Aròn ti lascerà nella città più vicina. Che poi tu decida di rimanere lì o provare a viaggiare per raggiungere non so quale luogo, non mi interessa.»

La giovane serrò il pugno e digrigno discretamente i denti. Mag Mell, non sapeva come reagire! Anzi, non sapeva neppure cosa sentiva: era sollievo, per l'idea di lasciare i girovaghi? Era terrore, per la possibilità che la città in cui l'avrebbero portata fosse come Selm e per la realizzazione che sarebbe stata da sola, lontana da casa? Per Saiph!

«Non potresti concederle di rimanere ancora un giorno?» domandò con voce flebile ed esitante la madre dei due bambini. La sua debole protesta fu una sorpresa per tutti, e Kala non impiegò più di qualche istante a capire il perché: quello sconosciuto doveva essere una specie di patriarca per i girovaghi. Doveva, visto che quando parlava anche i due monelli rimanevano in silenzio! «Fino a questa mattina faceva ancora fatica a svegliarsi e...»

«E ora riesce a stare su due piedi: non osare contraddire la mia decisione, donna», ribatté l'uomo. Poi guardò la madre, rannicchiata su sé stessa e con lo sguardo basso, e sospirò. «Ina, è la cosa migliore per la famiglia. Le nostre risorse sono scarse, e non possiamo permetterci di nutrire un'altra bocca che non riesce a contribuire alla nostra comunità. Mi dispiace, ma quella ragazzina per quanto mi riguarda è un peso inutile.»

La giovane si morse un labbro con violenza, livida in volto e con la ciocca di capelli ancora stretta nel pugno tremante. Un peso inutile? Lei non era un peso inutile, per tutta Mag Mell! Come si permetteva, quell'arrogante...

Fu allora, nel mezzo di quei pensieri colmi d'ira, che Kala sentì un lieve tocco scompigliarle materno i capelli. «Suvvia, Balor: non essere così severo con questa bambina», lo rimproverò affettuosamente la voce di una donna con già qualche inverno alle spalle.

La ragazza sobbalzò con un grido strozzato e girò di scatto la testa, ritrovandosi davanti il sorriso benevolo e lo sguardo saggio di Enur. Il suo cuore iniziò a galoppare, e non sapeva se per un inspiegabile sollievo o per un irrequieto disagio: non si era affatto dimenticata che la vecchia sapeva della sua bugia e teneva tra le dita il segreto della sua vera identità. Nervosa, seguì con lo sguardo la donna che salutava con un tenero buffetto i due bambini e quasi scattò in piedi quando la sessantenne si accomodò di fianco a lei sul tronco, dopo averle accarezzato materna il capo.

«Mangia: hai bisogno di riprendere le forze.» Con quelle semplici parole - e ignorando lo sguardo esterrefatto di Balor - , la sessantenne le porse un piatto con uno strano tortino deforme da cui fuoriuscivano erbe cotte e una strana sostanza biancastra che alla giovane sembrava qualche formaggio grumoso. Notando l'espressione sospettosa dell'adolescente, la donna rise leggiadra. «Lo so, bambina: Aròn non riesce a far sembrare il cibo molto invitante, ma, fidati, è uno dei migliori cuochi della famiglia.»

La diciassettenne non riuscì a credere alle sue orecchie: Aròn era bravo a cucinare? Stavano parlando proprio di quell'uomo, che sembrava un brigante pronto a decapitare la prima persona che passava con la sua spada scheggiata che ora stava affilando noncurante?

Prima che qualcun altro riuscisse a prendere la parola, Balor tossicchiò. «Nonna Enur?» L'autorità che fino a qualche momento prima vibrava nelle sue parole si era ora indebolita, come se fosse stata offuscata dall'improvviso intervento della vecchia. L'uomo se ne accorse - come tutti i presenti, d'altronde - ma non parve irritato: anzi, sembrò quasi rassegnato. «Non so se hai sentito anche quello, ma...»

«Non preoccuparti, Balor: sono vecchia, ma non ancora sorda», gli sorrise materna Enur. Kala era sicura che, se l'uomo fosse stato più vicino, la sessantenne gli avrebbe dato un affettuoso buffetto. «E non sono neanche cieca: questa bambina non si è ancora ripresa completamente. Ha bisogno di riposare ancora. Di restare qui, con noi.»

«La ragazza non appartiene qui. Non porterebbe nulla alla nostra famiglia: è inutile, è un peso morto.»

Enur sospirò, paziente, come se fosse una nonna che deve spiegare per la decima volta qualcosa al suo nipotino. «È questo il problema, quindi? Bambino, non puoi giudicare il valore di una persona se non le lasci l'opportunità di provarlo. Concedile ancora un po' di tempo, dalle la possibilità di dimostrarti che non è inutile come pensi: una settimana, per esempio.»

«È già stata con noi più di quattro giorni.»

«Quattro giorni passati a lottare contro la morte sono veramente quattro giorni, Balor?»

L'uomo strinse i pugni, come se fosse sul punto di dire qualcosa, poi rilassò gli arti. «Va bene: una settimana», cedette, prima di alzarsi dal tronco e ritirarsi in segno di resa.

Non appena la figura di Balor scomparve in lontananza, i due bambini gridarono esultanti, correndo in braccio a Enur, la quale iniziò a scompigliare ridente i loro capelli. Failen rivolse un ghigno alla ragazza, sfoggiando il suo dente dondolante ed esclamando "Sei ancora con noi, mocciosetta!"; mentre Ina sorrideva in disparte e la guardava imbarazzata, come se aspettasse che la giovane ringraziasse l'anziana donna. Kala tuttavia era ancora immobile, gli occhi sgranati fissi sulla vecchia: per gli dei, com'era riuscita a far cambiare idea al patriarca con solo qualche frase? E, per Minhar, perché lo aveva fatto?

Anche se la ragazza non riuscì a pronunciare parola, Enur le sorrise dolce, come se al posto del silenzio avesse udito un "grazie". D'un tratto la vecchia si alzò, rispondendo alle proteste dei due piccoli con un sonoro bacio sulla guancia. «Ora vi lascio: vorrei avere due parole con qualcuno.» Poi, prima di dileguarsi tra i carri, diede un tenero buffetto alla diciassettenne. «E tu, mangia tutto il tuo curad.»

Il curad, come Kala scoprì quando decise di assaggiare quella cosa informe nel suo piatto, era un tortino a base di un pane che non conosceva - pane di tumminia, le sussurrò a un certo punto Failen -, erbe bollite e uno strano formaggio di pecora che tutti chiamavano "ricotta". Era salato, molto più salato di tutto quello che la ragazza avesse mai mangiato. Eppure, sebbene a ogni boccone doveva anche trangugiare un sorso d'acqua da un bicchiere di legno che puzzava ancora di birra, doveva anche ammettere che non era così terribile: l'aspetto era decisamente peggiore del sapore.

Mentre mangiava, il bambini iniziarono a chiacchierare animatamente tra di loro, spesso trascinando nelle loro conversazioni loro madre e Aròn. La ragazza li udì discutere della famiglia, dei loro scherzi più recenti, delle storie e leggende che secondo loro erano più paurose. Fu così, che tra menzioni di Minhar e di draghi, la giovane udì una parola che era certa di non conoscere. Poggiando il piatto ormai vuoto sulle ginocchia e aggrottando le sopracciglia, la diciassettenne ripeté esitante: «Vaukalak?»

«Sì, quello per cui ti abbiamo scambiato quando eri nel fiume», sghignazzò Tuam, prima di venire interrotto da uno scappellotto e un esasperato "scimunito" della sua sorellina.

«La mocciosetta è del nord, marmocchi: a nord non conoscono i Vaukalak», brontolò Aròn, mettendo finalmente da parte la sua spada.

La ragazza credette che il suo cuore stesse per esplodere. «Del nord? Come...»

«Il modo in cui parli», le spiegò con voce flebile Ina. «Anche se il tuo aspetto un po' confonde, il tuo accento è impossibile da non riconoscere.»

La giovane sgranò gli occhi. Il suo accento? Cosa doveva allora lei dire di tutti loro, che avevano accenti talmente forti che a volte lei aveva difficoltà a capire cosa stessero dicendo?

«Quindi tu non sai nulla dei Vaukalak?» insistette Failen.

Il ghigno della bambina ricordò improvvisamente alla diciassettenne quello di sua sorella, e ciò non la rassicurò affatto. «Sono dei mostri, immagino», sbottò, scrollandosi le spalle.

Il ghigno di Failen si allargò e la piccola parve sul punto di parlare, ma fu Aròn a prendere la parola al suo posto. «Mostri è quasi un complimento per loro. Sono delle bestie feroci quasi quanto i draghi, ma non sono così stupidi come quei lucertoloni. Oh, niente affatto.» Gli occhi dell'uomo brillavano minacciosi e perfino la sua voce si era fatta più roca, simile al ringhio di qualche fiera. «Con loro trucchetti come indovinelli e prove di intelligenza non funzionano: non c'è quasi nulla che ti possa salvare da un Vaukalak, se ti sceglie come preda. Nel momento in cui vedi i suoi occhi rossi come il sangue delle vittime che ha sbranato e il suo muso incrostato di licheni, sai che quella sera quel lupo mostruoso banchetterà con il tuo cadavere.»

Un brivido improvviso attraversò la schiena di Kala, la quale ripeté con voce strozzata: «Lupo?»

«Il più grande e orripilante che esista», sussurrò Failen. «Alto come un uomo e con gli artigli grandi come una mano.»

I ricordi della corteccia sfregiata dagli artigli e della bestia che quella maledetta notte di luna piena l'aveva inseguita nel bosco colpirono la ragazza come una frusta, la quale impallidì. Oh, dei! Quasi sperava che Kian le violasse i suoi pensieri per rassicurarla, come aveva fatto alle cascate di Ossellion, ma il mago pareva essere scomparso nel nulla.

Aròn ignorò l'osservazione della bambina, riprendendo come se non fosse mai stato interrotto. «L'unica cosa che ci protegge dai Vaukalak è il fiume Argat: al di là di esso, la foresta pullula di quelle bestie che non aspettano altro che qualche sciagurato ratto di cambusa si addentri nelle loro terre per divorarlo e usare le sue ossa come collane. E quindi ricorda, mocciosetta: quando senti un ululato provenire al di là di quelle acque, non è un semplice lupo quello che si sta avvicinando.»

Fu per pura coincidenza che in lontananza un cane da pastore abbaiò, i suoi latrati simili a quelli di quelle creature che Kala odiava con tutto il suo cuore che echeggiavano sinistri tra gli alberi. Quel suono tormentò la ragazza anche quando si rannicchiò tra le coperte del suo giaciglio, tenendola sveglia come un pezzo di ghiaccio premuto contro la sua schiena. E quando la giovane finalmente si addormentò, sognò di lupi giganti che la braccavano ringhiando nel bosco, prima di attaccare l'uomo che correva al suo fianco e sbranarlo sotto i suoi occhi pieni di lacrime, lasciando dietro solo il suo mantello di pelliccia e il suo arco circondato da undici frecce spezzate.

*

Nei giorni seguenti, la diciassettenne fu costretta a prendere sempre più parte nelle attività della famiglia. Mano a mano che la sua ferita si cicatrizzava e le sue forze tornavano, l'adolescente si trovò ad aiutare le donne nei loro vari compiti: passava le mattine ad appendere i panni che le altre avevano lavato, a preparare le verdure per la cena di quella sera, a vagare per ore portando messaggi da un punto all'altro dell'accampamento. E così, lentamente, imparò sempre più cose sulla vita di quel gruppo di girovaghi: scoprì che non passavano mai più di un paio di notti nello stesso luogo, che viaggiare anche solo per qualche miglio poteva occupare loro un intero pomeriggio, che molti erano artigiani che barattavano i loro lavori con contadini e piccoli villaggi in cambio di sacchi di cibo. A volte erano fortunati nei loro scambi, e riuscivano a ottenere anche formaggi e altre cose che fino a quel momento Kala non avrebbe mai considerato un lusso; altre volte invece tornavano solo con verdure mezze marce e grano mal conservato. Fu per quello che quando un paio di ragazzi arrivarono trasportanti trionfanti un sacco pieno di bacche di iuna, l'intero accampamento esplose in un boato di gioia. Si potevano ricavare moltissime prelibatezze, da quelle bacche: una buona parte venne subita messa da parte, per essere trasformata in liquore, mentre Aròn - spinto da molti dei suoi compagni - annunciò che quella sera avrebbe preparato un dolce con esse per festeggiare.

La sera venne presto, e tutti nella famiglia erano in fermento: fu forse anche per quello che la diciassettenne poco prima dell'ora di cena decise di allontanarsi dal centro dei festeggiamenti. Aveva bisogno di stare da sola - quanto da sola poteva stare con Kian che costantemente le violava i pensieri - e così si avventurò tra le carrozze più esterne dell'accampamento. Già da un po' camminava tra i vagoni vuoti e i bracieri, calciando tutti i sassolini che incontrava sul suo cammino, quando alla sua sinistra udì un suono simile a una risatina soffocata. Con il cuore in gola la giovane si voltò: un ragazzo di forse qualche anno in più di lei era seduto sulle scale di una carrozza, facendo tremare nervosamente una gamba e continuando a passarsi una mano tra i capelli

«Cosa vuoi?» sbottò la giovane, portando istintivamente la mano al manico del coltello di suo padre.

Il ragazzo alzò lo sguardo verso di lei, inclinando impercettibile la testa. «Volere? No, volare è meglio. Sì, volare come gli uccelli. Gli uccelli hanno le piume. Le piume sono fastidiose, si incastrano ovunque. Fastidiose, esatto, come le voci. Mia madre ha una bella voce, specialmente quando canta. Quando si canta si balla, anche: a me non piace ballare, mi fa venire una sfortuna scura e oltraggiosa alle gambe.»

Se prima la diciassettenne era innervosita, ora era spaventata. Indietreggiò lentamente, il pugnale sguainato e gli occhi fissi sullo sconosciuto che continuava a blaterare cose senza senso passandosi una mano tra i capelli. Che razza di oscuro maleficio era quello?

Non dare sempre la colpa alla magia, Kala. Temo che ciò di cui è vittima questo ragazzo non sia un incantesimo.

La ragazza non riuscì a non notare il tono triste di Kian, come se lui avesse capito cosa fosse successo. Prima che potesse chiedergli spiegazioni, tuttavia, la giovane udì Failen chiamarla in lontananza e per lei quella voce sembrò una corda di salvezza. Più veloce che poté la diciassettenne corse verso la bambina, lasciandosi alle spalle le parole confuse di quell'inquietante giovane.

«Eccoti, mocciosetta», esclamò Failen quando la vide arrivare. «Dov'eri finita? Ti stavi nascondendo da un Vaukalak?»

La diciassettenne, ancora scossa da quel surreale incontro, scosse la testa e borbottò la prima scusa che le venne in mente. La bambina, tuttavia, non parve neppure ascoltarla: la afferrò per una manica ed iniziò a trascinarla tra i carri. Dovevano raggiungere la piazza, diceva - Kala ormai aveva capito che la piazza era dove i girovaghi mangiavano. Dovevano raggiungerla in fretta, perché zio Aròn aveva detto che la confettura per il suo dolce era quasi pronta. Era talmente entusiasta all'idea di assaggiarlo, la piccola Failen, che non si accorse subito dell'ombra che improvvisamente apparve tra i carri.

Di colpo la ragazza si fermò, attirando l'attenzione della bambina con uno strattone e facendo dardeggiare gli occhi di ghiaccio nello scuro spazio tra i due vagoni davanti a sé, dove un'ombra umana camminava a fatica. Per un attimo temette che si trattasse di quello strano ragazzo, poi la figura zoppicante entrò nel cono di luce di un braciere, rivelando un anziano volto femminile e uno scialle color oliva.

Con un gridolino Failen corse verso la donna, con espressione preoccupata. «Nonna Enur! Hai ancora uno dei tuoi mal di testa?»

Kala invece non si mosse: con gambe paralizzate e con respiro sempre più irregolare faceva scattare lo sguardo dalle pesanti occhiaie della vecchia al tremolio incontrollato della mano, dal petto che si alzava e si abbassava a fatica sotto lo scialle alle labbra di un inquietante violaceo. Per gli dei, quello non era un mal di testa: ne era certa! Ne era sicura, per Dabih!

La vecchia serrò le palpebre, appoggiandosi al carro come se non avesse più neppure la forza per camminare, poi mormorò con un fil di voce: «Non ti preoccupare, cucciola. Dove... dove sono gli altri?»

«Sono tutti nella piazza per assaggiare il dolce di Aròn, nonna.»

La donna spalancò gli occhi d'argento e con un gemito soffocato si allontanò dal vagone. A malapena si reggeva in piedi, ma la vecchia iniziò comunque a camminare in avanti, traballando sempre più pericolosamente.

Accadde in un istante: la paralisi che aveva intrappolato gli arti di Kala scomparve e la ragazza si gettò in avanti, appena in tempo per afferrare la donna prima che cadesse a terra. «Per favore, devo raggiungerli», la supplicò Enur, con voce talmente flebile che venne sovrastata dal gridolino di paura di Failen.

«No!» protestò con veemenza la giovane, sbattendo il piede a terra. Era sicura di aver ragione, ne era sicura! «No, non devi...»

«Bambina.» Anche con la sua voce più debole di un fruscio interrotta dal respiro roco, Enur ammutolì la diciassettenne. «Ti prego: portami da loro.»

E così d'un tratto la diciassettenne si trovò a zigzagare tra i carri, la vecchia appoggiata alla sua spalla e Failen che correva intorno a loro mentre faceva domande sempre più preoccupata. La piccola insisteva a chiedere del mal di testa ma, per tutta Mag Mell, lei sapeva che non era così! Non avrebbe dovuto trascinare la donna attraverso l'accampamento: avrebbe dovuto lasciarla da qualche parte e correre, andare... non sapeva neanche lei dove, per gli dei! Avrebbe voluto impuntarsi, fermarsi e opporsi sbattendo il piede a terra, ma ogni volta che apriva la bocca per parlare o rallentava, Enur girava il suo volto sudato verso di lei e la supplicava in silenzio di non farlo.

Fu l'allegro chiacchiericcio e l'odore di cibo, ancora più del diradarsi dei carri, che fece loro capire di aver ormai raggiunto la piazza. Le panche e i tronchi rovesciati erano gremiti di membri della famiglia intenti a parlare e scherzare, impazienti di assaggiare il dolce di quella sera. Un paio di loro salutarono il loro arrivo, solo per scattare in piedi e raggiungerle preoccupati nel vedere il volto pallido e sofferente di Enur. La vecchia tuttavia non rispose alle loro domande ansiose, né alle proteste della ragazza: i suoi occhi offuscati dardeggiavano tra la folla, fermandosi solo quando riuscirono a posarsi su Aròn, intento a rimestare una pentola colma di qualcosa di rosso e viscoso.

Kala sentì i muscoli della donna irrigidirsi quando l'uomo immerse nella confettura un piccolo cucchiaio di legno, le sue labbra violacee mormorare un disperato "no" quando la posata riemerse dal calderone ricoperta di rosso. Poi il peso sulla sua spalla scomparve d'un tratto e la ragazza trasalì, tentando di gettarsi in avanti e afferrare un lembo dello scialle color oliva, inutilmente.

E fu così, sotto lo sguardo esterrefatto di tutti, che la vecchia si lanciò verso Aròn, strappandogli il cucchiaio di mano prima che una sola goccia viscosa riuscisse a sfiorare le sue labbra. Poi Enur ondeggiò come un giunco piegato dal vento e senza un gemito si accasciò a terra.

Tan tan tan! Ed eccomi qui con la nuova parte :) Ora, visto che il capitolo è lunghetto, credo che passerò subito alla question time. Solo una piccola curiosità, però: avete capito cos'ha quell'inquietante ragazzo che Kala ha incontrato? ;)

QUESTION TIME: secondo voi, cos'è successo a nonna Enur?

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