Un bacio al tramonto

Sono già tre giorni che sono tornata a scuola e, oggi, per la prima volta, non sarà mio padre ad accompagnarmi. Mi guardo allo specchio e noto felicemente che i lividi attorno al naso e agli occhi, si stanno attenuando. Passo velocemente il mascara sulle ciglia,aggiusto la camicetta turchese, facendo attenzione di infilarla bene nei jeans chiari e, dopo aver messo le converse bianche ai piedi,afferro l'eastpack e scendo in cucina.

«Buongiorno, tesoro» mi saluta mia madre.

«Ciao mamma, ciao papà» dico, prendendo la mia solita manciata di mandorle.

«Sei proprio sicura che non vuoi che ti accompagni io?» mi chiede l'uomo dinnanzi a me, fissandomi con i suoi grandi occhi verdi: quasi mi dispiace andare a scuola con Gabriele e Claudia, ma oramai saranno qui tra pochi minuti.

«No, papà, grazie» dico, avvicinandomi a lui e schioccandogli un bacio sulla guancia. Uno sguardo complice s'insinua tra i miei genitori, come a voler dire 'sta crescendo.'

«Domani, se vuoi, mi accompagni tu, va bene?» gli chiedo, guadagnandomi un sorriso ben tirato.

Sento il telefono squillare, lo prendo dalla tasca dei jeans e leggo il nome di Claudia. Scorro la linea verso destra e, portandomi l'apparecchio all'orecchio, domando:

«Siete qui sotto?»

«Buongiorno anche a te, Iris. Sì, siamo sotto casa tua» risponde la mia amica, ridacchiando. Chiudo la chiamata e, dopo aver salutato i miei genitori, scendo giù per le scale, evitando accuratamente di cadere di nuovo e fratturarmi il setto nasale.

Quando apro il cancello, vi trovo parcheggiati Gabriele e Claudia: la seconda scende e mi passa subito la bustina bianca, mi abbraccia e torna a prendere il suo posto sul sedile dietro. Io, quasi imbarazzata, salgo auto, prendendo posto nel sedile anteriore, dal lato passeggero.

«Sei dovuta arrivare te per farmi accompagnare a scuola da mio fratello» dice la ragazza, prendendo in giro il suo consanguineo. Il ragazzo,in tutta risposta, le rivolge una linguaccia prima di voltarsi verso di me e incantarmi con il meraviglioso colore dei suoi occhi.

«Buongiorno, piccola» mi sussurra Gabriele, lasciandomi un dolce bacio sulle labbra. Questa mattina non mi aveva ancora mandato nessun messaggio e, stupidamente, pur sapendo che l'avrei visto di lì a poco, ci rimasi male per non aver letto il suo nome sul display. Non pensavo che qualcuno potesse farti star bene con un solo messaggio: mai avrei pensato di sentire la mancanza di un semplice e scontato gesto come questo. Anzi, non pensavo di poter sentire la mancanza di qualcuno, a parte quella di Sebastian.

«Niente smancerie per favore. Vi ricordo che siete comunque mio fratello e lamia migliore amica» dice Claudia, facendo una finta smorfia di disgusto.

«Dovrai farci l'abitudine, sorellina» la canzona Gabriele, per poi lasciarsi sfuggire una lieve risatina da quelle labbra che sembrano disegnate.Io e Claudia ridiamo insieme a lui e, finalmente, ci avviamo a scuola.

Il conducente posa la sua mano sulla mia e non la lascia per tutto il tragitto: se c'è bisogno di cambiare marcia, porta la mia mano con se. Arrivati davanti scuola, il rombo della sua auto attira tutti gli sguardi su di noi e questo non fa altro che alimentare il mio disagio: ogni qualvolta che qualcuno mi fissa, non posso far a meno di pensare a tutte quelle volte in cui mi rivolgevano insulti e, alcuni, persino minacce. Già: dopo che Sebastian mi sorprese in bagno a rigettare, furibondo come non mai, mi urlò di smetterla di procurarmi il vomito. Quando notai i suoi occhi iniettati di sangue, m'impaurii e dispiacei al tempo stesso: lo avevo deluso e, per qualche motivo, a me chiaro solo oggi, mi dispiaceva. Mi dispiaceva vederlo tremolante, arrabbiato, schifato. Ma, appena i miei occhi guizzarono alle sue spalle, il dispiacere si tramutò in terribile paura: il caso volle che, a passare di li, furono proprio Greta e Miriam, le peggiori arpie della scuola. Loro sapevano il mio segreto e non avrebbero di certo esitato a distruggermi la vita. Sapevo benissimo che tipo fosse Greta e sapevo anche della gelosia che provava nei miei confronti, anche se non ne capivo il motivo. Di lì a poco, tutta la scuola venne a sapere della mia bulimia, compreso il preside che, allarmato, avvisò mio padre e mia madre: entrambi vennero a prendermi a scuola, immediatamente, e mi portarono via. Mancai per alcuni mesi e tornai al liceo solo al terzo anno inoltrato. Teresa e Massimo reputarono opportuno inserirmi in un centro di riabilitazione: loro non capivano quanto era stato difficile per me sopportare anni e anni di insulti, guardarsi allo specchio e vedersi perennemente grassa. Loro non sapevano il male che provavo appena riprendevo un solo etto, loro non sapevano degli allenamenti notturni, delle grandi abbuffate poi rigettate di nascosto. Loro non sapevano cosa volesse dire sentirsi perennemente uno sbaglio. Perché è questo ciò che mi ripetevo in continuazione: io sono un errore e gli errori devono migliorare, oppure essere fatti fuori e, in un certo senso, pensando di migliorare, non stavo facendo altro che uccidermi. Fui ricoverata per undici mesi e venti giorni: undici mesi e venti giorni in cui non ho avuto visite ne dai miei genitori né da Claudia; undici mesi e venti giorni di terapie, sedute collettive dove poter esporre il proprio problema con persone simili a te. Sedute singolari con psicologi e psichiatri, alimentaristi, medici. Undici mesi e venti giorni passati in totale solitudine: mentre gli altri pazienti interagivano tra loro, io volevo solo rimanere sola e cercare una via di fuga. Undici mesi e venti giorni: questo è il tempo che mi è servito per combattere la parte malata di me.

Spinsi il mo corpo verso il baratro, senza nemmeno rendermene conto. Lo maltrattavo e non m'importava: quello era l'unico dolore che riuscivo a sopportare bene, l'unico dolore che riuscivo a non sentire. L'unico dolore che, in un certo senso, mi faceva stare bene.

«Iris, tutto bene?» mi domanda Gabriele, interrompendo i ricordi, preoccupato per il prolungato silenzio. Lo guardo e gli accenno un flebile sorriso; solo ora mi accorgo che sto tremando e, gli occhi lucidi, sono appannati. Questo ricordo mi fa ancora male: dopo un anno non riesco ancora a controllare l'incessante bisogno psicologico di dover essere magra.Ho mentito a tutti e sono riuscita a illudere persino i medici, lo psichiatra, lo psicologo, il gruppo di sostegno, la mia famiglia, i miei amici, me. Sì, ho illuso anche me di essere guarita da una cosa così grave: mi sono ripromessa più e più volte di non infliggere così tanto stress e dolore al mio fisico eppure, anche se ho cambiato metodo, continuo a portarlo al limite. Continuo a cercare la perfezione che, probabilmente, nemmeno esiste. Ma a me sta bene così; non permetterò a nessuno, questa volta, di decidere per me.

«Sto bene, grazie. Mi... mi è solo girata un po' la testa. Probabilmente un calo di zuccheri» avviso, rivolgendo loro un sorriso forzato. Scendo dalla vettura e sento gli occhi di tutti addosso: come se volessero entrare dentro di me e sapere di più. Mi sento come se mi stessero spogliando e, questa situazione, non mi piace per nulla. Sento delle dita intrecciarsi tra le mie e le riconosco all'istante: Claudia. Mi volto verso la mia amica e, stavolta, le sorrido davvero: sa bene quanto disagio provi quanto le persone mi guardano, sa bene l'esperienza che ho passato, sa bene quanto quegli occhi, ora, mi stiano bruciando sulla pelle, a causa di un ricordo indelebile.

«Non ti guardano per lo stesso motivo di un anno fa, Iris. Tu sei forte, non crollare» mi sussurra la ragazza, posando un dolce bacio sulla mia guancia. Annuisco e, sorpassando il cofano, mi dirigo verso Gabriele per salutarlo.

«Ti vengo a prendere io, a dopo» dice e, le sue calde labbra, si posano sulle mie, dolcemente. Un mare di brusii s'innalza dal piazzale, gremito di studenti: Gabriele ha frequentato la nostra stessa scuola e, per molti studenti, lui era colui da imitare: bello, con una media scolastica alta, un'orda di ragazze al seguito che gli andavano dietro e un bravissimo giocatore di calcio. Secondo il professore, sarebbe potuto divenire un professionista ma, alla fine, scelse l'università.

«A dopo, piccola» dice lui, prima di prendere nuovamente posto in auto e sparire nel traffico mattutino che la nostra piccola città di provincia ci regala. Con la mano ben salda a quella di Claudia, ci facciamo spazio per arrivare al nostro solito punto e, ricordandomi del cornetto, lo divoro con ingordigia: 'Dovrò smaltire tutti questi grassi' penso, sentendomi in colpa.

«Quindi, tu e Gabriele Sannino, state insieme?» sento domandare alle mie spalle; non posso far a meno di riconoscere quella voce snervante: Greta. 'Io e Gabriele stiamo insieme? In effetti così sembrerebbe ma, non abbiamo ancora parlato di cosa siamo io e lui, in realtà.'

«E a te che interessa?» domando acida, prima di voltarmi e rivolgerle uno sguardo truce.

«Non mi sarei mai aspettata che, una malata come te, potesse far colpo su un ragazzo di cui in molte abbiamo un bellissimo ricordo» ammicca. Impallidisco dinnanzi questa affermazione: 'A cosa si riferisce?Gabriele è stato con molte ragazze? Compresa Greta? No, non è possibile. La voce si sarebbe sparsa ma, su di lui, non è mai uscito nulla di simile.'

«Comunque sono venuta qui per ricordarti che fra dieci giorni, c'è la mia festa» interrompe i miei pensieri. Mi ero totalmente dimenticata della promessa fatta a questa arpia: i giorni passati a cercare di non impazzire, mi hanno scombussolata del tutto. 'E ora che le dico?Sono giorni che non parlo e non vedo Sebastian. Negli ultimi due giorni non si è nemmeno presentato a scuola e, oggi, non mi sembra di vederlo.'

«Mi dispiace, ma non posso. Io e Sebastian non ci parliamo più.» Opto per la verità ma, a quanto pare, non sembra essere apprezzata: il candido volto lascia spazio al rossore, mettendo in evidenza una vena gonfia sulla tempia. Il suo sguardo omicida non lascia presagire nulla di buono; dopo qualche istante, però, il suo viso si distende in un'espressione rilassata e un ghigno si forma tra le labbra, incutendo un certo terrore per il cambiamento repentino:

«Iris, toglimi una curiosità: Gabriele è a conoscenza del tuo passato?» Sgrano gli occhi, deglutisco e, con tono esitante, le rispondo di sì. Lei mi guarda dalla testa ai piedi e, a mio malgrado, capisce che sto mentendo: lui, come molti altri, sanno che sono semplicemente partita per uno scambio culturale.

«Ti aspetto sabato prossimo alla mia festa, con Sebastian. Se così non fosse, sarei costretta ad avvertire Gabriele del tuo piccolo segreto» dice, prendendosi gioco di me.

«Ma che cazzo vuoi? Iris non c'entra nulla in tutto ciò! E tu, brutta stronza, non provare a dire nulla a mio fratello, o ti giuro...» interviene Claudia, poi bloccata dalla bionda:

«Cosa? Senti Sannino, tu stanne fuori se ci tieni a Matteo.» E così, lasciandoci entrambe lì, se ne va, seguita dalla solita fidata Miriam.

«La odio» proferisce la mia amica. 'E ora come faccio? Come posso convincere Sebastian a venire con me? Quale scusa m'invento? Ma, prima di trovare la scusante, dovrei sapere che fine abbia fatto, perché è sparito in questo modo. Domenica non si è nemmeno presentato alla consueta cena con le nostre famiglie.'

«Perché continua a incasinarmi la vita?» urlo, in un impeto di frustrazione e rabbia.

«Chi?» chiede una voce fuori campo: mi volto e trovo Matteo, già avvinghiato a Claudia.

«Nessuno, nessuno» rispondo cupa.

La campanella suona e mi affretto a entrare: 'Voglio solo che questa giornata finisca.'

Le prime ore terminano in fretta, dopo la ricreazione, passiamo due ore a svolgere la verifica di matematica che, a me, risulta davvero facile. Conclusa l'ora, entra in classe il professore di diritto, seguito da quello di educazione fisica.

«Ragazzi, ho un annuncio da farvi: a Gennaio inizierà il torneo scolastico di pallavolo, quello di basket e, infine, quello di calcio. Per chiunque voglia partecipare, sono aperte le iscrizioni. La prossima settimana ci sarà la selezione e, chiunque entrerà in squadra, avrà dei crediti extra. Ovviamente, mi rendo conto che sia un grande impegno in quanto, tra due settimane, inizieremo l'allenamento che si svolgerà ogni giorno dopo l'orario scolastico.» Mi acciglio al pensiero di non poter partecipare: ricordo che, in primo superiore, riuscii a entrare nella squadra di pallavolo, con la quale arrivammo secondi. Mi divertii tanto e, in fondo, come sport non mi dispiaceva.

«Iacoangeli, quest'anno sarai dei nostri?» mi domanda Carruccio, l'alto uomo dai capelli brizzolati, gli occhi nocciola e un fisico davvero allenato.

«Purtroppo professore, sono in punizione fino la fine dell'anno» rispondo amareggiata.

«Non preoccuparti: se volessi entrare a far parte della squadra, la tua punizione cesserebbe all'istante. Ne ho già parlato con il preside e lui ne è d'accordo» mi rallegra il professore. Un sorriso squarcia il volto poco prima triste e, energicamente, muovo la testa su e giù. Mi sorride di rimando e penso che, da oggi in poi, non passerò più il mio tempo con il figlio del diavolo. Da una parte sono sollevata,perché non facciamo altro che ferirci a vicenda, ma dall'altra, non posso far a meno di sentire il mio cuore che dice: 'Hai bisogno di lui per aggiustare i cocci dentro di te.' Scaccio via questo pensiero e mi affretto a mandare un messaggio a Gabriele:

-Da oggi in poi, niente punizione. Ci vediamo tra poco?- Premo invio e inizio a seguire la lezione. Alla fine di essa, ripongo tutto nello zaino, ordinatamente e mi appresto a vedere il telefono: nessuna risposta. Mi sembra davvero strano, perciò chiedo a Claudia se va a casa ma la sua risposta è negativa: dopo scuola esce con Matteo.Annuisco e mi rassegno all'idea di prendere l'autobus in totale solitudine. Scendo le scale e, sovrappensiero, sbatto contro qualcuno, per poi colpire il muro dietro di me. Appena mi riprendo, alzo gli occhi e, per un secondo, mi manca il respiro: lui è qui, con gli occhi cerchiati di nero, il ciuffo scompigliato, le labbra screpolate, lo zigomo tumefatto. Ha un aspetto davvero orrendo e il suo profumo sembra mischiato all'odore di alcool. Gli occhi son persi, spenti. L'espressione dura non lascia trapelare nulla, nessuna minima emozione, sempre che ce l'abbia. Non somiglia al Sebastian di quella sera, non sembra quel ragazzo bisognoso di aiuto, del mio aiuto. Ha rimesso la corazza al suo posto, più impenetrabile di prima. Ha rimesso ogni pezzo di sé al suo posto ed è tornato a farmi male, senza nemmeno parlare. Perché il suo sguardo assente, il suo fare da ragazzo primo di emozioni nei miei confronti, fa più male di colui che, qualche notte fa, mi chiese di lasciare tutto per provare a essere noi.

«C-cosa...» non faccio in tempo a domandargli nulla, che scappa su perle scale. 'Cosa gli è successo? Cos'ha fatto per ridursi in quel modo? Oh, Sebastian, anche tu non hai dormito a causa mia, a causa nostra? Anche tu hai cercato di non pensare a nulla, facendo cose sbagliate?' Amareggiata, esco da scuola, varcando l'imponente cancello metallico.

«Eccoti, pensavo ti avessero rapita» dice, Gabriele: alzo lo sguardo e sono sorpresa di vederlo lì. Non mi ha risposto al messaggio; forse voleva farmi una sorpresa. Gli corro in contro e lo abbraccio forte,beandomi di lui, del suo profumo, della sua presa salda e decisa, ma delicata al tempo stesso.

«Ti sono mancato?» domanda, accompagnato da una risata sarcastica.

«Non pensavo di trovarti qui, non hai risposto al mio messaggio» rispondo, arrossendo visibilmente, mentre mi stacco da lui.

«Scusa, volevo farti una sorpresa» dice, per poi posarmi un bacio casto sulle labbra.

«Grazie» rispondo, prima di entrare in auto.

«Allora, cosa vuoi fare oggi?» domanda, mettendo in moto e prendendomi permano. Mi piace quando, con questi piccoli gesti, mi fa sentire importante per lui.

«Qualsiasi cosa, basta che stiamo insieme» ammetto a lui e a me stessa, presa da una vena di coraggio che non fa parte di me. L'importante è passare il tempo con questo ragazzo perché, da quando è entrato a far parte della mia vita, mi rendo conto che ogni attimo passato assieme, mi fa stare bene. Mi sorride e Dio, quanto mi piace quandolo fa, quanto mi piace quando, consapevole, mi riempio gli occhi di quelle labbra incurvate in su, dedicate solo a me.

Senza parlare, ci dirigiamo verso l'Eur, una zona non molto distante dal centro di Roma: dopo circa venti minuti, tra chiacchiere, canzoni cantate a squarciagola e risate, Gabriele parcheggia la macchina dinnanzi il McDonald's.

«Purtroppo i ristoranti sono chiusi a quest'ora» dice lui, cercando di giustificare l'umile posto. Ma a me non interessano i bei ristoranti, il lusso, i soldi: a me interessa la mascella dolorante a causa delle risate, i piccoli gesti, le carezze, gli occhi pieni di me.

«Non preoccuparti, va benissimo» lo rincuoro. Scendiamo ed entriamo: ad accoglierci alla cassa troviamo una ragazza dai lunghi capelli ramati, raccolti in una perfetta coda di cavallo e due occhi nocciola, contornati da una spessa linea di matita nera,perfettamente vestita con la divisa del locale. Sulla targhetta appuntata sopra la camicia bianca, posso leggere il suo nome: Elisabetta.

«Salve, ragazzi. Cosa volete ordinare?» ci domanda, rivolgendo a Gabriele tutta l'attenzione, accompagnata dal sorriso smagliante. Il mio accompagnatore si volta verso me e, in un sussurro, mi domanda cosa voglia.

«Per me un'insalata con petto di pollo alla griglia e una bottiglietta d'acqua naturale» dico, guadagnandomi una strana occhiata da parte della cassiera. 'È così strano non rimpinzarsi come un maiale in questo locale?'

«E per lei?» domanda Elisabetta, con occhi sognanti: sono sicura che se Gabriele le chiedesse di togliersi le mutandine in questo momento, lei lo farebbe e questo non fa altro che alimentare la mia rabbia. Prendo la mano del ragazzo al mio fianco e passo il braccio sulle mie spalle: la nostra differenza di altezza sembra essere perfetta. Rivolgo uno sguardo assassino alla gallina che ho dinnanzi, per farle capire che questo è il mio territorio. Lui, lasciandosi scappare una risatina dovuta alla situazione, ordina un crispy mcbacon menù.

La ragazza, sbuffando, ci prepara i vassoi e, prima di allungarmi il mio, mi rivolge uno sguardo truce: 'Deve bruciarti, stronza!' Io e Gabriele ci sediamo ai tavolini fuori, lontano dallo sguardo di quella ragazza, per mio volere.

«Sei gelosa, piccolo fenicottero?» mi domanda, per poi mettere in bocca una patatina. Avvampo e, distratta da quella domanda, lascio cadere la bustina contenente l'olio. Una chiazza si espande sopra il jeans chiaro, sulla coscia, e impreco contro me stessa per la disattenzione che, alla fine, mi farà buttare uno dei pantaloni che più indosso e che più mi piace.

«Aspetta, ti aiuto io» dice Gabriele, imbevendo un fazzoletto dell'acqua presa prima. Posa la carta e tampona, cercando così di non ridurre il quadrato in piccole briciole. Il suo tocco mi fa sussultare: è così vicino alla mia intimità che mi crea disagio. So per certo che nel suo gesto non vi è malizia ma, inconsciamente, la mia mano è già sulla sua, pronta a toglierla di lì. I suoi occhi cercano i miei che lasciano trasparire imbarazzo. Appena capisce il perché del mio gesto, le sue gote si colorano e, chinando il capo, biascica:

«Iris, io non volevo, sai... Volevo solo aiutarti.» Sorrido per l'ingenuità che un ragazzo della sua età riesce a tirar fuori quando meno te lo aspetti:

«Lo so, Gabriele» lo rassicuro. Non v'era malizia, non c'era lo scopo di andare oltre; c'era solo la voglia di aiutare, di aiutarmi, come sempre.

Mangiamo, buttiamo via i vassoi e, inaspettatamente, il ragazzo vicino a me mi prende per mano e propone di andare a passeggiare lungo il laghetto posto ai piedi del locale. Accetto e lo seguo, mano per la mano, in silenzio per qualche minuto: mi godo il verde che ci circonda, la vista di alcune persone che fanno canottaggio, mentre altre sono distese sul verde prato ben curato. Alcuni danno da mangiare ad anatre e cigni, altre giocano a pallone, altre ancora si baciano.

«Sai, oggi il professore di educazione fisica mi ha chiesto se quest'anno parteciperò al torneo di pallavolo. In cambio otterrò dei crediti extra e la fine della punizione» gli racconto, cessando il silenzio.

«Hai accettato?» mi domanda. Questa è un'altra cosa che mi piace di lui: non da per scontato il fatto di conoscermi, non da per scontata ogni mia decisione, parola, reazione.

«Ovviamente» rispondo.

«Allora verrò a vederti e a fare il tifo per te» dice lui, cingendomi la vita con le braccia, prima di attirarmi a sé e posarmi un dolce bacio sulle labbra: non ha mai provato ad approfondire il bacio, non mi ha mai forzata. Sta lasciando che sia io a prendere le decisioni, sta lasciando che sia pronta. Non sta correndo, proprio come gli ho chiesto. La passeggiata continua ancora per un tempo indeterminato finché, in lontananza, non vedo un grande cartello con sopra una ruota panoramica, abbellita da due enormi occhi giganti.

«Ha riaperto il Luneur!» grido entusiasta, mentre batto le mani come una bambina piccola: quando avevo otto anni, mi piaceva da impazzire andare a quel luna park e, ahimè, quando lo chiusero, mi rattristii molto. Ero solita andarci ogni weekend con mio padre e, quando poteva, anche mia madre. Passavamo gli interi pomeriggi a girare tra quelle giostre poste su un ampio terreno polveroso. Non m'importava di sporcarmi le scarpe chiare o di sentire la terra bruciare negli occhi. Mi importava solo divertirmi, ridere e avere paura. Già, la casa degli orrori era la mia giostra preferita: ricordo che all'ingresso vi era un signore vestito da prete: teneva una copia della Bibbia in mano, mentre con l'altra, ci rivolgeva il segno della croce. La prima volta che vi entrai, piansi per tutto il tragitto:l'uomo con la motosega fu quello di cui avevo avuto più paura.

«Vuoi andarci?» mi domanda Gabriele, sorprendendomi. Non posso far a meno che abbracciarlo e gridare tante volte un sì.

Torniamo alla sua auto e, con un sorriso stampato in volto, mi appreso a mettere la cinta: sono ansiosa, emozionata e non vedo l'ora di arrivare al Luneur. Non vedo l'ora di vedere com'è cambiato, se ci sono nuove attrazioni, o se è rimasto tutto uguale; bhe, una cosa già non è come l'ho lasciata: la ruota panoramica. Quella che ricordo io, era semplice, con il dondolo che, una volta raggiunto il picco massimo d'altezza, dondolava freneticamente. Ora, invece, su di un lato vi sono due grandi occhi e, al posto dei dondoli, vi sono delle cabine tutte colorate o, almeno, così si è visto sul cartellone. Accende l'auto e partiamo, immettendoci su via Cristoforo Colombo: il traffico è sempre presente e i semafori non aiutano a smaltirlo: ho sempre odiato questo breve tratto che mi divide dal parco divertimenti. Proseguiamo e, appena svoltiamo per la strada del luna park, la grande ruota panoramica fa la sua entrata in scena: è uguale a quella della locandina e non posso far a meno che allargare il sorriso sul mio volto.

«Eccola, eccola!» urlo, indicando il grande cerchio. Gabriele mi guarda e ride: ma non per prendermi in giro; credo sia più una risata divertita, divertito da questo mio essere bambina. In pochi minuti parcheggiamo e ci accingiamo ad andare all'entrata: un botteghino piccolissimo è posto in linea al cancello. Dentro si trova la stessa signora di parecchi anni prima, solo un po' più invecchiata, con qualche filo argenteo tra i capelli neri, gli occhi blu più spendi e qualche ruga in volto a farle compagnia.

«Buonasera» la saluta il mio accompagnatore.

«Salve. Due biglietti?» io annuisco e, appena paghiamo, la signora ci consegna i ticket per l'entrata. Afferro la mano di Gabriele e guizzo dentro, correndo come una fuggitiva, in cerca dello speed. Quando lo individuo, mi affretto ad avvicinarmi all'entrata e, un uomo barbuto, ci guarda divertiti prima di farci salire: non deve essere abituato a tutto questo entusiasmo da parte di un'adolescente.

Saliamo, occupiamo i primi due posti e, una volta calata la barra metallica a fare da protezione, il segnale acustico parte, facendo il conto alla rovescia: ho il cuore in gola, l'ansia a mille e, appena parte, un gridolino esce incontrastato dalle mie labbra. Era da tanto tempo che non mi sentivo così felice e spensierata e, grazie al fantastico ragazzo che ho qui al mio fianco, oggi mi sento... libera. Libera da ogni brutta emozione, da qualsiasi malvagio pensiero. Libera di ridere, gioire, emozionarmi; libera di essere me stessa agli occhi di qualcuno.

Passiamo il resto del pomeriggio a provare ogni giostra esistente, finché non arriviamo alla casa degli orrori: è peggio di quanto me la ricordassi.

«Sei pronto per un po' di paura?» domando a Gabriele, ammiccando.

«E tu sei pronta?» risponde lui, ammiccando a sua volta.

«Io sono nata pronta» rispondo, gonfiando il petto poco sviluppato, fiera e spavalda della mia convinzione. All'ingresso, c'informano che molte cose sono cambiate e che vi sarà un vagone a trasportarci. Un po' di delusione s'insinua in me ma entro comunque. Ci sediamo nel primo vagone a forma di bara e iniziamo quest'avventura lungo la casa. Entriamo nella prima stanza e, subito, ci troviamo difronte un vampiro che cala dal tetto: non posso far a meno di sussultare. Nella seconda stanza, il vagone si ferma e un uomo c'invita a scendere: pochi attimi dopo sentiamo il rumore di catene trascinate, ci voltiamo e troviamo la figura di un prigioniero che impugna un'ascia. Stavolta non riesco a trattenere un gridolino e, ascoltando il signore che ci ha fatti scendere dalla bara, corriamo verso la prigione, rincorsi dal prigioniero, per poi chiuderci la porta sbarrata alle nostre spalle. Il pavimento sotto di noi inizia a tremare per poi muoversi e portarci verso l'alto. Nella terza stanza, possiamo benissimo sentire dei colpi: apriamo la porta di legno che ci si para davanti e, in un istante, la figura del macellaio ci si para davanti: tiene stretta in mano un'ascia, con la quale sta lacerando un corpo umano. Io e il mio compagno ci guardiamo attorno, cercando una via di fuga ma, veniamo distratti dal rumore di una motosega: il tizio con una maschera in volto, somigliante al protagonista di 'Non aprite quella porta', corre verso di noi. Noi ci spostiamo e, voltandoci, vediamo che la sua motosega è incastrat anella porta di legno.

«Ma è pazzo? E se non ci fossimo spostati? Iris, cerchiamo subito l'uscita!» grida Gabriele. In effetti, la vista di quella scena, mi ha messo abbastanza paura. Continuiamo a cercare una porta, ma sembra una stanza chiusa, senza via d'uscita. L'uomo fa leva col piede per cercare di estratte la motosega dal legno e manca davvero poco perché ci riesca. Guardo quel tavolo e la scena non è delle migliori: membra fuoriuscenti ricoprono il tavolo: so bene che è tutto finto, ma la visione mi disturba lo stesso. Poi, l'occhio, finisce su una piccola botola posizionata al di sotto del tavolo.

«Gabriele, qui!» grido, prima di tirare il maniglione. Riesco ad alzare la piccola porta sul pavimento e, in fretta e furia, ci infiliamo al suo interno. Un odore acre s'insinua nelle narici e un senso di nausea ci pervade:

«Ma cos'è?» domanda Gabriele. Siamo completamente al buio, devo trovare una fonte di luce: a tastoni, tocco il muro e, dopo alcuni secondi, riesco a trovare l'interruttore. Sento qualcosa afferrarmi saldamente il piede, trasalisco e, appena vedo lo zombie, urlo. È così malconcio e puzzolente che sembra reale. Ci guardiamo attorno e per terra vi sono quelli che sembrano membra umane, topi veri chiusi in gabbie e telecamere ovunque:

«Sembra il set di un film dell'orrore» dico, avvicinandomi a Gabriele: ho paura. Nonostante sia tutto finto, ho paura. Lui mi stringe forte a se e, scrutando i dintorni, nota che la porta si trova proprio dietro uno degli zombie.

«Pensavo fosse una casa dell'orrore, non una escape room» canzona lui,trovando impossibile uscire di lì.

«Escape room! Ci andiamo questo week end?» esulto io, evidentemente eccitata da quella proposta, non staccandomi da quell'abbraccio.

«Certo, piccola. Ma adesso pensiamo a uscire da qui» dice. Si allontana da me e corre dalla parte opposta la porta, in modo da farsi seguire dallo zombie. Capendo le sue intenzioni, corro verso la porta, afferro un pezzo di metallo e inizio a sbattervi contro, conquistando l'attenzione del personaggio. Lo vedo che corre verso di me e, quando è oramai vicino, chiudo gli occhi: nessun contatto, solo cattivo odore. Apro lentamente le palpebre e lo vedo a pochi centimetri da me: non riesce a raggiungermi, la catena è troppo corta. Gabriele avanza lentamente e, poi, un colpo di genio: indico a Gabriele di fare silenzio e di rimanere immobile; lancio il pezzo metallico lontano e, il rumore, fa scattare l'attore in quella direzione, lasciando libero il passaggio per il mio compagno. Appena apriamo la porta d'acciaio, un rinfrescante venticello ci accarezza la pelle e, l'uomo che v'era all'entrata, ci dice:

«Non ho mai visto nessuno usare l'astuzia per uscire dalla casa degli orrori. Di solito si godevano la stanza e poi gli attori li facevano passare.» Noi sorridiamo e lo congediamo con un saluto.

«Allora, ti sei divertita?» mi domanda, Gabriele.

«Moltissimo. Peccato che sia quasi ora di tornare a casa» ammetto, davvero dispiaciuta.

«Non prima di averti portata sulla ruota panoramica» asserisce lui, prendendomi la mano e avviandoci alla grande ruota. Una volta lì, prendiamo posto nella cabina gialla, ci sediamo uno vicino all'altro e ci godiamo la salita. La sua mano tiene salda la mia e, mentre ci eleviamo, noto che il sole stra tramontando: poche sono le volte in cui ho visto uno spettacolo simile.

«Gabriele, guarda che bello» lo intimo, guardando fuori. Non sento risposta e, voltandomi, lo trovo a fissarmi, con un lieve sorriso sul volto.

«Cosa c'è?» domando.

«Sei bellissima, Iris» mi dice, prima di baciarmi. Sento mancare il fiato a quel contatto: non è come gli altri, non è un semplice tocco. Sento un formicolio nello sterno e, quando si stacca da me, non sono contenta, non sono appagata. Voglio terminare questa giornata nel migliore dei modi: poso una mano sulla sua guancia e mi accanisco contro le sue labbra: prendo tra i denti il suo labbro inferiore, tenendo ben saldo lo sguardo nei suoi occhi che, al mio gesto, appaiono sorpresi. Sorrido mentre torturo quel suo pezzo di carne: non ci vuole molto affinché le nostre lingue s'incontrino. Ha un sapore davvero buono e questo bacio è proprio come l'ho sempre immaginato: dolce ma sensuale al tempo stesso. Mi avvicino di più e lui, sorprendendomi, mi fa sedere sulle sue gambe, in modo composto: una mano mi tiene da dietro la nuca, mentre l'altra è poggiata sul ginocchio. Lo sento desiderarmi, ma non in modo animale, non selvaggiamente. Gabriele è dolce, anche in un momento così intimo. Dolce ma non noioso, dolce ma non scontato. E , all'apice dell'altezza, con il tramonto sullo sfondo, io e Gabriele ci scambiamo il nostro primo, vero, bacio.

°Spazio autrice°

Ciao a tutti e benvenuti in un nuovo capitolo! Allora, cosa ne pensate? Vi è piaciuta la giornata trascorsa tra Gabriele e Iris? E il loro primo, vero, bacio? Che fine ha fatto Sebastian? Perché era ridotto così male? Lo scoprirete più avanti :)

Vi ricordo che se avete delle domande per i personaggi, potete farmele qui sotto e, raggiunto un certo numero, farò un capitolo apposito per rispondere.Inoltre vi aspetto su Instagramyouaremysmile07dove ci saranno aggiornamenti e piccoli spoiler sui nuovi capitoli.Come sempre, se il capitolo vi è piaciuto, fatemelo sapere lasciando un commento e una stellina ⭐

~A presto~

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