XXI - Cockatrice (pt.2)

La donna giaceva sul materasso, i capelli biondi sparsi sul cuscino e la mano tesa verso la metà del giaciglio che da due anni era fredda e vuota come una rovina. Il suo petto fasciato dalle lenzuola e dalla camicia in flanella si alzava e si abbassava lento, regolare. Sereno.

Ancora per poco.

Kian atterrò con passo felpato di fianco al letto, passando attraverso la sedia su cui Isabhel aveva riposto i vestiti per il giorno seguente. La stoffa tremò, come se fosse appena stata accarezzata da un refolo di vento, ma quello fu l'unico segno del passaggio dell'Etereo. Quello e l'improvviso freddo che aveva impregnato l'aria, eliminando ogni tepore emanato dalle braci ammucchiate sul treppiede d'ottone.

L'uomo non osservò per più di qualche istante il viso addormentato dell'erborista: una cosa che aveva imparato durante le Guerre era non guardare a lungo le proprie vittime in faccia. Non se voleva evitare di anticipare le fitte di rimorso che, lo sapeva, sarebbero venute dopo aver fatto quello che doveva.

Le dita ghiacciate e incorporee del mago sfiorarono le tempie della donna, affondando lentamente attraverso il suo cranio e poi nei morbidi tessuti della sua corteccia celebrale. Kian ignorò il sussulto e la smorfia - di freddo, forse, o di dolore - che attraversò il volto dell'erborista a quel contatto. «Non mi lasci altra scelta.» I suoi occhi senza pupilla brillavano freddi, decisi, privi di pietà. Eppure le sue mani erano percorse da un impercettibile tremito, che tradiva quanto lui non amasse l'idea di commettere quell'atto. «Kala deve lasciare la valle. E deve farlo con Leahnne.»

L'uomo abbassò le palpebre e si concentrò, incanalò ogni scintilla di attenzione nei suoi polpastrelli conficcati nel cervello della quarantenne. Digrignò i denti quando si accorse quanto radi e deboli fossero le piccole scariche elettriche che guizzavano da un punto all'altro dell'organo: l'erborista era nella fase più profonda del sonno, quella che quasi rasentava la morte. Lui era un mago, non un alchimista specializzato nella mente umana, ma anche così sapeva che non era in quello stadio che avvenivano i sogni.

Seguendo un istinto ancestrale, un istinto da anima errante, l'Etereo fece fluire un'esile scia di energia attraverso le sue dita, lasciando che essa si propagasse velocemente nel cervello della quarantenne. Immediatamente le impercettibile scariche raddoppiarono, si quadruplicarono con velocità innaturale: il ciclo del sonno stesso si stava piegando al volere dell'Incantatore incappucciato, rapendo la coscienza della donna dall'ovattato nulla in cui avrebbe dovuto rimanere per ancora molto tempo.

Due stelle di ghiaccio si spalancarono di colpo nell'ombra del cappuccio. L'aveva percepito l'istante stesso in cui era accaduto: la quarantenne era appena passata dal nulla al tutto, dal riposo più profondo a una prigione di immagini e fantasie. Le palpebre tremavano veloci, svelando i guizzi frenetici degli occhi; mentre nel delicato organo miliardi di segnali elettrici saettavano da un emisfero all'altro, punteggiandolo come stelle cadenti nel cielo notturno. Erano quelle piccole scariche che interessavano più di tutto a Kian: il sogno poteva anche essere un Cardine, un piano di realtà che il dormiente sfiorava solo con la propria mente, ma quegli impercettibili impulsi erano ciò che collegavano il corpo assopito con la propria coscienza. E, per gli Eterei come lui, esse erano un portale aperto verso il subconscio della loro vittima.

Uno spasmo attraversò l'uomo, un brivido capace di incrinare la volontà inconscia che gli permetteva di mantenere aspetto umano. E così accadde: i suoi arti divennero pallidi, trasparenti, simili a forme di nebbia che lottavano inutilmente contro il vento. Percepì con agonizzante chiarezza l'istante in cui il suo corpo immateriale si dissolse, perché esso fu anche l'istante in cui tutto divenne opprimente. Senza più una forma umana a limitarli, i suoi sensi si erano acuiti fino a raggiungere la loro forma più pura: senza gli occhi, vedeva; senza più le orecchie, udiva; senza più la pelle, sentiva. Ora era solo un ammasso di luce vitrea, di spirito e di coscienza; ora percepiva il creato come lo percepiscono le anime immortali. Ed era semplicemente troppo da sopportare.

Gli strascichi di nebbia evanescente si contrassero e si avvicinarono ancora di più al capo di Isabhel. Doveva concentrarsi: doveva ignorare tutto quello che sentiva - era troppo. Troppo! - e focalizzarsi solo sulle propaggini della sua essenza affondate nelle tempie dell'erborista, su quelle minuscole scariche che attraversavano il suo cervello. Non importava nient'altro.

Il mago non esitò un solo istante, una volta ritrovata la concentrazione: serrò nelle volute della sua anima la coscienza della sua vittima e, come un ragazzo che salta da uno scoglio, si tuffò nel sogno della quarantenne.

Kian emerse in un ambiente assai familiare: l'erboristeria. O, almeno, come l'erboristeria sarebbe sembrata se ogni muro avesse proporzioni distorte, gli ingredienti comparissero e scomparissero dai vasi non appena si distoglieva lo sguardo e le scritte fossero tracciate al contrario. E se le foglie di alloro svolazzassero attorno agli scaffali come farfalle. Le volute evanescenti ebbero un fremito, che se il mago avesse avuto forma fisica sarebbe diventato una rassegnata scrollata di spalle. Logica del sogno: era inutile cercare di capire.

Gli strascichi di luce vitrea guizzarono dietro uno scaffale, nascondendosi dallo sguardo della donna intenta a cercare qualcosa tra i barattoli di vetro e di metallo. Fintanto che la sua anima rimaneva così, senza forma, Isabhel non avrebbe dovuto essere capace di percepirlo. O, se lo avesse visto, la sua mente l'avrebbe interpretato come una delle tante stranezze che in quel Cardine sembravano normali: non sapeva abbastanza per dirlo con certezza e non gli importava. Tuttavia, lui preferiva non correre rischi: l'inconscio delle persone sapeva essere assai imprevedibile, quando desiderava.

Imprevedibile.

Se Kian avesse avuto aspetto umano, avrebbe poggiato le dita unite sulle labbra e corrugato la fronte. I sogni di solito erano imprevedibili, indomabili: allora perché fino a quel momento era parso tutto così normale? Normale ignorando le leggi naturali e fisiche andate a farsi benedire dagli Araldi, naturalmente. Cosa stava facendo la mente inconscia della donna?

Il morto non fece in tempo a finire il pensiero che la porta del retrobottega si aprì - da quando si trovava vicino alla fines... Logica del sogno. Niente domande - e un uomo dai capelli scuri e il mantello orlato di pelliccia abbracciò teneramente da dietro l'erborista. L'Etereo non fece nessuna fatica a riconoscerlo: era Teucer. Anche dopo due anni, la donna non riusciva a lasciarlo andare.

Le volute di energia si contrassero, colte da una lancinante fitta di malinconia. In quell'istante Kian non poté fare a meno di pensare a Meredith, a quanto coraggio lei avesse avuto dopo la sua morte. Nonostante il lutto, lei aveva abbracciato il resto della propria vita, aveva accettato che avrebbe dovuto camminare senza di lui. E lo aveva fatto a testa alta, senza aver bisogno di venire incoraggiata e senza lasciarsi incatenare dal passato. Non per quello, tuttavia, la druida aveva reciso il sentimento che li univa o lui aveva smesso di volerle bene: semplicemente, a volte, amare una persona significa riuscire a lasciarla andare. Quella era una verità che per ben due volte il mago aveva capito fino in fondo: quando nel sogno della donna lui aveva appoggiato - anzi, quasi spronato, sebbene non fosse mai stato veramente necessario - la sua volontà di andare avanti e quando... quando infine anche lei era spirata.

L'Etereo si sarebbe sempre ricordato di quell'ultimo addio, di quell'ultimo istante in cui le loro anime avevano potuto toccarsi, abbracciarsi, mescolarsi, prima che Than portasse la donna in quel luogo di eterno riposo che ancora per molte ere lui non avrebbe potuto raggiungere. Se si arrendeva ai flutti della sua memoria, poteva ancora rivivere tutto: lo sciabordio delle onde sulla spiaggia di ciottoli; l'odore degli agrumi e della salsedine; la luce del sole che accarezzava il volto di Meredith, striato dalle rughe di chi ha visto passare quasi duecento estati; la voce stentorea con cui gli aveva rivolto le ultime parole da viva e quella giovanile, rassicurante eppure decisa, con cui gli aveva mormorato l'unico addio da morta. Solo per un istante si erano ritrovati dopo che il cuore dell'Incantatrice aveva smesso di battere, ma quello era un istante che Kian avrebbe custodito dentro di sé per sempre.

Udire lo scricchiolio dei passi sulle assi di legno riscosse il mago dai suoi pensieri. Avrebbe avuto tutto il tempo di pensare al passato quando sarebbe uscito da quel Cardine: ora doveva concentrarsi sul presente, sul motivo per cui aveva violato quel sogno. Scivolando come nebbia sul soffitto, seguì la sua vittima attraverso la porta principale. Invece che ritrovarsi nelle strade gremite di gente di Vahrel, tuttavia, Kian emerse nel mezzo della foresta. Lesto, si nascose tra le fronde di un cespuglio e iniziò a pensare a cosa fare. Messaggi sottili come scritte fiammeggianti per aria o rumori strani non avrebbero funzionato nel sogno: avrebbe dovuto manifestarsi, in qualche modo. E apparire come un leopardo sarebbe stato forse di poco peggiore che mostrarsi come un uomo incappucciato, vista la precedente reazione di Kala. Essere scambiato per un dio malevolo e ingannatore sarebbe stato controproducente: aveva bisogno che Isabhel lo ascoltasse, che gli credesse. Che si fidasse.

La sua attenzione ricadde saettante su Teucer, seduto su in tronco di fianco alla donna, intento ad accarezzarle i capelli e a sfiorarle scherzosamente il volto. Esso non era che un involucro, un pupazzo manipolato dalla mente inconscia di Isabhel, un'ombra del passato perfino meno reale di quella che Kala aveva incontrato nel Succubo. Un guscio vuoto.

Se il mago avesse avuto corpo, avrebbe stretto i pugni fino a conficcare le unghie nel palmo. Non era fiero di quello che stava per fare; non ne era fiero per nulla.

Kian aspettò che Isabhel si fosse allontanata dalla parte del sogno che aveva preso le sembianze di suo marito per cogliere qualcosa, una pianta, tra le radici di una quercia che si muoveva come gli alberi assassini di Lemur. Allora l'anima morta scattò, balzò come un leopardo che attacca la preda. In meno di un battito di ciglia le volute evanescenti del suo essere ingabbiarono il cacciatore e, prima che la donna di spalle potesse di nuovo girarsi, lo indossò. Lo indossò come se fosse un guanto e il suo spirito una mano, lo indossò come il guscio vuoto che era.

Tutt'intorno il sogno fu percorso da un brivido e quando Kian - con addosso il volto del cacciatore - alzò lo sguardo, vide Isabhel con gli occhi sgranati e la mano sul petto. Lo aveva percepito: l'istante in cui loro Eterei prendevano forma nel sogno, le loro vittime si rendevano istantaneamente conto della falsità di quello che vedevano. E, qualche volta, anche della presenza di un intruso.

«Teucer...» mormorò la donna, con tono che fece capire al morto che quella era una di quelle volte. E che l'erborista lo credeva veramente lo spirito del marito.

Il mago indietreggiò quando la quarantenne cercò di sfiorarlo, e non solo perché se fosse rimasto troppo tempo in quel corpo immaginario, esso avrebbe sarebbe esploso in un rogo di fiamme bianche. Serrò le palpebre, sperando che l'altra non si accorgesse degli innaturali riflessi azzurri che probabilmente saettavano nelle iridi del cacciatore, poi si erse in tutta la sua statura. Quasi non si accorse di aver iniziato a levitare, i piedi che solo sfioravano terra e il mantello spiegato nelle correnti dimensionali come le ali di un corvo.

«Ascoltami, Isabhel» tuonò Kian, spingendo la voce del cacciatore fino a riempire la zona di alberi in cui si trovava. Si dovette trattenere dal digrignare i denti, nel vedere l'erborista arretrare confusa di qualche passo. Quello era un colpo basso, ma in guerra non vince sempre chi è leale. «Non ho molto tempo: ascoltami.» E, con le parole che seguirono, il mago fece in modo che mai più la donna si opponesse a lasciar la figlia partire oltre le montagne, dove il suo vero fato la attendeva.

*****

«Saiph!» Kala girò su sé stessa con il cuore in gola. Gli occhi sgranati dardeggiavano febbricitanti alla ricerca di una porta, di un varco, di qualsiasi cosa che la portasse via da quelle mura. Dei, doveva fuggire! Doveva! Con le unghie iniziò a graffiare la pietra, cercando di scavare un varco tra le lastre fredde e crudeli. Doveva scappare! Per tutta Mag Mell, non voleva sentire il petto schiacciato da mille pesi invisibile! Non voleva vedere le le pareti di quell'ambiente piccolo e soffocante ondeggiare verso di lei, non voleva sentire le rocce levigate ghignare, cantare di gioia e di perfidia mentre cadevano su di lei per seppellirla viva! Non voleva...

La mano della ragazza si fermò di colpo, appoggiata al muro che fino a qualche istante prima aveva cercato di scalfire. Gli occhi sgranati e il respiro incerto, quasi timoroso, la giovane si guardò intorno. Non stava succedendo nulla: era in una stanza così opprimente, così claustrofobica, ma non stava succedendo nulla. Niente rocce che ondeggiavano, che ghignavano e cercavano di soffocarla, niente gelida mano stretta attorno alle viscere. Una risatina isterica fuggì dalle sue labbra, mentre la verità che aveva saputo fin dall'istante in cui quelle pareti erano apparse attorno a lei affiorava lentamente nei suoi pensieri.

Era un sogno. Era tutto un semplice, maledetto sogno!

La giovane colpì con un pugno di frustrazione la parete, poi fece scivolare lo sguardo verso l'alto, verso il soffitto talmente lontano da sembrare solo una macchiolina scura alla fine dell'interminabile scala a chiocciola scavata nella roccia. Ora che non aveva più paura di sentire le pareti ondeggiare ghignanti verso di lei, non poteva non rendersi conto della lieve, quasi viscida sensazione che strisciava lungo la schiena come un ragno dalle lunghe zampe. Era lo stesso presentimento che provava istanti prima che sua sorella sbucasse fuori dall'armadio a cui stava dando le spalle, era l'inspiegabile timore che a volte la coglieva quando attraversava un punto particolarmente buio della foresta e che suo padre le diceva di non ignorare mai.

Cauta, la diciassettenne si alzò, la mano che cercava inutilmente il pugnale nello stivale. Non era da sola in quella torre. Lo sapeva, per gli dei! Lo sentiva con la stessa certezza con cui percepiva le sue due braccia.

Dopo esser rimasta immobile per interminabili istanti, lo sguardo che scivolava da un punto all'altro del pavimento circolare senza lasciarsi sfuggire nemmeno la più piccola ombra, nemmeno la più sottile crepa, l'adolescente poggiò il piede sul primo scalino ricavato dalla roccia. Non c'erano porte, né fessure in cui avrebbe potuto cercare di sgattaiolare come un topo: quella era l'unica via possibile.

Circondata dal pigro turbinio della polvere, Kala iniziò a salire lentamente, appoggiando la mano al muro alla sua sinistra e tenendo i sensi bene all'erta. Era ancora al sesto o settimo gradino quando un'immagine colta fugacemente con la coda dell'occhio la fece trasalire con un grido soffocato e quasi cadere da quelle scale senza balaustra. Con il cuore che ancora batteva forte, la ragazza scoccò un'occhiata adirata alla causa del suo spavento: la donna - perché credeva che fosse una donna? La figura era completamente velata, per gli dei! - in sella a un destriero dalla criniera simile ad alghe, il cui muso senza occhi sembrava quasi emergere dalla parete nella penombra.

Con dita tremanti - per l'irritazione, cercava di convincersi: non perché si era lasciata spaventare da qualche chiazza di colore - la giovane sfiorò l'affresco, quasi per accettarsi che la donna e il suo destriero fossero effettivamente solo un ammasso di pittura e calce. Digrignò i denti, maledicendo in silenzio chiunque avesse avuto l'idea di dipingere quella figura inquietante a quel punto della scala, poi il suo sguardo scivolò inesorabilmente verso l'arco teso del cavaliere e la freccia argentata che, più che mirare mortale a una preda, sembrava quasi indicare qualcosa in lontananza. Ma cosa?

Accelerando il passo la diciassettenne percorse ancora una decina di scalini, tracciando con le dita i ghirigori formati dai viticci disegnati che percorrevano quel tratto di parete. I tralicci si trasformarono gradualmente in dolci colline illuminate da un magnifico tramonto. I raggi dell'astro diurno divennero poi le ali spiegate di una creatura dal volto di un'anziana donna, i raggi scaturiti dalla sua mano alzata armi colorate fluttuanti davanti ai cinque individui inchinati con rispetto e adorazione, il mantello svolazzante dell'ultimo fedele una notte piena di stelle. Paesaggi, ghirigori e personaggi si susseguivano in modo fluido, ininterrotto, emergendo gradualmente dalla penombra e costringendo l'adolescente a salire lesta le scale per assecondare l'assillante desiderio di vedere la scena successiva, e quella ancora dopo. Non capiva cosa l'affresco rappresentasse - dove erano gli dei e i palazzi di Mag Mell, dove erano Minhar e i suoi perfidi servi? -, ma allo stesso tempo non riusciva a togliere lo sguardo da esso, dai dettagli che lo facevano sembrare una finestra sul racconto invece che una semplice sequenza di disegni. Mai aveva visto un dipinto in cui i capelli di eroi ed eroine sembravano ondeggiare a causa del suo respiro; in cui le spade e le lame che impugnavano parevano essere ricavate dalle gemme più preziose; in cui castelli fatti di vetro ed ambra e cervi dalle corna argentee luccicavano alla luce che filtrava dalle sparute feritoie.

Kala non seppe quanto tempo impiegò a raggiungere la fine della scala a chiocciola, né quanti gradini aveva salito a ogni respiro. Senza preavviso l'affresco di interruppe e lei si trovò di fronte a una semplice porta di legno, i cui stipiti erano decorati dal bassorilievo di una creatura mostruosa simile a un drago. Ispirò a fondo: ora che non c'erano più dipinti ipnotizzanti a distrarla, udiva chiaramente uno scroscio ovattato e la sensazione di non essere sola aveva ricominciato a torturarla come non mai. Eppure quello era un sogno, per gli dei! Era solo un sogno! Con un colpo secco spinse il battente a forma di testa di cervo, e si ritrovò fuori.

L'adolescente emerse a metà di un tetto spiovente, coperto da lastre di ardesia come squame sul ventre di un pesce. E, se fino a quel momento era sembrato tutto stranamente normale, ora era diventato dolorosamente chiaro che si trovasse nel regno creato dalle illusioni di Minhar. Nel cielo violaceo brillavano due lune, di cui una circondata da un alone simile a un anello; e ombre simili a rapaci si rincorrevano per aria, dissolvendosi e sfilacciandosi come nubi. Alberi strappati alla foresta che copriva le colline circostanti galleggiavano sopra i rilievi, i rami spogli come radici e le radici coperte da foglie e fiori come rami. Eppure, non tutto il paesaggio che circondava la torre era assurdo.

Stando attenta a non scivolare, la diciassettenne scese sulla balconata larga quanto due carri affiancati, sporgendosi appena dalla balaustra come se così potesse vedere meglio quello che sorgeva oltre gli ultimi declivi, dopo le curve sinuose del fiume che nasceva dalla ruggente cascata alla sua destra. Un immenso specchio argenteo luccicava in lontananza, un lago abbracciato dalle estese propaggini di un'immensa città. Una collina dominava quell'infinito tappeto di case, sfoggiando sulla propria sommità un maestoso palazzo che pareva brillare come un tizzone ardente.

Il cuore della giovane sussultò nel petto, mentre mentalmente faceva combaciare quella vista alle descrizioni che aveva udito della capitale. La città in lontananza era Aurjei, per tutta Mag Mell! Aurjei, il luogo scelto da Alphard in persona come patria dei re! Kala affondò le unghie nel palmo della mano. Come osava Minhar ricreare nel suo regno una versione di quel posto benedetto dagli dei? Come? Era per tentare di portarla dalla sua parte, ora che... Saiph, ora che aveva usato la magia?

La ragazza fece dardeggiare lo sguardo da un punto all'altro del paesaggio: dagli alberi invertiti al lago; dalle due lune agli spumeggianti schizzi bianchi che si gettavano nel vuoto, tra la torre e uno sperone di roccia simile al corno di qualche bestia. «I tuoi meschini inganni non funzioneranno, Minhar!» urlò al cielo violaceo, alzando un pugno in segno di sfida.

Un lieve fruscio alle sue spalle, a malapena udibile tra il frastuono della cascata, la paralizzò con un brivido di gelo. Cos'era stato? Il mormorio delle foglie; lo spiegarsi di un mantello al vento? Una risata appena soffocata? Pregò che fosse stato solo uno scherzo dei suoi sensi, una semplice illusione creata dall'inquietante sensazione di non essere sola. Poi, ogni sua speranza venne infranta.

«Mi sembra di avertelo già detto una volta, Kala: io non sono un dio.»

Buongiorno a tutti, belli, brutti e farabutti 😎
Cosa stai blaterando, autrice?
Ah boh 😂 Non devi sempre ascoltare quello che dico, Kianuccio-micio XD
Grrrraaur

Comunque, in questo capitolo scopriamo cos'è successo a Isabhel quella notte e perché ha cambiato idea. Eheh, Kianuccio, non ti facevo così macchiavellico, così pronto a fare qualche colpo basso😏😏
Autrice!
È la verità 😜 Piccola curiosità? Anche se in modo indiretto, Kian in quei paragrafi allude alla fase REM e la fase Deep Sleep del sonno, nonché alla diversa attività cerebrale che caratterizza quelle due fasi (quasi nulla nel deep sleep, quasi simile a quella da svegli nella fase REM).
Autrice, forse non tutti sanno cos'è la fase REM.
Umphf, vero. La fase REM (rapid eye movement) è la fase del sonno in cui avvengono i sogni, praticamente. E che quindi Kianuccio ha dovuto "forzare" sulla mente di Isabhel (inizialmente nel Deep Sleep) per intrufolarsi nel suo sogno. Ah, a proposito di REM...
Ragazza, questo è uno spazio autrice, non una lezione di psicologia *facepalm*
Ehm... 😅😅😅 Passiamo oltre, cià XD Anzi, forse è meglio se passiamo direttamente alla...

QUESTION TIME: Questa è facile, dai 😏 Secondo voi, chi è stato a pronunciare l'ultima battuta? 😎

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