VI - L'alba delle Ombre (pt.2)
Il suo nome non era Sparviero, sebbene ormai tutti lo chiamassero così. Con "tutti" intendeva, in verità, quel centinaio scarso di uomini che da anni erano gli unici esseri umani che avesse visto. Con loro condivideva i pasti, serviti nel grande salone di pietra, freddo come il ghiaccio sulla punta delle montagne. Con loro era segregato nei territori di quel maniero nascosto da una fitta foresta alle pendici dei monti a ridosso di Aurjei, o almeno così aveva dedotto. Si ricordava di aver scorto al suo arrivo un'immensa città sulle sponde di un lago, dominata da una collinetta su cui si ergeva un castello imponente. Era troppo lontano per scorgere chiaramente gli stendardi, tuttavia sapeva che su ogni torre l'Unicorno dorato del re sventolava al minimo refolo di vento.
Era con loro, soprattutto, che si addestrava ogni giorno nelle immense sale sotterrane o nel cortile al limite degli alberi. Pugnali, archi, lance, spade a due mani o dalla forma esotica, shuriken e coltelli da lancio erano solo alcune delle armi appoggiate alle lunghe grate di legno all'ingresso di quei due luoghi di sudore e lividi. Un tempo la sua vita era diversa, lui era diverso; tuttavia da quando aveva varcato la soglia della magione sperduta e mezza in rovina, da quando era stato privato della sua precedente identità e di quasi ogni effetto legata a essa, il passato era diventato polvere dispersa al vento.
Ora era solo Sparviero, come il feroce rapace che non lascia tregua alla sua preda. Ora era un membro della Setta delle Ombre, di cui solo pochi, tra cui il sovrano, conoscevano l'esistenza. Ora era un assassino, una lama mortale nell'oscurità della notte.
Tuttavia il mio nome non è Sparviero, pensò l'uomo mentre intercettava la punta del bastone prima che gli colpisse le costole. Se lo ripeteva continuamente, per non dimenticare quello che non avrebbe mai più potuto tornare. Lo mormorava sotto la coperta quando si rannicchiava nella sua branda, lo dissimulava nei respiri più pesanti e stentati quando si addestrava, lo urlava nei sogni più profondi. Eppure, nonostante i suoi sforzi, gli sembrava che quelle parole perdessero ogni giorno un briciolo di forza.
Con una stangata laterale disarmò l'avversario, poi con un calcio alle gambe gli fece perdere l'equilibrio. Puntò l'estremità dell'asta di legno verso il petto del ragazzo poco più che ventenne accasciato ansimante sul gelido pavimento di pietra. «Dimmi qual è stato il tuo errore, Dardo.»
«Non ne ho idea», grugnì quello, cercando di spostare invano la verga che minacciava il suo cuore. «Se lo sapessi, non sarei qui a farmi umiliare da te.»
«Mi hai sottovalutato», lo riproverò Sparviero. «Hai lasciato punti vitali scoperti e non ti sei curato di valutare l'ambiente, né di usarlo a tuo vantaggio.» Scostò l'arma e lasciò che il giovane si rialzasse da solo soffocando tra i denti qualche gemito di dolore. L'uomo serrò le labbra. Un tempo avrebbe teso la mano al giovane per aiutarlo a mettersi in piedi, ora a malapena ci pensò: una piccola, ma non indifferente, prova di quanto fosse cambiato. Il mio nome non è... il mio nome... maledizione!
Distolse lo sguardo dal ragazzo che stava andando a recuperare il suo bastone ed esplorò l'ormai familiare stanza. Il soffitto piuttosto basso, dovuto alla necessità di mantenere il caldo in un ambiente esteso dove non c'erano camini, era sostenuto da massicce colonne poste a intervalli regolari. Una volta le aveva contate: erano trentasei, ciascuna lontana dalla seguente circa una ventina di passi. Alle pareti erano attaccate poche fiaccole, la cui luce veniva diffusa da specchi e lastre riflettenti incastonate nella pietra dei pilastri. Non c'erano finestre, salvo per uno stretto rettangolo sopra il portone d'ingresso che mostrava un'infima porzione di cielo e qualche ciuffo d'erba del giardino; l'aria stantia era impregnata del lezzo di sudore.
Sparsi nella sala due dozzine di uomini combattevano tra di loro in gruppi di due o quattro, creando così un sottofondo di legno percosso e lame vibranti. Tutti loro, senza eccezione, indossavano indumenti scuri, tenuti chiusi alle estremità da lunghe strisce di stoffa nera che avvolgevano polpacci e avambracci. Sparviero aveva capito con la propria esperienza che quelle fasciature, oltre a impedire a orli troppo larghi di impacciare i movimenti, avevano la funzione di attutire i colpi durante i duelli corpo a corpo o con i pugnali da lancio. Sopra quei vestiti era posata una corta tunica senza maniche, anch'essa del colore della notte e stretta in vita da una cintura grigiastra. Era quella giubba che permetteva di distinguerli quando i loro volti erano coperti dallo sgaille, un cappuccio dal collo alto che lasciava liberi solo gli occhi e parte delle sopracciglia. Sul dorso di ciascuno, infatti, era rappresentato in rosso sangue lo pseudonimo con cui erano conosciuti all'interno della Setta: per lui, un rapace dagli artigli tesi in avanti; per Dardo, un pugnale saettante.
La voce del ventenne lo riscosse dai suoi pensieri: «Sei già stanco, vecchio?» Aveva recuperato il bastone e lo impugnava come una spada.
In risposta, l'uomo si mise in posizione da combattimento, tuttavia non alzò sopra il capo lo sgaille cucito alla sua veste: preferiva lasciare il viso libero da quella stoffa pesante, almeno finché ancora poteva. «Ho quarant'anni, non sessanta,» ribatté, «e quello che hai in mano non è una sciabola.»
Con uno sbuffo, il ragazzo spostò la presa dalla base a metà dell'arma. Sparviero non sapeva molto del passato del giovane - una delle regole ferree di loro Ombre era di non parlarne se non interrogati - tuttavia aveva intuito molto. L'accento tipico della capitale tradiva le sue stesse origini; il suo credersi superiore derivava dall'essere figlio di una famiglia benestante, se non addirittura nobile; la discreta abilità con le armi e la resistenza a ogni insegnamento denunciavano un'adolescenza dedicata a diventare un soldato, forse perfino una guardia o un cavaliere.
Una ciocca scura ornata da qualche capello bianco gli scivolò da dietro l'orecchio a causa del sudore che gli copriva la pelle. L'uomo non si preoccupò di spostarla: i suoi occhi chiari erano puntati predaci sull'avversario. Lui, a differenza di Dardo, non aveva ricevuto nessun addestramento da guerriero prima di entrare nei ranghi della Setta e i suoi primi mesi erano stati pura agonia.
Le loro armi di legno fecero in tempo a incrociarsi solo un paio di volte prima che il portone massiccio della sala si spalancasse, interrompendo ogni combattimento. Nel silenzio calato improvvisamente entrò un individuo dalle spalle massicce e la folta barba castana. Un mantello nero dal taglio militare pendeva dalla sua spalla sinistra, allacciato sotto la gola da una catenina e una spilla dorate. Insisteva che lo chiamassero Lupo, tuttavia la sua era una delle rare identità a non essere mantenute un segreto: egli era il generale Teyrnon, un tempo guardia reale e ora l'uomo posto al comando di loro Ombre.
Solo quando quello avanzò nella stanza, liberando così l'ingresso dalla sua presenza imponente, Sparviero si accorse dell'altro uomo sulla soglia. Era incredibilmente alto, tant'è che sovrastava la robusta figura del generale di un'abbondante spanna, tuttavia la sua corporatura era snella, armoniosa perfino. Indossava dei vestiti per concetto e colore simili a quelli usati dalla Setta, sebbene la loro foggia fosse più nobiliare e quasi arcaica. Egli sembrava la rappresentazione perfetta di quegli aristocratici che a malapena sapevano come sguainare una daga, tuttavia era anche la prova vivente di quanto le apparenze potessero trarre in inganno.
«Chi è lo straniero vicino a Lupo?» domandò sottovoce Dardo.
L'altro fece dardeggiare il suo sguardo contrariato, prima di ricordarsi che il giovane era nel maniero da meno di un mese e che non aveva ancora incontrato colui che, secondo molti, era a capo del loro gruppo quanto - e forse perfino più - di Teyrnon. Muovendo appena le labbra, mormorò semplicemente: «Pendragon. Il suo nome è Pendragon Feannarg.»
Il generale si diresse verso l'angolo alcune Ombre del Crepuscolo - i veterani, le Ombre originali, come a volte alcuni li definivano - , erano riunite. Indossavano tutti lo sgaille: ormai erano assassini anche nell'animo e non solo nel corpo. Iniziò a confabulare con loro, mentre Pendragon avanzava a passi misurati della sala tenendo le mani affusolate incrociate dietro la schiena e posava su ciascun presente i suoi occhi grigi come le nuvole temporalesche. La luce tremula delle torce creava un alone infiammato sui suoi lunghi capelli color paglia, legati all'altezza delle scapole da un laccio di cuoio, e conferiva un'aspetto quasi diafano alla pelle straordinariamente pallida.
L'uomo, già reso nervoso da quella silenziosa presenza che si aggirava a due colonne di distanza da dove si trovava, si sentì gelare quando udì il bisbiglio del ventenne al suo fianco: «...fragile come il vetro: scommetto che non riesce neppure a sollevare una spada.»
Strinse i denti. Stupido! Prega gli dei che non ti abbia sent...
In un movimento fulmineo il biondo si voltò verso di loro, ruotando sui tacchi dei suoi stivali; il lieve suono della suola che si posava sul pavimento parve a Sparviero più minaccioso dello schiocco di una frusta. Sperava di scorgere irritazione sul volto appuntito e proporzionato, tuttavia quando vide un angolo delle labbra incurvato in un sorriso sornione seppe che il ragazzo quel giorno avrebbe ricevuto un amaro insegnamento.
«Un nuovo coscritto», constatò Pendragon, avvicinandosi con falcate calme ma inesorabili. La cordialità con cui le sue parole erano intrise era talmente melliflua da mandare un forte sentore di veleno. «Posso sapere come sei stato appellato dai tuoi superiori?»
Il silenzio nella stanza era quasi assoluto. Tutti i presenti, perfino Lupo e i suoi interlocutori, guardavano ora il giovane con distacco, talvolta rimprovero, ma mai pietà. Sparviero invece indietreggiò cautamente, pur sentendo i frammenti dell'uomo che un tempo era stato odiare quei movimenti discreti: come la maggior parte dei suoi compari, sapeva quanto fosse pericoloso quel subdolo tono di voce, affabile solo in apparenza.
L'interrogato deglutì. «Dardo, lord Feannarg.»
«Dardo», ripeté l'altro fermandosi a meno di una decina di passi dal ventenne. «Un nome che implica forza e velocità, sebbene non necessariamente arguzia. È per questo che pensi che io sia debole, giovinetto? Oppure la causa è nel mio aspetto?»
Ormai anche il ragazzo aveva capito di trovarsi nella stessa situazione di una lepre di fronte a una belva affamata. A differenza del piccolo animale, però, lui non aveva possibilità di fuggire. Cercò di negare, scuotendo il capo coperto da riccioli castani, ma quel suo patetico tentativo fece solo rafforzare la maschera di falsa cortesia.
«Sei poco più di un fanciullo inesperto», sembrò compatirlo. «Forse hai solo bisogno di imparare: quale modo migliore per insegnarti che farti vedere il tuo errore?» Ridusse gli occhi grigi a due sottili fessure minacciose e inarcò un po' di più l'angolo delle labbra. «Il tuo mentore è Sparviero, non è così?»
L'uomo si pietrificò: sapeva cosa sarebbe successo ancora prima che Pendragon gli ordinasse di dirigersi al centro della sala e raggiungesse una delle grate su cui erano appoggiate le armi. Mentre il biondo afferrava un bastone, lui strinse la superficie levigata del suo con i palmi sudati. Nella quiete tombale che era calata poteva giurare di sentire i palpiti frenetici del proprio cuore, simili agli ultimi sobbalzi del petto di un cervo colpito a morte. Nonostante i mesi passati a sputare sangue e a cadere sotto i colpi del suo maestro l'avessero temprato come una lega metallica, nonostante in agilità superasse molti suoi compagni, era ben cosciente che per lui c'era solo una possibilità: perdere. Nessuno, neppure Teyrnon e le Ombre Originali, era mai riuscito a sopraffare in uno scontro quell'individuo dalle maniere aristocratiche ma dalla ferocia di un lupo.
Appena l'avversario lo raggiunse nello stesso spazio delimitato da quattro colonne, Sparviero assunse la posizione da combattimento: spalle leggermente incurvate in avanti, asta in obliquo e piedi piantati saldamente a terra. L'altro invece puntò l'arma verso il basso, facendone aderire metà al retro del braccio, e mantenne la schiena dritta. Al dito medio della mano che impugnava il legno aveva un anello argenteo in cui era incastonata una gemma giallognola.
«Vostra la prima mossa», sorrise cordiale, come se lo stesse invitando ad aprire una partita a shabti.
L'uomo respirò a fondo un paio di volte, desiderando che l'aria che gli invadeva il petto odorasse di pioggia e terreno bagnato anziché di sudore e di chiuso. Sentiva la tensione percorrergli i muscoli, accumulandosi a ogni istante, a ogni frammento di pensiero. La rilasciò.
Il primo schianto tra i due bastoni gli riverberò nelle orecchie; il secondo negli arti. Schivò ruotando una stangata laterale, poi attaccò. Il bastone incontrò solo aria: l'avversario era svanito. Un fischio fastidioso alla sua sinistra. Non questo trucco! Si chinò e bloccò la percossa sollevando l'asta orizzontale sopra la testa.
«Riflessi pronti», commentò sottovoce Pendragon. Il suo braccio guizzò, e l'arma con lui.
L'altro parò e respinse il legno. Appena in tempo. Rotolò sulla schiena, poi si rialzò con un colpo di reni. Una fitta sorda esplose nel polpaccio destro. Si morse un labbro per soffocare il grugnito e al dolore si aggiunse il sapore del sangue sulla lingua.
Si mossero di lato, tracciando il bordo di un invisibile cerchio. Il biondo aveva ancora un mezzo sorriso beffardo in volto e camminava sicuro. «Eppure non perfetti.» C'era quasi una punta di delusione in quelle ultime sillabe. «Hai già dimenticato il patto, Ombra?»
L'uomo digrignò i denti. Come avrebbe potuto scordarsene? Continuò a seguire i movimenti dell'opponente. Sta solo giocando, come farebbe un gatto. Il bastone scricchiolò sotto la sua presa. Lui non sarebbe stato il topo; lui non avrebbe ceduto squittendo e tremando, così come non l'aveva mai fatto in quegli anni. Il mio nome non è Sparviero, si ripeté. Una scarica di energia si diramò dal suo petto e gli avvolse gli arti; la gamba smise di pulsare. Nei suoi occhi chiari avvampò una selvaggia luce rapace. Io sono Sparviero.
Tale un falco che si getta in picchiata, scattò in avanti. Attacco, parata, attacco, attacco: quattro volte i due legni schioccarono incontrandosi. A ciascun colpo il febbricitante vigore aumentava. Avanzare, scivolare di lato, abbassarsi, rialzarsi. Ogni movimento incalzava l'altro, in un susseguirsi sempre mutevole. Le due armi cozzarono ancora e quella volta anche un sommesso cigolio vibrò nell'aria. Stoccata.
L'uomo si accorse che ormai l'avversario aveva quasi le spalle appoggiate alla colonna. Non è possibile: nessuno l'ha mai battuto. Fendente. C'è qualcosa di sbagliato. Incrociò lo sguardo tempestoso del biondo e in quell'istante seppe. Dei!
Non fece neppure in tempo ad indietreggiare. Pendragon appoggiò un piede al pilastro e le sue labbra si incurvarono appena. Non saltò: spiccò volo, i lunghi capelli color paglia volteggianti sulla sua scia.
Prima ancora che Sparviero potesse voltarsi, la punta dell'asta affondò nella schiena indifesa. L'urlo esplose nei polmoni, raschiandogli la gola. Si squilibrò in avanti. Spalla, fianco, caviglia: altri tre colpi giunsero quasi in simultanea, uno meno pietoso dell'altro.
Con un grugnito, cadde a quattro zampe. Sotto i palmi poteva ancora sentire la superficie levigata del bastone. Le palpebre tremarono pesanti, come prima del sonno: aveva perso, esattamente come era successo all'inizio di tutto. Un'immagine tremula baluginò allora nell'oscurità della sua mente, un ricordo che aveva sepolto sotto i lividi e altre memorie. Il cuore cominciò a palpitare velocemente nel petto, il sangue rabbioso gli irrorò ogni capillare, i respiri si fecero sempre più brevi e frenetici.
Spalancò gli occhi. «No!» ruggì, torcendo il busto.
Fu allora che il tempo rallentò. L'uomo avrebbe gridato se avesse potuto, tuttavia la sua bocca stava ancora trasformando la "n" in una lunga "o" disperata. Sentiva ogni fibra dei suoi muscoli scorrere l'una sull'altra con lentezza, trasformando contrazioni in movimenti. Era cosciente di ogni goccia di sudore sulla fronte, cristallizzata nell'atto di scorrere sulla sua pelle, e di ogni oncia d'aria che stava fuggendo dai polmoni per trasformarsi in suono. Nelle sue orecchie rimbombava dilatato e cavernoso il pulsare delle vene, lacerate dalla pressione.
Per Alnilam e Minhar, cos'è questo? Percepì con orrore il cuore cominciare a chiudersi su sé stesso, inondando l'interno del petto con un nuovo fiotto di calda linfa vitale. Ciocche di capelli scuri gli striavano la fronte, oscurandogli parte della vista. Nonostante quell'impedimento, scorse il pavimento di pietra allontanarsi e venire gradualmente sostituito prima dagli stivali, poi dalle figure intere delle altre Ombre.
Neppure nei pensieri trovò la forza per appellarsi agli dei o anche solo negare quello che vide allora. Nel corpo di tutti i presenti scorreva qualcosa: non era luce, non era tenebra, non era un colore, ma neppure trasparente. Sembrava il tremolio dell'aria attorno a una fiamma rovente, tuttavia esso pareva vivo ed era diverso per ciascuno dei suoi compagni. Non sapesse come riuscisse a distinguere una scia evanescente dall'altra: semplicemente lo faceva.
Sono svenuto, devo esserlo. Eppure non era in quello stato di incoscienza che si formavano i sogni.
Il cuore si espanse per accogliere sangue dalle vene. L'ultima parte della vocale scappò dalle sue labbra e Sparviero si trovò di fronte a Pendragon.
Nonostante i movimenti avvenissero come se gli arti fossero immersi in denso miele, l'uomo riuscì a sgranare gli occhi e a sollevare le sopracciglia per lo stupore. E la paura.
Distingueva nitidamente l'avversario biondo sospeso in aria in un altro salto letale, le ciocche chiare volteggianti dietro di lui e ai lati del volto appuntito, la stoffa raffinata dell'abito raccolta in pieghe e l'anello brillante al dito medio. Eppure, scorgeva con quasi altrettanta chiarezza una seconda immagine sovrapporsi alla prima. Le mani erano scheletriche e acuminate, la carne un insieme d'ossa nere e brandelli di tenebra, il viso un teschio scuro in cui erano incastonate due vivide gemme scarlatte.
Uno strappo improvviso gli artigliò i sensi, riportandolo alla normalità. Il suo bastone scattò verso l'alto nello stesso istante in cui quello dell'opponente si abbassava. Le due armi si scontrarono ancora una volta. Uno schianto secco echeggiò nella sala, mentre miriadi di schegge di legno schizzavano verso l'esterno. Entrambe le estremità spezzate atterrarono lontane sul pavimento di pietra.
Sparviero strinse esterrefatto il moncone che un tempo era stato una robusta asta da combattimento. Quando osò alzare lo sguardo verso il viso di Pendragon - ora non più attraversato da strascichi di oscurità fumosa - non seppe se leggervi sorpresa o piacere. Un calcio nello stomaco gli mozzò il respiro e lui si accasciò a terra senza neppure un gemito.
Mentre la luce diminuiva pericolosamente e sentiva la voce del generale Teyrnon farsi sempre più impastata, l'unica cosa cui riuscì a pensare fu quello che aveva visto quando era rimasto sospeso nel tempo. E se fosse stato reale.
Scusate per la parte un po' lunghezza, ma non potevo interrompere il duello tra Sparviero e Pendragon sul più bello, no?
Quindi rapida con lo spazio autrice.
Sì, sì (per una volta) andrò dritta al punto.
Iniziamo: è uno dei miei primi tentativi di scrivere un duello e la questione delle due velocità con cui scorre il tempo l'ha reso un po' più difficile. Credete che sono riuscita a rendere l'idea? Vi è piaciuta la scena?
Per una volta, io voto a tuo favore.
Tu non vali.
No, però ho le mie ragioni (anche leggermente egoistiche) per esortarti a scrivere bene questo tipo di azione.
Ok, passiamo ai nuovi personaggi introdotti: in teoria sono quattro, ma quelli su cui vorrei focalizzarmi sono due. Guess who?
Indovinello più difficile di quelli di tu-sai-chi... Sparviero e Pendragon?
Indeed, Sherlock. Cosa ne pensate? Prime impressioni? Qual'è il vostro preferito e perché?
Di sicuro non Pendragon.
Lasciali rispondere, caro. Ah, state in guardia: fra poco aggiungerò anche le loro schede personaggio nella sezione "cast". Se vi va, dateci un'occhiata 😉
Inoltre, una piccola cosa molto importante: so che al momento questa scena non ha nulla in co...
*coff coff* QUASI
Ok, non ha quasi nulla in comune con il filo principale di Kala (a parte scheletri neri dagli occhi rossi s'intende), ma ora guardate il titolo del capitolo. Fatto? Bene, ora rileggete attentamente la trama del libro. Ecco. Avete notato qualcosa? Spero di sì, almeno così non vi sorprenderete quando la Setta delle Ombre riapparirà in capitoli futuri.
Niente spoiler!
Ora, qualcuno vuole ipotizzare dove si andrà con il terzo e ultimo tempo? Nessun personaggio nuovo, vi anticipo di già.
Non è che la scelta sia molto varia, a questo punto...
Question time: cos'è successo a Sparviero quando "il tempo è rallentato"? Cos'era quel tremolio che vedeva in tutte le altre Ombre? Ma, soprattutto, perché gli è successo ciò?
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