XIX - Sii acqua, sii fuoco (pt.2)

L'altra si affrettò a coprire l'arto con la manica, sottraendo il simbolo d'inchiostro impresso sulla sua pelle. «Sì, è il simbolo delle Case», mormorò con rassegnazione e vergogna, attorcigliando il grembiule attorno alle mani scheletriche, appena liberate dal piatto. «In questa taverna siamo quasi tutte così. Anche signora Nev...» Si morse il labbro, come se si fosse resa conto di aver lasciato la lingua correre troppo, e fece per allontanarsi in direzione della cucina, a capo chino.

«Se sei una nobile, perché lavori in questo covo di malavita?» sbottò esterrefatta la giovane, arrestando i passi della donna come se quella si fosse schiantata contro un muro invisibile. Non aveva pensato due volte prima di aprire la bocca - quello era il profilo dell'unicorno, inscritto nel cerchio! L'unicorno: il simbolo del re! - e quel fatto fu reso ancor più palese quando la serva si voltò a guardarla con occhi sgranati e un'espressione che denunciava quanto quella frase fosse sbagliata. O fuori luogo, perfino.

«Non è un simbolo nobile: è il simbolo delle Case. Le Case? I luoghi in cui sono cresciuti gli orfani?» aggiunse esasperata, nella speranza di chiarire l'incomprensione.

Alla diciassettenne quella frase parve un pugnale conficcato nell'addome, l'ultima parola un salto nel vuoto per il suo cuore. Aveva otto anni quando quelle sei lettere, insieme al termine "adottata", avevano fatto vacillare il suo mondo. Poi, aveva deciso di ignorare tutto, di continuare nonostante quella perfida comare: Vahrel era la sua casa, Isabhel era sua madre e Teucer suo padre! Anche se il rapporto con la sua famiglia non era stato danneggiato - anzi, ne era uscito perfino più forte di prima -, da quel momento in poi quelle maledette sillabe erano diventate braci ardenti in un pagliaio. E ora la frase della serva, con quello che implicava...

«Non ci sono Case ad Adaed!» ringhiò l'adolescente, facendo stridere le unghie contro il piatto pieno di carne. Non erano mai esistite e non sarebbero mai esistite nella sua valle!

La giovane donna arretrò impercettibilmente, sbattendo le palpebre per la sorpresa di quella reazione. Eppure, non fu paura quello che vibrò nella sua voce, quando domandò esitante: «Allora come fate con i figli degli orfani e bambini senza genitori? Li gettate in un pozzo, li lasciate a morire nella foresta?»

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Kala piantò il piede per terra, gli occhi ardenti come fiamme cerulee e il sangue ribollente nelle vene. «No!» scoppiò, la voce roca simile a un tuono d'ira. Gli uomini ai tavoli più vicini si girarono, perplessi, ma lei neppure li vide: non le importava nulla, ora, se non distruggere quel pezzo di ghiaccio e di metallo incandescente che sembrava aver intrappolato le sue viscere. «Qualcuno li prenderebbe con sé. Una buona anima come... come...» Non riuscì a finire la frase. Teucer era sua padre, per Alnilam!

Neppure l'ira che permeava ogni muscolo teso della ragazza riuscì a spaventare la scintilla di folle speranza negli occhi della serva. «Adaed, hai detto?» mormorò tremante di emozione, come se l'ultimo scambio di battute non fosse mai accaduto. «È solo a due giornate da qui. Saiph, se allora riuscissi...» La voce si infranse e quel guizzo di luce svanì. Le mani scheletriche scivolarono verso il ventre, accarezzando dolcemente un lieve rigonfiamento quasi interamente nascosto dalla stoffa del grembiule. «No, non me lo permetterebbero mai. Tra qualche mese ci sarà un altro neonato con il marchio delle Case, piccolo mio.»

La serva abbassò lo sguardo e scivolò via, mormorando parole di scusa per quella confidenza. Kala, dal canto suo, non tentò neppure di fermarla: non voleva più udire una parola dalla sua interlocutrice! Le sue mani stringevano il piatto talmente forte da farlo tremare. Anzi, non voleva più udire una sola parola sulle Case!

Fu con ferocia conficcò la forchetta in un pezzo di carne e iniziò a masticarlo, appoggiandosi al muro scrostato. Dei, perché sentiva il suo cuore palpitare così forte nella gabbia toracica? Perché le sembrava che qualcuno avesse rubato le sue viscere solo per rimetterle al loro posto completamente annodate?

Forse la causa sono le parole di quella giovane donna.

No! Non era...

Mentire a sé stessi è più difficile che mentire agli altri.

La ragazza smise di cercare di infilzare un boccone pieno di grasso assai sfuggente e si morse un labbro. Se entrambe le sue mani non fossero state occupate al momento, avrebbe volentieri iniziato a tirare quel dannato riccio ribelle che cadeva davanti agli occhi. Saiph, quanto odiava vederlo oscillare davanti alla sua fronte, come un ragno color fuoco appeso a un filo della sua robusta ragnatela! Le sembrava quasi che...

Quella ciocca non ha nessuna colpa.

La forchetta cozzò con violenza con il fondo del piatto, in un altro tentativo fallito di intrappolare lo sfuggente pezzo di carne. Dei, basta con quei pensieri! Non riusciva più a sopportarli, per Dabih: non facevano che tormentarla e ostacolarla!

Aiutare, non ostacolare. Quello che la serva ha detto...

Non le importava! A lei non mi importava nulla di quegli sciagurati che l'avevano concepita: Isabhel e Teucer erano i suoi veri genitori, per tutta Mag Mell! E quelle parole, per quanto colme di inquietanti coincidenze, non avrebbero scalfito in alcun modo il legame che aveva con la sua valle, con la sua famiglia. Mai!

No. È l'orgoglio che è stato ferito, non è così?

Il cuore della giovane sobbalzò. Era la verità: non era riuscito a capirlo realmente fino a quel momento, ma era la verità. Il nodo che sentiva allo stomaco non era paura, non era curiosità, non era il dolore di aver le certezze infrante. No, lei era offesa. Offesa che la vita - o il destino, o Minhar. Sì, forse perfino Minhar, visto con chi stava viaggiando- avesse usato quella giovane donna per testare la lealtà verso la sua famiglia, e che avesse creduto che sarebbe bastato così poco per farla soccombere ai dubbi e allo stupido desiderio di sapere di più.

La diciassettenne scrutò il boccone unto di grasso che finalmente era riuscita a impalare sulle due punte della sua forchetta. «Io sono della valle: rassegnati», borbottò, prima di gustare quel delizioso pezzo di carne. Non sapeva neppure lei a chi stesse parlando: fosse alla vita, forse al destino, o forse a Minhar. A chiunque fosse stato il responsabile di quell'inquietante... no, irritante coincidenza tra le parole della serva e le circostanze in cui Teucer l'aveva trovata.

Kala alzò lo sguardo, mentre un brivido percorreva la sua spina dorsale. Istintivamente si aggiustò la sciarpa - lo stesso pezzo di lana che sua sorella le aveva avvolto a tradimento attorno al collo prima della partenza - in modo che coprisse ogni traccia del ciondolo e buona parte del suo petto. Si sentiva osservata, e non come a volte le succedeva nel dormiveglia prima di scoprire il volto di Aryane, distorto in una smorfia per nascondere la sua risata di soddisfazione per l'ennesima burla. Ora, le sembrava di percepire decine di occhiate - alcune solo curiose, altre più maliziose - scivolare sul suo corpo, nascoste nella penombra in cui l'ambiente si trovava. E d'un tratto la ragazza si rese conto di essere solo una diciassettenne, rintanata con la propria cena in un angolo di una sala piena di uomini dagli occhi - e dai palmi - troppo indiscreti.

La giovane cercò di concentrarsi di nuovo sulla sua cena, muovendo tuttavia appena lo stivale destro per accertarsi che il pugnale di suo padre fosse sempre nel suo nascondiglio. Dei, come facevano le serve della taverna a sopportare... quello?

Di nuovo, la sensazione che un grumo di neve si intrufolasse nel suo vestito e scivolasse tra la stoffa e la pelle nuda della sua schiena la fece trasalire. Aveva sentito - poteva giurarlo! - qualcuno ridacchiare roco le parole "treccia rossa" e "timida nel suo angolino" tra il brusio degli avventori. Saiph, protettrice di tutte le donne...

Meglio tornare in camera. Ora.

In camera, con quella... quella strega? No! Almeno la cena, per Mag Mell: almeno la cena voleva passarla lontana dalle grinfie di quella serva di Minhar!

È una sorte peggiore sopportare An, oppure fare la fine di quella ragazza nel laghetto?

Il ricordo di quella breve storia agghiacciante la fece scattare in piedi. Un pugnale tra le scapole e la sua innocenza distrutta da qualche furfante erano le ultime cose che desiderasse accadessero. Risalì le scale più in fretta che poté, scoccando continue occhiate alle sue spalle mentre masticava nervosamente gli ultimi pezzi di cibo con cui si era sforzata di riempire la sua bocca. Deglutiva a fatica, e non era sicura se fosse a causa della troppa carne che stava tentando di masticare o a causa del pensiero che quelle mani avide che stavano accarezzando le forme delle serve avrebbero potuto essere sul suo corpo.

Raggiunse il piano superiore solo dopo quella che le parve un'eternità, e con l'aiuto della flebile luce che filtrava da alcuni buchi nel muro troppo stretti per essere definiti finestre, cercò la porta che conduceva alla sua camera. Era quella più scrostata e rosicchiata delle altre, se lo ricordava bene. Arrivata davanti alla sua destinazione, inghiottì anche l'ultimo boccone di cibo. Sentiva di nuovo quel maledetto pizzicore alla nuca, come ogni volta che arrivava vicino alla strega. Con occhi ridotti a fessure osservò il pomolo e la serratura mezzi arrugginiti, poi piantò saldamente i piedi a terra.

Oh, per tutti gli...

La diciassettenne incrociò le braccia, per quanto fosse permesso dalla ciotola vuota che teneva in mano. Lei lì dentro non ci avrebbe messo piede finché non fosse stato necessario. Si ricordava fin troppo bene della minaccia della strega e di come, la sera prima, quella l'avesse svegliata nel cuore della notte e trascinata in una tenda riscaldata da un piccolo falò. Quindi, finché non sarebbe stata troppo stanca per reggersi in piedi, lei sarebbe rimasta lì, davanti alla porta a...

Lo scricchiolio spettrale delle assi del pavimento fece quasi saltare in aria l'adolescente. Il cuore tamburellante come un uccellino in gabbia, cercò di scrutare il lungo corridoio immerso nella penombra e nella polvere. Il ricordo della bestia che l'aveva inseguita durante la notte di luna piena la colpì, forte come una freccia in pieno petto, e il pugnale di Teucer saettò rapido nella sua mano libera. A differenza di quello che era successo nella foresta, tuttavia, l'adolescente non dovette attendere troppo prima di udire di nuovo il rumore che l'aveva spaventata: al primo scricchiolio ne seguì quasi subito un secondo, e poi un terzo e un quarto. Passi. Erano passi pesanti, maschili.

E ogni secondo erano sempre più vicini.

L'istante in cui le particelle di polvere sospese in una delle rare lame di luce iniziarono a turbinare, come se dovessero annunciare l'emergere di un corpo dall'ombra, i nervi di Kala cedettero. Spalancò la porta e vi si gettò dentro più in fretta che poté, sbattendola con violenza per sigillare la camera.

Per Dabih! imprecò, serrando i denti. Poi, il lieve sibilo delle dita passate sul filo affilato di un coltello le fece temere di essere passata dal calderone alle braci.

La donna corvina era seduta a sul letto, una decina di quelle che sembravano foglie fatte di metallo disposte a ventaglio davanti a lei. Rigirava tra le mani uno di quegli oggetti mortali, osservandolo il controluce come se volesse accertarsi dello stato della lama o di quella specie di resina trasparente che colmava una stretta incanalatura al centro di ogni foglia.

An posò la lama che stava controllando non appena udì la ciotola vuota venir appoggiata sul mobiletto mezzo scassato di fianco alla porta. «Spero ti sia nutrita a sufficienza, giovine.» La mano affusolata disegnò un'onda per aria e due sottili strisce di stoffa si spartirono le foglie metalliche, avvolgendole come un fodero fino a formare due compatti rotoli che scivolarono nella bisaccia della maga.

La diciassettenne digrignò i denti, serrando il pugnale di suo padre, mentre quegli occhi di un colore inesistente si posavano su di lei. Poi, per un istante talmente breve che l'adolescente credette fosse uno scherzo della sua mente, essi dardeggiarono verso la porta chiusa.

La strega si alzò dal letto e, senza pronunciare una parola, fece ciò che la ragazza temeva di più: con un movimento fluido tese un braccio in avanti e tracciò un semicerchio con il piede destro.

Kala affondò le unghie del manico di legno del pugnale, tuttavia non indietreggiò. «Non c'è abbastanza spazio», ringhiò, mentre le sue iridi color ghiaccio si muovevano febbrili per la stanza alla ricerca di un'altra scusa, fermandosi tuttavia sulla porta chiusa e sul pavimento qualche secondo di troppo. No, forse doveva combattere: forse, se avesse fatto abbastanza rumore...

«Un piccolo ambiente non è mai d'ostacolo a un combattimento, se sai usarlo a tuo favore.» Il viso della donna era granitico, come sempre. «E, giovine, sappi che gli umani di questo luogo hanno imparato a non udire

La ragazza digrignò i denti. Non faceva fatica a credere alle parole della strega, per una volta, dopo aver visto il tipo di persone che frequentavano la taverna. Il coltello sibilò davanti a lei, nella posizione di attacco che le aveva insegnato suo padre. Due sere erano bastate ad insegnarle che lasciar alla donna la prima mossa non era mai saggio. E, Dabih, quanto avrebbe voluto riuscire a colpirla, anche una sola volta!

Senza aspettare un cenno di assenso dell'altra, la diciassettenne si gettò in avanti, la lama aderente al braccio. Fece scattare l'arma più e più volte, ma come le sere precedenti ogni tentativo fu vano. Non importava quanta forza l'adolescente imprimesse in ciascun colpo, con quanta violenza facesse mulinare il braccio e quanto saldamente i suoi piedi fossero ancorati a terra: ad An bastava tracciare un semplice semicerchio con le gambe o con le spalle per farle trovare solo aria. E, come sempre, un colpo arrivato a tradimento dal nulla la fece collassare a terra.

Tossicchiando a causa della polvere che le era entrata in bocca, la giovane tentò di sollevarsi dalla posizione a carponi in cui era caduta. Prima che potesse anche solo appoggiarsi sui gomiti, tuttavia, uno stivale le bloccò senza pietà il polso, strappandole un gemito di sorpresa e di dolore. An torreggiava su di lei, gli occhi chiari ridotte a minacciose fessure. «È già la terza sera consecutiva che commetti gli stessi errori, Kaislentheya Dileas.»

La diciassettenne digrignò i denti, scoccando alla strega uno sguardo furente da sotto le ciocche di capelli che erano scivolate sulla sua fronte. «E allora?» sbottò. «In una lotta vince chi è più forte, non chi fa meno erro... Ahia!» La pressione sul polso era drasticamente aumentata, interrompendo ogni disperato tentativo di liberarlo.

La donna si chinò, portando il volto più vicino a quello dell'adolescente. «L'arte del combattimento non è una rissa tra uomini di montagna ebbri di vino, giovine. In sheàni, non è sempre il fuoco del vigore e dell'attacco a vincere.»

Lo stivale si spostò dal polso dolorante e la maga si allontanò di qualche passo, permettendo all'adolescente di rialzarsi. Scuotendo con violenza la testa per allontanare i ricci fulvi dalla sua visuale, Kala raccolse il suo pugnale e lo portò davanti a sé. Era pronta a ad attaccarla di nuovo, eccome se lo era! Le avrebbe mostrato di cosa poteva essere capace e... I suoi occhi di ghiaccio dardeggiarono verso An, mentre un brivido le attraversava la schiena. La donna era nella solita posizione, un braccio teso in avanti e un piede alla fine del semicerchio tracciato nella polvere, ma quella volta il suo corpo non sembrava una statua. No, ogni arto era teso come quello di un predatore pronto a balzare sulla sua vittima, ogni muscolo pareva emanare guizzante energia. Solo lo sguardo rimaneva identico: freddo, calcolatore, privo di emozione.

«Ora, ragazzina, sii acqua e non fuoco: difenditi.» Mentre pronunciava l'ultima parola, An fece scattare entrambi i polsi verso l'esterno e un minaccioso scintillio guizzò fuori dalla manica. Poi la donna attaccò.

Dabih! fu l'unica cosa che riuscì a pensare la giovane, saltando indietro per evitare il sibilare di due di quelle foglie metalliche che aveva visto sul letto della strega. An non combatteva: pareva danzare, tanto i movimenti erano fluidi ed eleganti. Non c'era forza nei suoi scatti, non c'era la brutalità che lei aveva visto quando qualche cacciatore o vedetta ingaggiavano in un'amichevole rissa all'uscita della locanda di Vahrel. La precisione e la velocità in ogni gesto, tuttavia, erano sufficienti a deviare ogni disperato guizzo del suo pugnale e a reciderle una ciocca di capelli a mezz'aria. L'adolescente si trovò costretta così ad arretrare, riuscendo a malapena a tenere le armi della maga lontane dal suo petto e dalla sua gola. Il suo cuore palpitò nel petto quando sentì lo spigolo di un mobile premere contro i suoi reni, ponendo fine alla sua ritirata disperata. L'attacco era la miglior difesa, giusto?

A volte sì, ma non in questo cas...

Non lasciò che il pensiero finisse la frase: con in grido - e una muta supplica agli dei -, si gettò in avanti, il pugnale teso davanti a sé.

La donna evitò il colpo tracciando un'elegante semicerchio con il piede. «Sii acqua», sibilò, poi con un guizzo del braccio simile al movimento di una fiamma crepitante fece saettare la lama verso il suo collo, lasciandole un doloroso graffio. «Non fuoco. Difenditi, come se la tua stessa vita fosse in periglio. Difenditi, Kaislentheya!»

Un colpo al petto scaraventò la diciassettenne contro il letto, mozzandole il respiro quando la schiena sbatté contro il bordo di legno del giaciglio. Prima ancora che le sue dita potessero afferrare il pugnale, un calcio aveva fatto scivolare l'arma lontano ed entrambe le foglie metalliche premevano contro la sua giugulare.

Gli occhi di Leahnne la scrutarono impassibili, senza pietà, senza curarsi della goccia di sangue che aveva tracciato una sottile scia rossa dalle lame alla sciarpa. «Impara ad adattarti come l'acqua, giovine. Solo allora, potrai ricominciare a essere fuoco.»

Il metallo si allontanò dalla sua pelle e un'ansimante Kala raccolse l'arma di suo padre. Si rialzò, ignorando le proteste della schiena pulsante di dolore e dei muscoli arrugginiti, poi assunse la posizione di attacco che Teucer le aveva insegnato. Quella volta, tuttavia, il suo piede tracciò istintivamente qualcosa nella polvere: l'inizio di un semicerchio. E fu allora che nella sua mente rimbombarono le parole che l'avrebbero accompagnata per tutte le sere successive:

sii acqua, sii fuoco.

Ed eccomi finalmente qui, con la seconda parte del capitolo XIX. Scusate se ieri non sono riuscita a pubblicare, ma questo gennaio si sta rivelando più tosto del previsto 😅😅😅

Comunque, in questo capitolo vediamo Kala che viene a conoscenza delle Case e la sua reazione alle parole della serva, che sembrano implicare una coincidenza assai inquietante 👀 Chissà, chissà... 👀👀😈😈😈
Nella seconda parte, invece, la nostra cara cocciuta rossa viene di nuovo massacrata nell'allenamento con Leahnne. Qui nulla di strano o sospetto (... forse 😏😏😏), ma dite la verità: quanto siete stati soddisfatti a vedere Kala ricevere l'ennesima batosta/figuraccia? 😂😂😂😜😜😈😈

Question time: secondo voi, cosa significa la parola sheàni?

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