IX - L'inganno del Negromante (pt.2)

Fu correndo che attraversarono l'ultimo tratto di foresta. Nessuno dei due osava parlare e quel silenzio non faceva altro che gravare sui loro animi. I rintocchi si erano interrotti bruscamente quasi subito e da allora nessun suono - salvo lo scalpiccio dei loro stivali - si era levato dalla foresta, né dalla fortificazione sempre già vicina. Teucer teneva lo sguardo dritto davanti a sé, come faceva quando inseguiva un animale nella vegetazione, e il suo arco pareva quasi vibrare lievemente, pronto per tendersi alla prima minaccia. Anzi, a Kala sembrò quasi che quel legno anelasse a flettersi e riversare in uno colpo fatale l'ansia del suo padrone. Non aveva mai visto suo padre così deciso, così pronto a compiere qualsiasi atto pur di assicurarsi che la moglie e le figlie fossero al sicuro. La ragazza contrasse la spalla in un lieve scatto: per un istante, avrebbe potuto giurare che il pizzicore alla nuca fosse tornato.

Non fu troppo presto che raggiunsero l'entrata meridionale di Vahrel. La giovane si aspettava di vedere i mantelli delle vedette affollarsi sui bastioni, di udire il clangore delle armi estratte dai loro foderi. Nulla: una quiete spettrale regnava anche lì. Strascichi di nebbia ondeggiavano nella lingua di prato che separava i primi tronchi dalle solide mura, dando l'impressione che la città fosse assediata da un fiume madreperlaceo.

Il cacciatore si addentrò cauto in quei banchi di foschia, seguito a ruota dalla figlia. Aveva già estratto una freccia dalla faretra e un lieve schiocco fece capire alla giovane che essa era appena stata incoccata. Cinque, dieci, venti passi: l'attesa rodeva i nervi di entrambi quasi quanto la tensione e l'apprensione.

Finalmente una sagoma scura si delineò in quella compatta foschia, grazie all'aiuto della torcia che tremava flebile all'interno di un varco. Un cupo cigolio echeggiò nella densa aria notturna, facendo sobbalzare la diciassettenne.

«Scardinati», sibilò l'uomo, indicando i portoni - o meglio, ciò che rimaneva di essi. Un paio di assi di legno divelte e pezzi metallici di serratura era tutto ciò che era ancora attaccato agli stipiti di pietra; il resto giaceva sparpagliato per terra come viscere estratte dal ventre dilaniato di un cervo.

«Non credo che dovremmo entrare», mormorò la diciassettenne, memore dell'avvertimento che era apparso nel taccuino di Mik. Non correre verso il pericolo. Solo quando vide suo padre voltarsi accigliato capì come quella frase potesse essere interpretata. «Forse Aryane e Isabhel sono riuscite a scappare; magari sono nel bosco che ci cercano.»

Prima che riuscisse a finire, si trovò stretta in un abbraccio paterno. «Anch'io ho paura, volpacchiotta,» mormorò Teucer, «ma la foresta non è più sicura della città: quella bestia è ancora a piede libero, con chissà quanti altri suoi simili.»

Kala affondò il viso nella pelliccia che copriva le spalle dell'altro, ricordandosi quanto quel gesto le fosse mancato. Aveva un dubbio atroce, che confessò esitante: «Padre, se invece fosse stata proprio quella creatura a... a...»

«No, credimi: tutto questo è opera umana, non di un animale. La belva è ancora là fuori, e temo che sia molto vicina.»

«Non puoi saperlo per certo», provò di nuovo ad opporsi la ragazza, con meno convinzione di prima.

Il cacciatore sospirò. «Ci ha seguiti. Era sempre abbastanza lontana per non essere individuata, tuttavia un paio di volte ha commesso qualche errore. Piccolo, è vero, e talmente insignificante che se non fossi stato all'erta non me ne sarei neppure accorto, ma pur sempre un errore.»

La giovane strinse appena i pugni. Perché suo padre non gliel'aveva detto subito? «Quindi,» disse staccandosi da quel gesto rassicurante, «siamo intrappolati tra l'incudine e il martello.»

«Non avrei usato questa espressione, ma temo di sì.» L'uomo accarezzò il piumaggio dei dardi che aveva ancora in spalla e di quello già incoccato, poi saggiò dolcemente la corda della sua arma. «Quando ci sono due minacce da cui è quasi impossibile fuggire, bisogna sceglierne una.»

«E tu hai già deciso», sussurrò la diciassettenne. Estrasse il pugnale dallo stivale destro - si era appena ricordata cos'era quel peso che sentiva contro il polpaccio - e annuì. «Anch'io.»

Oltrepassarono così insieme la soglia mezza distrutta, scavalcando i resti dei battenti che giacevano riversi al suolo. Appena entrati nel corto corridoio scavato nelle mura, la loro vista non fu più ostacolata dalla nebbia: a quanto pareva, quei banchi madreperlacei non osavano avventurarsi nella città.

Fu poco più avanti che incontrarono il primo morto. Giaceva riverso sulle scale che portavano alla parte superiore dei bastioni, il mantello rosso sotto di lui imbrattato da una scura macchia di sangue. Un pezzo di legno era conficcato nel suo petto e i suoi arti erano piegati in una posizione innaturale, come se le ossa fossero state spezzate da una caduta o da un lancio violento. Kala non riuscì a distogliere lo sguardo da quel volto esangue congelato in una smorfia di terrore e da quegli occhi spalancati coperti da un velo opaco. Un vertiginoso senso di nausea le soffocava i respiri, facendola sentire come se da un momento all'altro il suo stomaco si sarebbe rivoltato. Eppure c'era anche qualcosa di terribilmente affascinante nel cadavere scomposto: poteva quasi percepire la morte che aleggiava intorno a esso, come uno strano e intenso odore dolciastro.

Un gentile tocco sulla spalla la strappò da quello stato quasi ipnotico, ricordandole dov'era e perché aveva il coltello in mano. Annuì alla domanda muta di suo padre, poi girò la schiena a quella triste vista, riprendendo a camminare. Appena qualche passo più tardi, tuttavia, voltò velocemente il capo per guardare dietro di lei, oltre l'uscio scardinato. Le era parso di udire un lieve rumore, come lo scricchiolio dell'erba secca sotto un passo felpato. Si era quasi convinta di essersi immaginata tutto, quando intravide la sagoma scura di un animale tra i vortici di caligine. Non era un lupo, né un orso, ma qualcosa a cui non sapeva dare nome, simile forse a un felino troppo grande per essere reale. Non appena sbatté le palpebre, l'ombra svanì nel grigiore compatto.

Aveva ragione, pensò con un brivido la ragazza, raggiungendo in un paio di falcate il cacciatore. Quella creatura ci ha seguiti. Dei, spero solo che non entri anche quella in città.

Inoltrandosi nelle vie deserte del borgo, non videro che altra desolazione: carri rovesciati, porte collassate, mesti rimasugli di insegne che pendevano inermi dai loro sostegni. Quando passarono davanti al fornaio, la giovane intravide sacchi di iuta squarciati e uno spettrale strato di farina che copriva ogni cosa. Panni un tempo stesi fuori ad asciugare ora giacevano nel fango, mentre di tanto in tanto sul ciglio della strada erano sparpagliati cocci di piatti e ciotole sbeccate di legno. Non un gatto randagio miagolava ferito sui tetti, non un pianto di un neonato saliva dalle stanze buie, non un flebile lamento si levava dai vicoli più nascosti. Il vento freddo che faceva gonfiare pigramente le tende che ancora pendevano dalle finestre rotte non portava con sé alcun odore, se non quello della notte avanzata. Tutte le candele erano spente e solo la luna rischiarava la strada, delineando con un leggiadro candore argenteo quello che altrimenti sarebbe stato nascosto dalle tenebre. Vahrel sembrava essere diventata una di quelle navi fantasma di cui alcuni girovaghi delle isole raccontavano.

La diciassettenne cercò con gli occhi l'uomo. "Dove sono tutti?" mimò la domanda con le labbra, non osando interrompere con più dei suoi passi sul lastricato la cappa di silenzio. Dopo la vedetta all'ingresso non aveva visto nessun altro corpo, e non sapeva decidersi se questo avrebbe dovuto darle speranza oppure terrorizzarla ancora di più.

Teucer scosse la testa. "Non lo so" rispose allo stesso modo. Anche lui era preoccupato, come le dita che stritolavano la sua arma e la corda già in tensione svelavano. Fu lui ad osare aprire con un piede ciò che rimaneva del battente dell'erboristeria, una volta che la raggiunsero. Immediatamente l'odore delle piante e delle radici rovesciate a terra colpì l'olfatto di Kala, provocandole da un lato una sensazione di sicurezza, e dall'altro una stilettata al cuore. Anche lì la distruzione era giunta, stendendosi fino alla cucina dove il tavolo era stato rovesciato con forza, rompendo nell'impatto le quattro stoviglie e i quattro bicchieri ancora aggrovigliati nella tovaglia. Nel camino spento, il paiolo coperto mandava ancora un debole profumo di stufato ormai freddo. Di Isabhel e Aryane, tuttavia, non c'era neppure mezza traccia.

Forse sono riuscite a scappare, la ragazza cercò di sciogliere il groppo alla gola. Forse sono al sicuro, soffocò il timore che qualcosa di terribile fosse successo loro. In silenzio padre e figlia uscirono dalla loro casa messa a soqquadro, riprendendo con lo sguardo chino il loro girovagare. Ormai l'arco del cacciatore tremava violentemente e la giovane capì che non era solo per la paura e l'apprensione: c'era un'ira repressa in quelle scosse, una furia cieca che non avrebbe mai immaginato che quell'uomo - sempre così affettuoso con lei e sua sorella, nonché con la moglie - potesse provare.

Dopo aver attraversato altre strade deserte, senza neppure un segno di vita o di morte a interrompere la fredda immobilità della pietra, i due raggiunsero la piazza principale. E fu loro improvvisamente chiaro il perché finora non avevano visto nessuno.

La diciassettenne si tappò la bocca con le mani per soffocare il singulto che le era nato nel petto. Davanti a suoi occhi, rapidamente offuscati dalle lacrime, si stendeva un macabro tappeto di corpi, corpi umani. I cadaveri di quelli che un tempo erano stati gli abitanti di Vahrel giacevano scomposti sul pavimento della piazza, bagnando con il loro sangue le lastre scivolose. Vedeva madri che circondavano ancora con le braccia la loro prole in un ultimo, inutile gesto di protezione; mariti accasciati di fianco alle loro donne; giovani innamorati che si stringevano disperati l'un l'altro; vecchi rannicchiati nel dolore che il loro incontro con Dabih non era avvenuto così dolcemente come speravano. Conosceva almeno di vista ciascuno di quei volti ancora contratti dal terrore, e ognuno di quegli sguardi fissi quanto offuscati le pugnalavano l'anima.

Il vicolo da cui erano sbucati si trovava vicino alla biblioteca, così quando Kala guardò in quella direzione, scorse la sagoma di un uomo calvo e allampanato seduto contro i battenti chiusi e con il braccio a indicare i libri che aveva lanciato via per evitare che fossero rovinati dal sangue che colava dalla sua gola squarciata. Perfino di fronte alla morte, l'ultimo pensiero di Mik era stato difendere i suoi piccoli.

«No.» Il sussurro spezzato del padre parve in quel silenzio tombale quasi un grido. «No!» ripeté appena più forte, scavalcando rapidamente i corpi senza degnarli di uno sguardo. I suoi occhi arrossati erano fissi unicamente su un punto al centro della piazza.

Fu solo allora che la giovane si accorse dei due cadaveri impalati sulle rovine aguzze di quello che un tempo era stato il palco. Un urlo assordante, quasi un ruggito, esplose nella sua gola mentre un senso di vuoto e di perdita le dilaniava gli organi interni. Come avrebbe potuto non riconoscere la capigliatura dorata della donna e della ragazzina? Come avrebbe potuto non riconoscere in quei pupazzi inermi di carne e stoffa le due persone che, insieme al cacciatore, aveva sempre considerato la propria famiglia?

Cadde in ginocchio, non facendo nulla per fermare i suoi singhiozzi. Le lacrime scendevano copiose, lasciando sulle sue guance rosse scie lucide al chiarore di luna. Non aveva pianto in quel modo da quando aveva creduto che suo padre fosse morto, ucciso dai lupi. Osservando Teucer abbracciare disperato le spoglie di Aryane e Isabhel, si sorprese a sperare che anche con loro due potesse avvenire qualcosa di simile. Eppure era inutile, glielo dicevano i paletti di legno frastagliati che fino a poco prima spuntavano dai petti insanguinati delle due.

Serrò la stoffa della gonna tra le mani, poi si rimise tremante in piedi. Cacciò indietro i lucciconi che danzavano sull'orlo delle ciglia e inspirò tremante. Si diresse strascicando i piedi verso l'uomo, che ora stava accarezzando con le dita e le lacrime i capelli biondi dei due corpi vuoti. Il lezzo ferroso del sangue le provocava dei regolari conati, insieme alla vista delle viscere che talvolta fuoriuscivano da qualche squarcio nel ventre, tuttavia continuò ad avanzare, non curandosi se i suoi stivali ormai erano diventati vermigli.

Un pizzicore alla nuca le portò improvvisi brividi di lucidità in quel vuoto in cui la sua coscienza stava annegando. Intravide un movimento rapido su uno dei tetti, poi udì il lieve fruscio di un mantello spiegato nell'aria immobile come le ali di un pipistrello. «Padre», mormorò con voce troppo roca per essere udita dal quarantenne, nonostante egli si trovasse a pochi passi da lei. Riprovò, e quella volta le due sillabe serpeggiarono fino al loro obiettivo: «Papà!»

Quello sollevò lo sguardo nello stesso istante in cui una sagoma scura oscurava brevemente la luna, prima di atterrare dietro di lui con un leggero tonfo. Lo stridio della carne e delle ossa lacerate che Kala udì l'avrebbe tormentata negli incubi per molto tempo, tuttavia non quanto la vista della spada emersa improvvisamente dal petto dell'uomo. La ragazza gridò, ma non sentì la propria voce echeggiare nella piazza piena di desolazione: l'unica cosa che esisteva, in quel momento, erano gli occhi del cacciatore, spalancati nella consapevolezza della morte e nel dolore. Quell'ultimo bagliore di vita nelle iridi chiare tremò, poi scomparve. Il cadavere di Teucer scivolò dalla lama che lo aveva derubato della vita e si accasciò inerme sulle salme della moglie e della figlia, tale una marionetta cui erano stati recisi i fili.

L'assassino si fece avanti, coprendo con il mantello scuro i tre morti e scuotendo l'arma per pulirla dal sangue. La giovane avrebbe pensato a un cavaliere, se non fosse stato che l'armatura che copriva interamente lo sconosciuto era nera come una notte senza stelle, come le profondità di un camino otturato dalla fuliggine. Solo un segno bianco simile a una cicatrice deturpava la parte destra dell'elmo, incorniciando uno dei due occhi vermigli simili a braci. Simili a quelli di uno Spettro, realizzò cadendo all'indietro la diciassettenne. D'un tratto si ricordò tutto: la pietra trovata nella radura simile a una meridiana, lo spirito dannato che l'aveva quasi uccisa, la volontà estranea che l'aveva controllata. Tutto.

Cercò di ritrarsi gattonando, ma la mano che non impugnava il coltello scivolò sul lastricato coperto di liquidi vitali e la diciassettenne si trovò con la schiena appoggiata a uno dei corpi trucidati.

«L'ultima figlia di questa misera città ancora viva», commentò lo sconosciuto con una voce che sembrava essere stata creata dal metallo stesso, e non da labbra umane. Pareva curioso più che sprezzante, tuttavia il suo era un interesse aberrante, quasi perverso, finalizzato solo all'annientamento di ciò che considerava un ostacolo.

Prima che l'individuo potesse avvicinarsi di un altro passo, un muro di fiamme bianche eruppe dal terreno, creando un ruggente muro impenetrabile. Kala si obbligò a riscuotersi dalla paralisi della sorpresa e balzare in piedi. Aveva un'insperata opportunità di fuga e non le importava né la causa di quel fenomeno sovrannaturale né l'artefice: semplicemente, si mise a correre. Si voltò per una frazione di istante solo quando ebbe imboccato la via più vicina, incuriosita e terrorizzata dallo scoppio che aveva ucciso il crepitio del fuoco. Tra le falangi coperte di metallo dell'assassino si stavano addensando sinistre volute di luce nera, simili quasi a drappi incorporei che si contraevano e ondeggiavano assecondando i gesti armoniosi delle mani.

Magia, si rese conto la giovane. Per Minhar, il cavaliere è uno stregone! Non aspettò che l'incantesimo fosse completo: compresse tutte le sue emozioni in un angolo della sua coscienza, poi scappò a testa bassa, ignorando il suono arcano che aveva iniziato ad echeggiare dietro di lei. Girovagò per le strade della città fantasma senza meta, senza riposo, senza speranza. Solo quando fu certa di aver messo abbastanza vicoli tortuosi tra lei e la piazza, si accasciò contro un muro riparato da una cigolante tettoia.

Stringendo convulsamente il manico dell'arma, reclinò il capo e liberò la fiumana di dolore e terrore che aveva ingabbiato per la fuga. Era sola, sola per sempre! La sorella, i cui scherzi avevano sempre riempito le sue giornate? Morta. Sua madre, la dolce e affettuosa Isabhel? Morta. Suo padre, che per poco aveva ritrovato prima di vederlo di nuovo sprofondare nell'abbraccio di Dabih? Morto! I suoi amici, i suoi conoscenti, gli abitanti della sua città: tutti morti. Morti!

Ben presto l'aria risuonò con i suoi singhiozzi soffocati con una mano, nel timore che il nemico potesse udirla. Lacrime copiose correvano lungo il suo viso, mescolandosi al sudore e ai radi schizzi di sangue che l'avevano imbrattata durante la caduta. Il sangue delle persone che amava, di coloro che avevano sempre vissuto insieme a lei a Vahrel. Fino a quel momento.

Un sussulto spezzò i tremiti delle spalle: qualcosa le aveva toccato le gambe. Alzò tremando il pugnale, pronta a colpire chissà quale viscida creatura, poi abbassò lo sguardo offuscato. «Tebas!» esclamò con voce roca la diciassettenne, lasciando cadere l'arma.

Il gatto abbassò le orecchie, infastidito dal tintinnio del metallo sulla pietra. Subito dopo, tuttavia, saltò in grembo alla padrona, lasciandosi andare in un rombo continuo di fusa. Kala affondò le dita nella pelliccia striata dell'animale, trovandola liscia come sempre. Il vuoto che stava collassando nel suo cuore era sempre più insistente e dilaniante, così afferrò il micio e se lo portò al petto in un disperato tentativo di arginare il dolore. Il felino soffiò infastidito - più di sorpresa che di una vera e propria protesta - tuttavia non appena i primi lucciconi bagnarono il suo dorso, cominciò a strusciare il capo contro la guancia della giovane.

La diciassettenne, il volto affondato nel pelo morbido, incurvò le labbra in un sorriso stentato quanto sentì la piccola lingua ruvida accarezzarle la parte di collo lasciata scoperta dalla sciarpa. Le era sempre sembrato che Tebas capisse quando stava soffrendo e che con i suoi piccoli gesti cercasse di consolarla. Aveva perso il conto delle volte in cui, costretta a rimanere a letto a causa della febbre, di punto in bianco aveva sentito un tiepido peso raggomitolarsi sulle coperte, oppure di tutte le occasioni in cui lui l'aveva sommersa di fusa e buffi miagolii quando era triste o impaurita.

Pianse allora la diciassettenne, accovacciata nell'angolo della strada silenziosa illuminata solo dalla luna. Pianse di paura e di dolore, senza vergognarsi dei singhiozzi che le mozzavano regolarmente il respiro. Pianse per il passato perduto, per il presente lacerato e per il futuro che si prospettava troppo breve o troppo vuoto. Pianse, aggrappata all'ultimo frammento della sua famiglia come un naufrago al relitto della sua nave.

Non seppe quanto tempo passò prima che le orecchie del gatto si drizzassero e quello si divincolasse gentilmente dalla sua stretta. Il felino saltò, atterrando con le quattro zampe sul lastricato senza alcun rumore, poi la guardò intensamente, frustandosi i fianchi con la coda.

Giusto, la ragazza pensò asciugandosi il volto con una manica, non posso rimanere qui. Costrinse le sue gambe a spingerla in piedi, raccolse da terra il pugnale, poi mosse i primi passi incerti, appoggiandosi con una spalla al muro per avere ulteriore sostegno. Tebas le toccò i polpacci con il muso ancora una volta, come per darle coraggio, e gnaulò piano. Si avviò cauto nella via, seguito a breve distanza dalla sua padrona, che a ogni falcata recuperava un poco delle forze distrutte dal lutto. La guidò attraverso Vahrel seguendo un inspiegabile percorso a zig-zag, ma la giovane non si pose mai alcuna domanda. L'ultima cosa che voleva, in quel momento, era rimanere da sola ad affrontare i propri mostri, reali o immaginari che fossero. Solo quando vide le zampe posteriori del felino scomparire in uno stretto vicolo buio ebbe un attimo di esitazione. Si fermò proprio all'entrata di quella vietta tenebrosa, simile quasi alle fauci spalancate di una caverna, gettando poi intorno qualche occhiata vigile. Sentiva un insistente pizzicore alla nuca ed era convinta che fosse causato proprio da quel luogo, che le sembrava perfetto per un agguato. Forse la consapevolezza che uno stregone si aggirava nella cittadina la stava rendendo paranoica, oppure forse quel tremore dei suoi arti era causato dal suo terrore degli ambienti soffocanti. Più guardava quel rettangolo di densa notte, infatti, più le veniva in mente la straziante prigionia di una cella angusta.

Quando avvertì i primi segni di capogiro, si sforzò a distogliere lo sguardo. Confidava che Tebas sarebbe tornato sui suoi passi, non appena si fosse accorto che lei non lo stava accompagnando più. Non era neppure impossibile che si fosse avventurato lì dentro solo perché aveva visto un ratto o qualche avanzo abbandonato. Esplorò languida le facciate delle case vuote per sempre, i rimasugli di vita quotidiana che si intravedevano dalle finestre, le altre strade ormai deserte che intersecavano quella in cui si trovava. Fu così che scorse qualcosa che la fece sussultare.

In una delle vie alla sua sinistra aveva appena intravisto una scia rossa, un mantello delle vedette che svolazzava incerto come se chi lo indossava stesse camminando a fatica. Il suo cuore si riempì di una fragile speranza: magari non era sola, magari c'era qualcun altro che era sopravvissuto al massacro. Arrancò di qualche passo in avanti, tirata da quella debole scintilla, e riempì i suoi polmoni con la fresca aria autunnale. La diciassettenne, tuttavia, non riuscì mai a pronunciare neppure una sillaba. Una mano emerse dall'oscurità alle sue spalle e le tappò bruscamente la bocca, trascinandola nelle tenebre del vicolo.

*mette da parte il barattolo di Nutella*
*nasconde i fazzoletti*

Aehm... io vi avevo detto che questo capitolo era un po' dark, no? No?
Non credo che i lettori si aspettassero fino a questo punto, autrice.
Ehhh, non è mica colpa mia.
Io. Non. Commento.

Comunque... pliz, non uccidetemi.
Anche perché se lo fate non saprete come va avanti la storia.
Esatto, date ascolto alla vocina. E, fidatevi, anche a me è dispiaciuto scrivere una scena così triste, in particolar modo quando Kala vede Teucer morire, dopo che l'aveva ritrovato. Mi è quasi scesa la lacrimuccia, lo ammetto (e anche alla descrizione del cadavere di Mik, se è per questo).
Quindi tu "riporti in vita" i personaggi solo per ucciderli una seconda volta? Ma sei sadica!
Ahah, è il destino che aspetta almeno un altro individuo... ma più avanti, tranquilli.

Mettendo da parte i feels, tuttavia, vi dovete rendere conto che c'è qualcosa che non quadra: animali misteriosi nella nebbia? Fiamme bianche che fermano lo stregone? Tebas che spunta così a caso?
Per non dimenticarci di Teucer: com'è possibile che lui si trovasse lì?
Comunque, alcune di queste domande troveranno un inizio di risposta entro la fine del capitolo, non vi preoccupate.

Question time: chi è che, secondo voi, ha trascinato Kala nel vicolo? E, come dicono gli inglesi, sarà un "friend or foe"?

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top