IV - Gatti e crisantemi (pt.1)

La cucina era piccola ma accogliente, impregnata fino all'ultima piastrella da un mosaico di odori dolci e speziati. Le luci dell'alba filtravano attraverso le tende sottili di due finestre dalla forma quadrata, avvolgendo l'ambiente con chiarore soffuso e grigiastro. La parete opposta era occupata dall'arco di un camino, le cui pietre erano striate da una patina di cenere e unto. Una piccola pentola in rame era appesa a una delle tre catene cigolanti che pendevano dal soffitto della camera del fuoco, lambita dalle carezze incandescenti delle fiamme che crepitavano tra i gemiti di un ceppo già consumato per metà.

Isabhel Satavari si chinò e sollevò il coperchio traballante, sprigionando i vapori del decotto ribollente. Inspirò con le palpebre socchiuse, lasciandosi riempire dalle fragranze delle piante che galleggiavano sotto il pelo dell'acqua: melissa - quattro pizzichi e mezzo - ; petali di rosa canina; foglie di salvia; polvere di camomilla, caduta dai mazzetti in cui le infiorescenze erano raccolte; menta e miele. Fino a un anno prima sarebbe stata lei ad aver raccolto molti di quegli ingredienti, ma negli ultimi sei mesi non si era addentrata nella foresta per più di un miglio: ormai non era più lei ad avventurarsi regolarmente tra gli alberi per rifornire l'erboristeria. 

Mentre prendeva il mestolo agganciato al cornicione che ornava la cappa del focolare, la donna portò brevemente lo sguardo verso il soffitto e la camera sopra la sua testa. Pensare a come ormai avesse ceduto alla figlia maggiore il compito di raccogliere le piante officinali le rammentava il motivo per cui si era svegliata prima del solito per preparare quella tisana.

Con un inquieto sospiro, cominciò a riempire la tazza che teneva in mano, filtrando con cautela il liquido con la garza attaccato all'orlo di ceramica con un anello regolabile in legno. L'infuso ambrato nel contenitore si scuriva gorgogliando a ogni nuova aggiunta, riflettendo frammenti del volto di Isabhel. Una chioma biondo scuro, appena intaccata da qualche sprazzo di brina, incorniciavano un viso ovale dalla pelle pallida come il latte e attraversata dai primi, lievi accenni di rughe che denunciavano la vicina soglia dei quarant'anni. Ombre scure dovute al poco sonno di quella notte sottolineavano gli occhi grigiazzurri, tuttavia né quelle né i segni del tempo che ormai iniziavano ad apparire sulla sua pelle riuscivano a far avvizzire la bellezza grezza e modesta della donna. 

Alla vita portava una cintura, divisa in saccocce per tenere separate le erbe con cui stava lavorando, tuttavia i ricami che ne punteggiavano le pieghe erano gli unici sprazzi di colore nel suo abbigliamento. Quella mattina un abito scuro e sobrio sostituiva gli usuali indumenti color corteccia decorati dai pezzi di stoffa più disparati, mentre un velo nero, simile per forma a quello indossato il giorno della sua Unione, era posato sulle spalle esili della donna al posto di uno dei suoi scialli frangiati dalle tinte vivaci.

Isabhel si ritrasse dal focolare e posò la tazza fumante sul tavolo al centro della cucina, sui cui era già radunato il necessario per il primo pasto della giornata. Mentre aggiustava con delicatezza la corolla giallastra del crisantemo, sporgente da un'ampolla di vetro appena sufficiente a contenerne il gambo, un sorriso malinconico affiorò sulle sue labbra. Teucer le portava sempre un mazzolino di fiori o di bacche, dopo una battuta di caccia: nascondeva - inutilmente - la preda dietro la schiena e con un accenno di inchino le porgeva invece quel mazzetto di colori e di profumi. Aveva iniziato a farlo per corteggiarla, quando non erano ancora marito e moglie, e da allora non aveva mai smesso.  Poche volte l'uomo aveva infranto quel tacito rituale e di queste solo due erano rimaste impresse nei ricordi della donna: la prima Teucer stringeva tra le braccia un carico più prezioso di qualsiasi altro avesse mai portato, la seconda egli non aveva varcato da vivo le mura della sua città.

Uno scricchiolio strappò la donna da quei ricordi dolceamari e attirò il suo sguardo verso l'apertura botola sul soffitto. Sulla parte iniziale della scala che univa il piano superiore alla cucina era appoggiato un paio di stivaletti in cuoio coperti fino alla caviglia dall'orlo di una gonna scura. La ragazzina a cui appartenevano quei calzari scese gli scalini con una cadenza quasi saltellante, facendo varcare in pochi istanti la soglia anche al resto del corpo.

«Buongiorno, madre!» cinguettò Aryane, atterrando a piedi uniti sul pavimento in arenaria. Nonostante il nero che indossava e i capelli dorati raccolti in una treccia da un nastro color carbone, la quindicenne sembrava irradiare vitalità. Scoccò un bacio sulla guancia della donna, venendo ricambiata con una carezza, poi afferrò una fetta di pane di farro dal tagliere.

Isabhel allontanò il vasetto di crema di castagne e miele prima che la quindicenne riuscisse ad affondarvi un coltello. «Aspetta almeno che arrivi tua sorella, Aryane.» 

«Se fosse malata e non avesse neppure le forze di alzarsi? Perché dovrei io restare affamata per giorni interi?» La ragazzina brandì la pagnotta con veemenza. «Sto solo parlando per ipotesi, naturalmente», si affrettò ad aggiungere non appena notò lo sguardo della madre. «Quando sono scesa stava finendo di allacciarsi gli...»

Per la seconda volta il legno levigato dall'usura e dal tempo cigolò sotto il peso di passi umani, per quanto leggeri e silenziosi. La donna prese la tazza ancora calda e si fece incontro alla ragazza che stava scendendo le scale. Come la sorella era vestita a lutto, conformemente alla tradizione richiesta dal Giorno di Dabih, e aveva raccolto per quanto possibile i capelli ribelli in una retina scura, lasciando scoperte le orecchie piccole e sporgenti. Sulla spalla destra era accovacciato un gatto dal pelo ocra striato di scuro, i cui occhi scrutavano l'ambiente con l'attenzione di un predatore pronto a scattare in avanti e a sfoderare gli artigli per affondarli nella sfortunata vittima.

«Tutta la famiglia è presente, Tebas compreso!» esclamò sollevata la quindicenne prima di avventarsi sulla colazione.

«Come ti senti questa mattina?» indagò Isabhel dopo aver salutato la figlia con un abbraccio parziale a causa dell'oggetto che teneva in mano.

Kala grattò il mento del felino, scatenando un ronzio di fusa sommesse. «Meglio di ieri: non ho più il mal di testa.» Ma non poteva stare completamente bene, non nel giorno in cui si ricordavano i morti: quello la quarantenne lo sapeva ancora prima che della risposta piena di sottintesi della figlia.

La donna scrutò comunque con attenzione il viso della diciassettenne. Gli occhi occhi color ghiaccio guardavano mesti un punto lontano, ma non erano più sottolineati da pesanti occhiaia; mentre le labbra serrate con forza tra di loro avevano perso il loro pallore tremante ed erano tornate di un colore più naturale. Le braccia erano conserte, ma non più attraversati da brividi, e il viso non era più infestato da quell'espressione spiritata che aveva spaventato la quarantenne così tanto da toglierle il sonno. «Speriamo che si sia trattato solo di un male di stagione, allora», mormorò inquieta Isabhel prima di riscuotersi e porgere la tisana alla giovane.

«Melissa e menta?» domandò Kala annusando i vapori che salivano dal liquido scuro, corrugando la fronte. Allontanò l'infuso dal volto prima che Tebas potesse raggiungerlo con il muso. «Forse anche della rosa canina e del miele.»

La madre le rivolse un breve sorriso, orgogliosa di come ormai la figlia riuscisse a riconoscere gli ingredienti di un infuso dal solo odore. «Te ne ho preparato una pentola intera: entro stasera non deve rimanerne neppure una goccia, intesi?» raccomandò con un tono di voce più teso di quello che era la sua intenzione.

Dal tavolo venne il rumore di una mela addentata con soddisfazione, seguito dopo qualche istante dal ghigno di Aryane: «Venite ad aiutarmi oppure sono costretta a finire io tutto il cibo?»

La ragazza fece scendere il gatto dalla spalla e si precipitò a occupare il proprio posto, allungando il braccio per impedire che la sorella si appropriasse degli ultimi biscotti alle nocciole. «Non osare!» 

«Saresti dovuta scendere prima», rise la quindicenne indicando il suo piatto già pieno di briciole e avanzi. Ammiccò alla diciassettenne per provocarla e le diede un pugno giocoso sul braccio. «Sai come si dice: il primo arrivato è il meglio servito.»

Nonostante la premessa tutt'altro che rassicurante, il resto della colazione passò in relativa quiete, venendo solo punteggiato dai guizzi ironici di Aryane. Mentre sparecchiava, Isabhel realizzò che quello era stato uno dei pasti meno animati degli ultimi tempi. Con l'avvicinarsi del momento in cui la figlia maggiore si sarebbe consacrata a Saiph prima di Unirsi a un ragazzo, l'attrito tra le due era aumentato. Era raro ormai che passasse più di qualche ora tra uno scontro e l'altra, seppure la maggior parte fosse mascherata da burla, e sempre più spesso perdeva la pazienza nei tentativi di riconciliazione.

«Kala, posso parlarti?» la prese in disparte, una volta chiesto all'altra di iniziare ad aprire l'erboristeria per quella mezza giornata prima dei riti dedicati a Dabih. «Per favore, non esitare a riferirmi qualsiasi malore tu o Aryane possiate provare.»

La giovane si annuì, spostando il peso da un piede all'altro, prima di borbottare: «Lo faccio sempre, non ti preoccupare.»

«È particolarmente importante,» insistette la donna prendendole la mano, «in particolar modo alla luce di quello che è accaduto ieri sera. Di tutto quello che è accaduto.»

La ragazza sgranò gli occhi, un lampo di comprensione che attraversava quelle iridi dello stesso colore del ghiaccio più puro. «Gli aruspici! Madre, credi che la loro profezia si riferisca a me o mia sorella?»

«Non lo so, ma preferisco essere previdente», confessò preoccupata Isabhel, facendo scivolare lo sguardo sulla nicchia nelle parete che conteneva le effigi degli dei. «Gli dei parlano attraverso quei sacrifici e non bisogna mai sottovalutare le parole dei sacerdoti. Nessuna di voi ha già raggiunto la maggiore età, e il dolore che attende chi ha già sofferto...»  La sua voce si incrinò e la donna non riuscì più a proseguire. Nel silenzio che seguì, la presenza della quarta sedia del tavolo - fredda, vuota e piena solo di polvere - parve diventare un peso insopportabile sul petto di entrambe.

Kala chinò il capo, mordendosi un labbro e stringendo convulsamente le mani tra di loro, poi il suo indice corse alla tempia e strappò senza rispetto un riccio all'acconciatura. Quel gesto allertò la donna, che seguì il dito torcere la ciocca fulva in tutte le direzioni con un crescente senso di inquietudine. Conosceva bene sua figlia, e sapeva cosa quel vizio significasse per lei. Si ritrovò così a domandarsi quale pensiero avesse colpito la diciassettenne così repentinamente, cosa la stesse rendendo così nervosa. Pensava a qualcosa che era successo quella notte, al Samahian appena passato, all'incombente visita alla tomba di Teucer. La domanda che le venne posta a bruciapelo, tuttavia, la colse del tutto impreparata.

«Di che colore vedi gli occhi di An?»

«Verdi, figlia mia», rispose la donna, perplessa e turbata dall'espressione apparsa sul volto dell'altra. «Perché me lo chiedi?»

La ragazza si morse il labbro e provò a sminuire l'importanza di quello che aveva detto alzando le spalle. Le sue dita non smisero tuttavia di torturare la ciocca fulva. «Solo curiosità», borbottò schiva.

Isabhel capì che la figlia stava mentendo.

L'uomo controllò le dodici frecce nella faretra in cuoio di daino, sfiorandone l'impennaggio. Le aveva costruite lui, come il suo fedele arco, appoggiato al muro di fronte a lui e illuminato da un tenue raggio di luna che filtrava dalle tendine ricamate.

«Sii prudente.»

Il cacciatore si voltò verso la moglie, serrando istintivamente gli occhi per proteggersi dal lumino che la donna teneva in mano per rischiarare la cucina ancora immersa nelle tenebre. Il suo sguardo abituato ai repentini cambiamenti di luce nel sottobosco, tuttavia, si abituò immediatamente a quel caldo chiarore e Teucer poté ammirare la donna a cui si era unito più di diciannove anni prima. I capelli biondo scuro - ereditati dalla madre e tramandati alla figlia - ricadevano lievemente arruffati sulla lunga camicia in flanella che Isabhel aveva indossato per andare a dormire quella notte, e che poco prima si era frettolosamente infilata di nuovo per raggiungerlo in fondo alle scale.

L'uomo afferrò il manico in nocciolo della sua arma, sentendo i segni spigolosi che lui stesso aveva inciso nel legno premere contro il suo palmo, poi si avvicinò alla sua amata e le circondò la vita con il braccio libero. «Non lo sono sempre?» le domandò con un mezzo sorriso, baciandola dolcemente.

Isabhel lo trattenne a sé, le labbra premute contro le sue e le dita pallide come la neve che affondavano disperatamente nei capelli scuri. «Per favore. Resta», lo supplicò in un sussurro mescolato ai baci, facendo aderire i loro corpi come se lo stesse inconsciamente invitando a esplorarla con passione, come aveva già fatto quella notte

E in quel momento Teucer fu veramente tentato di restare, di lasciare l'arco lì in cucina e trasportare in braccio la donna fino al loro letto nuziale, liberandola di quella scomoda camicia in flanella per poi stringerla e accarezzarla fino a sentirsi esausto. Già sentiva le sue dita correre sulla pelle morbida dei fianchi e le risatine nervose che anche dopo diciannove anni di matrimonio talvolta sfuggivano dalle labbra di Isabhel; già la sua mente era seduta al tavolo su cui la mattina avrebbe fatto colazione con un infuso caldo e dei biscotti alle noci, salutando le sue due figlie con un forte abbraccio da lupo e scompigliando i loro capelli ancora arruffati.

Il cacciatore stava già per lasciare la presa sulla sua arma quando con la coda dell'occhio vide l'unico, striminzito pezzo di carne secca che pendeva dal soffitto di sua cucina: era l'ultimo per la sua famiglia, e uno dei pochi rimasti ancora a Vahrel. Le dita strinsero di nuovo con forza il manico di legno e a fatica l'uomo interruppe i baci sempre più travolgenti. «Lo sai che non mi entusiasma questa cosa», mormorò Teucer, appoggiando la sua fronte a quella di Isabhel. Sapeva che la moglie aveva sempre paura quando lui usciva di inverno, e l'idea di farla stare in ansia per uno o più giorni era una delle poche cose che riusciva a ovattare il richiamo suadente della foresta. «Tuttavia sei cosciente quanto me che non abbiamo scelta.»

Isabhel annuì lentamente, gli occhi serrati e i respiri ancora irregolari dopo il turbine di baci. Tuttavia, la donna non si era arresa: anzi. «Da decenni non giungeva una stagione così rigida: sai cosa dicono in giro? Dicono che sia il presagio o l'ira di un dio. Teucer, per favore, almeno considera di partire con la luce del sole.»

«Il giorno non farà scomparire i lupi, Isabhel». Il cacciatore le sollevò il mento con le dita, intrecciando di nuovo i loro sguardi. «E sai bene che non ho paura di loro: cercano solo cibo per i loro cuccioli. Come facciamo noi, alla fine.»

La donna rimase in silenzio per qualche istante, prima di confessare: «I lupi non sono l'unica cosa che mi preoccupano. Voi uomini non siete stati gli unici a parlare con i carovanieri, la scorsa settimana.»

Teucer si meravigliò di come la moglie riuscisse ancora a sorprenderlo, dopo tutto quel tempo. Solo le vedette, il borgomastro e pochi cacciatori si erano chiusi nella taverna Tre Pini per discutere delle notizie inquietanti che provenivano dal resto del regno: contadini che riferivano di aver scorto creature mostruose aggirarsi nei campi, intere famiglie trucidate nel sonno, mormorii su minacciosi presagi di guerra, sussurri troppo assurdi per essere veri su ombre che si dileguavano nella notte dopo aver commesso sanguinosi delitti. Sapeva tuttavia che le donne dei viandanti e quelle di Vahrel conversavano perfino più dei mariti, pertanto non era impossibile che qualche diceria fosse sfuggita nella conversazione. «Tutte quelle cose sono accadute fuori dalla valle: le montagne si proteggono, ci hanno sempre protetto. Quelle voci non possono essere una minaccia più pericolosa del freddo e di qualche animale affamato.» 

Un lieve ma insistente bussare si mescolò alle ultime parole del cacciatore. Proveniva da uno dei due ingressi della casa, quello che dalla cucina si affacciava su una via secondaria: l'altro era la porta dell'erboristeria di Isabhel, collegata al resto del piano terra tramite un piccolo e angusto retrobottega.

Le labbra di Teucer sfiorarono quelle della donna un'ultima volta, soffermandosi un istante di troppo come per ricordare a entrambi quello che avrebbe potuto essere, poi l'uomo sfilò dalla cintura il suo pugnale da caccia. Lo aveva ereditato da sua padre, il quale lo aveva ereditato da suo nonno prima di lui: si diceva che per intere generazioni di uomini della sua famiglia lo avessero impugnato, senza mai bisogno di affilarlo, e che in qualche modo esso fosse legato al sangue dei suoi avi. «Una promessa che non oserò infrangere: entro il tramonto di domani, sarò su quella soglia.»

La voce di Ajax, il più anziano della compagnia con i suoi quarantanove anni, accompagnò un altro tamburellare gentile ma insistente. L'uomo allora si staccò dalla moglie e si avviò verso l'uscio. Prima che potesse girare la chiave nella toppa, un debole miagolio salì da terra. Tebas era accovacciato davanti al battente, le zampe incrociate davanti a sé e la coda che frustava con insolita maestosità i fianchi striati. Teucer si chinò per spostare il gatto con delicatezza, ma la sua mano si fermò a mezz'aria con un tremito. Sentiva d'un tratto freddo, non come se uno spiffero di aria notturna l'avesse raggiunto da sotto la porta ma come se fosse improvvisamente stato immerso in un lago ghiacciato. Era un gelo che gli serrava il cuore e che pareva raggiungere direttamente la sua stessa anima, imitando la stretta stessa della morte.

Un basso ringhio di avvertimento lo raggiunse, un verso che per un istante l'uomo credette appartenesse a un lupo o a un orso: il micio aveva appiattito le orecchie contro il capo, snudando le piccole zanne, e ora lo scrutava con le pupille ridotte a fessura. Il cacciatore ritrasse di colpo la mano, la sorpresa per quell'insolito comportamento che si mescolava all'inquietudine, e incrociò lo sguardo dell'animale. Fu solo un istante, ma in quell'istante Teucer fu certo di vedere un'intelligenza umana baluginare nei suoi occhi, il cui colore ambrato era attraversato da un sinistro riflesso azzurro.

Un pugno tamburellò ancora sulla porta, quella volta assai più insistente, e l'uomo si alzò. Non provò tuttavia a scrollarsi di dosso la sensazione di disagio che gli era scivolata addosso: aveva da tempo imparato a fidarsi dal suo istinto, che spesso pareva sapere più di quanto avrebbe dovuto. Era ascoltando l'istinto che riusciva a scovare tracce di animali anche lì dove gli altri cacciatori non vedevano che nuda terra, era seguendo l'istinto che quindici prima invece di una preda aveva trovato un tesoro assai più grande, era l'istinto che gli diceva di non ignorare quel forte pizzicore alla nuca che sentiva ogni volta che la donna chiamata An era nei paraggi.

Il cacciatore si promise di guardarsi due volte le spalle una volta nel bosco e strinse il suo arco, percependo una debole scarica di energia correre tra il suo palmo e l'arma, come se il legno di cui era fatta fosse ancora vivo. Strinse i denti quando gli artigli di Tebas si conficcarono nella sua gamba, come se il micio stesse cercando di trattenerlo, e delicatamente lo allontanò. Teucer aprì poi la porta e si congiunse agli altri cinque cacciatori che lo attendevano tra i lembi di nebbia, senza immaginare che in un luogo lontano e irraggiungibile per i mortali, il Destino stava serrando tra le dita il filo dorato del suo fato.


Ordunque, eccoci qui! Abbiamo questo "primo tempo" che si barcamena tra presente e passato: entrambe sono terribilmente importanti, anche se per cose (per il momento) separate. Quale vi è piaciuta di più?

Dalla parte del presente abbiamo una presentazione della famiglia ancora viva di Kala e di come la ragazza abbia le capacità rigeneranti di Wolverine...
Tu vuoi davvero male ai lettori, se li indirizzi su delle strade che non esistono!
Caro, non vuoi lasciarmi scherzare un po'? Comunque, c'è qualcosa che non quadra nel malessere della ragazza e sembra che Isabhel tema che la profezia possa riferirsi a una delle due figlie... sarà vero? Tan tan tan taaan
"Vero" e "Falso" non sono sempre le uniche due opzioni. E, a proposito... ricordate anche il resto della letture delle viscere?

Dalla parte del passato, invece (mi sembra di presentare Ciao Darwin) ci sono i feels struggenti di un flashback su Teucer. Ditemi: quanti fazzoletti avete usato?
Domanda futile nonché superflua.
Una piccola curiosità su Tebas: il suo nome è in parte l'anagramma di Bastet, dea-gatto degli Antichi Egizi. Prima che me lo chiediate, Tebas è un maschio e non è una divinità in incognito. Neppure io farei dei nomi così parlanti.
Autrice? Lo sai che un giorno ti rimangerai queste parole, vero?
Eddai, c'è solo un'eccezione! Hai ragione, quattro. No, otto... Niente spoilers, ok? Tornando all'argomento principale, anche nel secondo paragrafo ci sono molti elementi molto interessanti. Quali vi hanno fatto scattare il campanello d'allarme?

Dovrei riuscire a pubblicare la seconda parte tra una settimana circa. Vi anticipo già che alla fine del capitolo IV ci sarà una sorpresina (che non posso pubblicare ora a causa di possibili spoilers, accidenti!)

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