XXIII - Filo spezzato (pt.2)
Le dita artigliate del cavaliere sfiorarono la superficie vitrea del globo che galleggiava nel nulla sopra la sua mano, soffocando con un sinistro stridio il lieve cozzare metallico emanato dal centro di quel vortice di scintille incandescenti e cristallo liquido. Gli occhi di fiamme della creatura luccicarono minacciosi nell'ombra dell'elmo scarlatto, mentre le immagini che vorticavano all'interno della sfera fluttuante mostravano il Negromante indietreggiare con un salto, le mani sudate strette attorno a una spada di banale acciaio. Nell'angolo opposto della scena, una donna di bassa statura e dalla pelle bronzea fece volteggiare agile tra le mani una vel di metallo.
«No.» La voce della Jantu echeggiò distorta fuori dal globo cristallino, mentre assumeva una posizione di attacco, la lancia dalla punta simile a una larga foglia tesa di fronte a sé. «So cosa stai per dirmi e la mia risposta è no!»
L'osservatore sfiorò i fili evanescenti che si attorcigliavano attorno alla sfera, allontanandosi in poi in tutte le direzioni come un'ondeggiante ragnatela. Di tutti quei filamenti - molti dei quali appena più solidi di un tremolio d'aria - solo due attiravano la sua attenzione come il miele con le api: erano due lacci dorati, assai più robusti degli altri. Due fati assai diversi ma ancora egualmente probabili, che in ogni istante lottavano l'uno contro l'altro per prendere il sopravvento, sfavillando come una stella per subito dopo affievolirsi in un'ipnotica danza di alternanza. Due possibili pieghe che gli eventi avrebbero potuto prendere, e di cui uno fino a qualche giorno prima non esisteva.
Il Nemico schivò il primo colpo, poi fece sibilare la lama in avanti. I capelli castani volteggiavano sudati davanti al volto, coprendo in parte la cicatrice che attraversava dritta e verticale l'occhio destro. «Nirrti...»
«Volevi la mia opinione? Eccola: è una stupidaggine.» L'asta della vel sfrecciò veloce nell'aria, parando con facilità l'affondo della spada. «Pensavo che dopo Terkea avresti finalmente smesso di logorarti con questa tua ossessione per concentrarti di nuovo sulle cose più importanti. Ed evita di fare attacchi così prevedibili, per tutti i Devoër», sbuffò esasperata, intercettando una finta.
Il cavaliere ridusse gli occhi a fessura nell'osservare uno dei due lacci prevalere per un istante sull'altro. Le fiamme che ornavano l'elmo e avvolgevano gli spallacci dell'armatura vermiglia come un mantello crepitarono nervose, mentre destriero simile a un cavallo dal manto color sangue e la criniera di fuoco su cui l'essere era seduto fece scattare irritato il collo, riflettendo le emozioni del suo padrone. Dalle fauci ghignanti e ornate da zanne appuntite fuoriuscì uno anche sbuffo di fiato rovente, mentre gli zoccoli di oro puro fecero sprizzare scintille raschiando il solido vuoto si cui la bestia era appoggiata.
Il Negromante saltò di nuovo indietro, evitando che la punta smussata della lancia lasciasse un livido tra le sue costole. «Nirrti, sai bene quanto me che la barriera e la spia sono ostacoli pericolosi che non devono essere sottovalutati. Se mi stessi concentrando su cose veramente inutili, come quella sciagurata che ha trovato l'opale, saresti autorizzata a darmi uno schiaffo per farmi rinsavire.»
Nirrti ghignò, e per un istante la tensione che aleggiava nell'aria parve scomparire. «Oh, lo farei anche senza autorizzazione, non preoccuparti.» La donna poi diede una rapida stoccata con la vel, per correggere la postura del Negromante. «E non sto negando che quelle cose siano un problema, ma non sono il tuo problema. Soprattutto la barriera. Hai un intero gruppo di alchimisti che si occupano di quella: tu dovresti concentrarti sull'esercito e sulle battaglie.»
«Un gruppo in cui chiunque potrebbe essere la spia», ribatté il Nemico. «Pendragon... mi irrita ammetterlo, ma Pendragon aveva ragione: tra quegli alchimisti non c'è nessuno di cui mi fidi veramente.» Non ebbe bisogno di aggiungere altro: come quando avevano parlato con lo Spettro biondo, la Jantu capì subito cosa quella frase significasse.
Il cavaliere osservò fremente nella sfera l'asta della lancia abbattersi sibilante contro il Negromante, troppo veloce e troppo violenta per quello che avrebbe dovuto essere un semplice allineamento quotidiano. I due lacci dorati si contorcevano come serpenti impazziti, tentando l'uno di soffocare e spezzare l'altro; il destriero dal manto color sangue digrignava i denti affilati e si frustava i fianchi con una coda infiammata simile a quella di una volpe.
«No!»
«C'è solo una persona che potrebbe risolvere questo problema - entrambi i problemi - , e lo sai. Lo sai, Nirrti, lo sai quanto me: è la decisione giusta da prendere.»
«Non dici questo per il bene della nostra causa, ma solo per il tuo dannatissimo orgoglio ferito! Quella persona non si avvicinerà agli studi dei tuoi alchimisti; quella persona non tenterà di risolvere il grande enigma di quella maledetta barriera.»
Le due armi cozzarono con violenza, facendo echeggiare anche fuori dalla sfera il loro lugubre suono metallico. «E tu, sei certa che non hai nessuna ragione personale per tentare di fermarmi?»
L'osservatore vide nella sfera gli occhi neri della donna accendersi come braci scarlatte, sfavillare furenti mentre con un eterno istante di silenzio la Jantu faceva finta di ignorare la domanda. «Quando ero al comando di un esercito, io mi concentravo sempre sugli scontri, io non abbandonavo mai il campo di battaglia, io ero lì nella mischia a danzare tra il sangue e gli incantesimi, io non lasciavo problemi simili distrarmi, io...»
«Hai centrato il punto fondamentale della situazione, Nirrti: io non sono te.»
Fu proprio in quel momento che dalla porta chiusa venne un lieve bussare e sia il Negromante che la Jantu sgranarono gli occhi, come se per la prima volta si rendessero conto delle armi pericolosamente incrociate e di tutto quello che avevano detto e fatto negli ultimi istanti.
Il Nemico fu il primo a indietreggiare, lasciando cadere la spada a terra e arretrando verso il battente chiuso da un suo incantesimo. Si voltò verso la porta, mettendosi a posto i capelli sudati con le dita. «Dovremo discuterne di nuovo. Con calma. Possibilmente senza armi in mano.»
Nirrti annuì, appoggiata alla grata su cui aveva riposto la lancia. Anche se era morta, respirava pesantemente e aveva il volto pallido. Esattamente come il Negromante, aveva l'espressione di chi sapeva che aveva detto parole che non avrebbe potuto pronunciare, ma che era ancora troppo colmo di frustrazione e orgoglio per scusarsi. «Concordo», rispose con un filo di voce. Ma non si allontanò dal suo appoggio, non scivolò al fianco del Nemico come faceva sempre.
Il corpo del Negromante venne avvolto dalla sua armatura color ossidiana, plasmata dai rivoli simili a scuro mercurio in cui si erano sciolti i suoi parabracci di metallo, e l'osservatore smise di scrutare con i suoi occhi di fiamma quello che stava succedendo all'interno della sfera.
Con uno scatto irritato l'essere si allontanò, gli zoccoli dorati della sua cavalcatura che sprizzavano scintille a ogni falcata nel vuoto. Intorno a lui decine, centinaia, migliaia di sfere simili a quella che aveva lasciato alle spalle sfrecciavano veloci, lasciando intravedere solo frammenti di quello che stava succedendo all'anima a cui erano dedicate. In una una donna dai capelli color grano stava facendo colazione con la figlia quindicenne, osservano triste le due sedie vuote attorno al tavolo e il gatto tigrato accovacciato tremante su una di esse; in un'altra un uomo dalle braccia e le spalle piene di lividi e cicatrici si infilava con lentezza la sua divisa da Ombra, sulla cui stoffa spiccava l'emblema vermiglio di un rapace in picchiata. In un'altra ancora, un'Elfa corvina puliva con espressione distaccata la lama con cui aveva appena sgozzato l'uomo ubriaco che giaceva rantolante ai suoi piedi; mentre in una assai più lontana un giovane Warg attraversava con falcate entusiaste un cortile dominato da una grande sfera armillare, serrando tra le braccia rotoli di pergamena e qualche traballante alambicco di vetro.
Il cavaliere tese un braccio e dalle tenebre sfrecciarono verso di lui le volute sfrigolanti di una catena talmente lunga che pareva perdersi in quel vuoto punteggiato di sfere luminose e fili evanescenti che si espandevano in ogni direzione come un'immensa ragnatela. Fu allora che l'essere salì sulla groppa della bestia ancora lanciata al galoppo e, flettendo le ginocchia, spiccò un poderoso balzo verso l'alto. Il destriero e l'armatura si dissolsero in sbuffi di scintille roventi, mentre al loro posto due ali di fiamme si spiegavano nell'aria.
Lhamo afferrò il manico di rubino della sua kurisagama e si librò verso l'alto, i capelli color ebano che turbinavano attorno alle spalle e gli occhi simili a perle di lava incandescenti che luccicavano di irritazione. Non gli importava quando o come, ma uno dei due fili si sarebbe presto spezzato.
E sperava fosse quello che desiderava, o l'intera tela del destino avrebbe ne avrebbe subito le conseguenze.
La prima cosa che la ragazza sentì quando la sua coscienza affiorò dal sonno irrequieto, fu qualcosa di troppo intenso per essere fastidio e troppo debole per essere vero dolore. La pelle della schiena le tirava, come un pezzo di stoffa teso allo spasmo e rammendato più volte, e un insistente bruciore serpeggiava tra le scapole.
Mordendosi le labbra per soffocare un grugnito, Kala si girò su un fianco nella vana speranza di trovare una posizione un poco più confortevole. Lentamente, fermandosi non appena veniva scossa una fitta troppo forte, portò la mano destra alla fasciatura che le copriva buona parte della schiena. Sfiorò a fatica una macchia umida che copriva la stoffa sopra la ferita. Era come sospettava: le avevano ancora messo quella fastidiosa pomata a base di piante e sale. Per gli dei, chi metteva il sale su una ferita? Era meglio il miele, o la bava di fiume: quello lo sapevano perfino i...
La giovane aprì gli di scatto gli occhi, trovandosi a poca distanza dal volto il ghigno curioso e il dente dondolante di una bambina che non doveva aver visto più di sei o sette inverni. La diciassettenne trasalì violentemente, i muscoli tesi e pronti a scattare, ma perlomeno non urlò come aveva fatto la prima volta che si era svegliata in quel giaciglio con quell'insopportabile peste e il suo fratellino che la osservavano invadenti.
«Ottimo! Sei finalmente sveglia, mocciosetta», esclamò entusiasta Failen, saltando in piedi e correndo fuori dalla porta senza pronunciare un'altra sola parola.
La diciassettenne rimase basita nel suo giaciglio, intenta a osservare l'angolo della stanza dove fino a qualche istante prima c'era la piccola. Non aveva idea di perché quell'irritante bambina l'avesse soprannominata così, ma sospettava che c'entrasse qualcosa quell'uomo più losco e sinistro di un brigante che l'adolescente aveva una volta scorto sulla soglia della porta e che i due fratellini chiamavano "zio".
La giovane tentò di issarsi lentamente sui gomiti, ma un gemito di dolore uscì sibilante dalle sue labbra arricciate. Una fitta lancinante le aveva attraversato a tradimento la schiena, facendole tremare le braccia e mozzandole il respiro.
Non sforzarti.
In tutta risposta la ragazza digrignò i denti e con un flebile gemito riuscì a tirare su il busto e mettersi seduta. Un'improvvisa sensazione di freddo alla schiena - quasi come se una mano di ghiaccio si fosse appena posata sulla ferita - la accarezzò, alleviandole un po' di quel bruciore che non le lasciava mai tregua.
Kala, attenta: la ferita non si è ancora cicatrizzata del tutto. Potrebbe...
«Sto bene!» sbottò sottovoce la giovane, indietreggiando dolorante tra le coperte del suo giaciglio fino ad appoggiarsi alla parete di legno. La fronte imperlata di sudore e il fiato corto, la diciassettenne reclinò la testa e fece dardeggiare lo sguardo irrequieto in quell'ambiente luminoso e caotico. Sebbene fossero già due giorni che si trovava lì - forse anche di più, se credeva a quello che la madre di Failen le aveva detto -, non aveva mai veramente avuto l'occasione di soffermarsi a osservare il posto in cui la famiglia della bambina viveva. E come avrebbe potuto, per gli dei? Le scorse volte che si era svegliata era talmente debole da non riuscire neppure a mettersi a sedere, e la sua mente era assalita da tutte le cose che la donna bionda o i due bambini le spiegavano.
Il tronco che l'aveva portata da loro. Tuam che la scambiava per un Vaukalak - qualsiasi cosa fosse. La donna chiamata Enur che apparentemente l'aveva salvata. Il pugnale conficcato tra le sue scapole.
Una fitta le attraversò la schiena e la diciassettenne scosse con veemenza la testa, tentando di allontanare i ricordi della lama che affondava nella sua carne, la sua caduta nel fiume e gli interminabili istanti passati a essere sballottata dalle correnti, mentre i suoi polmoni bruciavano per la mancanza di aria. Quello, forse, era ciò che più di ogni altra cosa voleva dimenticare: era troppo - troppo, per Saiph! - simile a quando lei era precipitata nel pozzo, da piccola.
Il rumore di passi delicati che salivano i gradini della carrozza e il gentile aprirsi della porta la distrassero da quei pensieri. La diciassettenne si voltò, aspettandosi di vedere la madre di Failen e Tuam - chi altri avrebbe dovuto essere, dopotutto? -, ma la persona che apparve sulla soglia non fu la fragile donna bionda che l'ospitava.
«Vedo che ti sei svegliata, bambina», le sorrise la vecchia dalla pelle olivastra, avvicinandosi a lei con un fagotto tra le mani che profumava di pane ancora caldo.
Kala non aveva dubbi su chi quella persona fosse: quegli occhi erano veramente di puro argento, come le aveva ripetuto Failen fino allo sfinimento; quella voce era veramente tanto dolce e rassicurante quanto autorevole. «Signora Enur...» cominciò la giovane, sforzandosi riluttante di non far sentire l'asprezza nella sua voce - perché il sale e non il miele, dei?! Il sale bruciava! - alla persona a cui doveva la vita. Non riuscì tuttavia a pronunciare più di quelle due parole, perché la donna la interruppe con una leggiadra risata.
«Chiamami pure Enur, bambina. O anche nonna Enur, se ti piace», aggiunse, dandole un affettuoso buffetto sulla guancia. «"Signora" mi fa sentire vecchia.»
La diciassettenne aprì la bocca per ribattere, senza tuttavia riuscirci. Neppure lei sapeva se fosse a causa dell'affettuoso buffetto, di quell'ultima frase senza senso o dell'aria di amorevole saggezza che la donna pareva emanare. E fu in quei momenti imbarazzanti di silenzio che l'adolescente notò un dettaglio insolito: tra i capelli crespi e sbiaditi di Enur spiccava una ciocca perlacea, che da una tempia scendeva per mescolarsi alla morbida treccia appoggiata sulla spalla.
Fu l'anziana donna stessa a interrompere la quiete. «Immagino avrai fame: tieni», le sorrise dolcemente, aprendo i lembi del fagotto che aveva in mani e rivelando una bitorzoluta pagnotta di segale.
L'adolescente prese nella mano destra il cibo, ma non lo mangiò: non si era ancora dimenticata di quella maledetta strega corvina e della sua subdola zuppa avvelenata. E non le importava che la donna dall'aria materna che aveva davanti probabilmente non fosse come An; non le importava che nei suoi pensieri Kian la stesse esortando esasperato a riprendere le forze: finché annusando discretamente non si sarebbe accertata che la segale fosse solo segale, lei non avrebbe neppure lasciato scivolare una briciola tra le sue labbra!
«Come ti senti, bambina?»
«Meglio», borbottò la giovane, arrischiandosi infine ad assaggiare un piccolo boccone di cibo. Niente odori né sapori strani: sembrava tutto normale. «Oggi almeno riesco a tirarmi su da sola», si sentì improvvisamente in dovere di aggiungere, come la prima parola non fosse stata abbastanza, come se ora lei non avesse bisogno di limitarsi a risposte di poche sillabe come spesso faceva con Failen e il resto della sua famiglia. Dei, come faceva quella donna a ispirare così tanta fiducia?
«Questo mi rassicura», sospirò sollevata Enur, aggiustandosi lo scialle sulle spalle. Era di un colore particolare quel pezzo di stoffa, di un azzurrognolo che alla diciassettenne ricordava... ricordava le olive. Sì, esattamente le olive: quegli strani frutti ovali che ogni tanto i mercanti portavano a Vahrel e dicevano provenissero dagli aspri campi del sud. «Temevo che i punti di sutura ti avrebbero dato troppo fastidio.»
La ragazza tossì, un pezzo di mollica che le era andato di traverso. Punti di sutura? Lei non era un pezzo di stoffa da rammendare, per tutti gli dei! L'idea che ci fosse un filo cucito nella sua carne, da qualche parte sulla sua schiena... Dabih!
«Non avevo altro modo per chiudere velocemente la tua ferita», le spiegò calma Enur, e solo allora la diciassettenne si rese conto che doveva aver espresso i suoi pensieri ad alta voce. «Hai perso molto sangue quella sera: ne hai perso talmente tanto, a dire il vero, che è stata l'emorragia a farti raggiungere l'orlo del baratro.» La donna abbassò per un attimo gli occhi, come se stesse tentando di trattenere le lacrime. Poi le sorrise e le accarezzò materna il capo. «Ma ora è tutto passato. Sei al sicuro qui, giovane Kala.»
Con un verso strozzato la diciassettenne mollò quello che rimaneva della pagnotta, appiattendosi contro il muro con occhi sgranati e gli arti tesi. Minhar, come faceva quella vecchia a sapere il suo vero nome? Lei non l'aveva confidato a nessuno, per tutti gli dei! Quando si era svegliata, sobbalzando nelle coperte con un grido a fior di labbra - ritrovarsi circondata da estranei, ancora tormentata dai ricordi della caduta e del pugnale, non era stata un'esperienza rassicurante -, e i due bambini le avevano chiesto chi fosse, lei non aveva detto la verità. Quelle persone erano pur sempre dei girovaghi, per tutta Mag Mell!
«Come... No, quello non è il mio nome», sibilò l'adolescente, tentando di essere il più convincente possibile. Per gli dei, come...!
Enur sospirò e la guardò, con quegli occhi d'argento pieni di saggezza e tenerezza. «Non preoccuparti: non ho svelato a nessuno che non ti chiami veramente Aryane.» Le diede un affettuoso buffetto sulla guancia. «Se sono l'unica a cui hai detto la verità, non tradirò la tua fiducia.»
«Io? Io ti avrei detto... non ti ho mai visto prima di ora, per Saiph!» Kala protestò con veemenza, stringendo i pugni e affondandoli nelle coperte del suo giaciglio. Quello fu un errore: una violenta fitta di dolore esplose nell'arto sinistro, mozzandole il respiro e facendole venire le lacrime gli occhi. La ragazza digrignò in silenzio i denti: si era quasi dimenticata delle fasce di cotone che le avvolgevano la mano sinistra, inerme come un ramoscello morto. Era come Kian le aveva detto: l'incantesimo si era dissolto e ora quella mano non era che una rigida carcassa di carne bendata, incapace perfino di muovere le dita o di sentire qualsiasi cosa che non fosse qualche spasimo.
All'improvviso la giovane sentì il dolore pulsante all'arto fasciato acquietarsi e alzò di scatto gli occhi. Enur aveva versato un po' di acqua dalla borraccia che Failen aveva lasciato di fianco al giaciglio su un lembo del suo scialle, e ora stava delicatamente tamponando la mano bendata. «Povera cucciola: dovrei ancora avere un po' di aloe, in qualche barattolo», mormorò tra sé e sé la donna. Solo dopo qualche istante la vecchia parve accorgersi della diciassettenne che la guardava con occhi sgranati e dardeggianti, i muscoli frementi come se non sapessero se scattare o rilassarsi, e le rivolse l'ennesimo dei suoi sorrisi materni. «Non mi sorprende se non ti ricordi, bambina: non credo fossi completamente cosciente quando ti svegliata durante le mie cure.»
«Ma io non...»
«Può succedere. Non eri in buone condizioni.» E così, con un semplice buffetto e un sorrisino comprensivo, l'argomento venne definitivamente chiuso.
La giovane tuttavia non riuscì a rilassarsi e dimenticare la questione come la vecchia probabilmente voleva. Dei, lei non ricordava! Lei non ricordava nulla! Nervosamente iniziò a grattare con l'arto - solo apparentemente - sano il cordoncino del ciondolo, senza riuscire ad accorgersi che le sue unghie avevano ormai scavato un piccolo strappo consunto nella stringa di cuoio, che ora era tenuta insieme solo da un sottile filo che pareva quasi sul punto di spezzarsi. Quasi.
«Ora devo andare, Kala. Se riesci ad alzarti, ti consiglio di provare a uscire: ti farebbe bene, dopo essere quasi caduta tra le braccia della morte», le suggerì Enur, aprendo il battente e inondando il carro già luminoso con il tiepido chiarore del pomeriggio avanzato. «Sei stata fortunata, bambina: il fiume non avrebbe portato chiunque in tempo da me. Sembra proprio che ci sia qualcuno che abbia deciso di vegliare su di te.»
Ed eccomi qui con questa parte nuova di zecca. E per una volta sono perfino riuscita a pubblicare tutto in tempo 😎
Forse la pausa di più di un mese ha aiutato, autrice.
Forse 😜 Comunque, ora iniziamo a commentare questa parte, che ho un paio di cosette da dire.
Iniziando dal primo atto, vediamo cosa sta succedendo con il Nemico grazie agli occhi di un misterioso cavaliere, che poi si scoprirà essere nientepopò di meno che il nostro caro Lhamo. Ah, e poi abbiamo un paio di Easter Eggs, tra cui dei brevi cammei di Aryane e Isabhel, Sparviero, Leahnne e... beh, quel misterioso "giovane Warg", che non è asssssolutamente il personaggio di cui vi parlavo nella scorsa par... mmmh!
Autrice, prometti che non inizierai a blaterare per ore di tale personaggio?
Mh-mh!
Lo prometti?
Mhh!! Oh, finalmente. Comunque, tornando a Lhamo e alla prima parte... beh, direi che si inizia a capire il perché del titolo del capitolo E del libro, non dite? ;)
Parlando del secondo atto invece... alzi la mano chi pensa che la battuta di Enur, che dice che "signora" la faccia sentire vecchia (quando letteralmente una riga prima dice che Kala può anche chiamarla "nonna") sia qualcosa di mitico XD E cosa ne pensate invece dell'ultimissima cosa che nonna Enur dice? Non sai lei stessa quanto quella frase sia vera o c'è qualcosa di più interessante sotto? 😎
Question time: cosa pensate sia questa misteriosa idea/intenzione del Nemico, e perché Nirrti si oppone con così tanta veemenza?
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top