3. Il fardello

Quell'aggrovigliato e indistricabile garbuglio di pensieri rendeva ormai la mia mente sempre oppressa dalla tristezza; come un mal di testa perenne che non vuol passare neppure con una dose di paracetamolo, fisso e greve.

Sentivo di dover farmi carico di quel peso tutta da sola: alla gente non importa il tuo dolore e coloro cui importa restano spesso lì a fissarti, come se fossi un'orribile creatura che non riconoscono più. Inizi solamente a pensare di costituire un fardello.



10 Ottobre: di parecchi anni dopo.

La relazione fra due giovani amanti era trascorsa tra vari momenti degni di nota: il diciottesimo di entrambi, la maturità, attimi di idilliaci baci scambiati al tramonto del sole sulla spiaggia, festività passate assieme e sette anniversari di noi.

Quella giornata era apparso il sole a schiarire il cielo nemboso. Ho sempre trovato affascinante come alle volte l'esosfera racchiuda espressioni delle proprie emozioni.

Erano stati giorni assai fragili, tanto da essere stati frantumati da forti litigi che avevano portato a un'ulteriore rottura, la nostra. Mai vi era stato litigio più grande: noi non eravamo fatti per i disaccordi, eppure quelle giornate si riempirono di diverbi.

Il tempo passa, le persone maturano e con esse i bisogni, i progetti, i desideri.

"Il mio sarebbe un lavoro, perché non te lo vuoi mettere in testa?!" sentenziò lui all'apice del suo controllo di nervi. "Per essere definito tale dovresti quanto meno guadagnarci dei soldi", silenzio e occhiatacce interruppero quello scambio di battute.

"Sto firmando un contratto, un contratto con una casa discografica: è un lavoro!" mi inveì contro lui.

"Un contratto che non ti da alcuna garanzia di successo, stai semplicemente andando a incidere un disco di cui non hai alcuna garanzia di vendita, lo capisci? Continui a prendere tempo, a giocare a fare il musicista, io non posso stare qui ad aspettare che tu capisca che è il momento di rimboccarsi le maniche".

"Ma che ti pare che io stia giocando? L'etichetta distribuirà alcune delle copie prodotte, le altre le venderemo noi del gruppo, privatamente".

"A chi? A tua mamma, la zia e forse qualche amico? Chi vuoi che ve lo compri?" detti per tutta risposta.

"Tu non capisci proprio niente. Dovresti essere felice per me, che sto facendo qualcosa che mi piace, dovresti incoraggiarmi, sostenermi e invece mi fai solo problemi".

"Starai dei giorni fuori, lontano! Non te ne importa niente se intanto io starò qui da sola ad aspettarti, mi lasci sola e non ti importa" scoppiai in lacrime.

"Ma si tratta di qualche giorno. Basta, tanto non vuoi capire". Quella frase mi fece uscire di senno, ero frustrata per questa sua decisione: "Devi smetterla di giocare a fare il musicista, stai spendendo molto denaro per incidere un disco e non verrai neppure pagato. Scegli questa strada perché è la più semplice. Rimboccati le maniche e vai a l-a-v-o-r-a-r-e. Questo dovrebbe essere il tuo piano B, una passione, un hobby, non la tua scelta primaria, ma di base dovresti avere il piano A: un lavoro solido su cui fare affidamento, poi nessuno ti vieterebbe di lasciarlo se la musica ti portasse nella direzione sperata".

"Basta, sono stanco. Non voglio più parlarne". Quella frase segnò la fine di quel bisticcio che andava avanti da giorni e giorni.

Ciò che non voleva capire è che io fossi stanca di non vederlo attivarsi nella ricerca di quello che io consideravo un vero lavoro, remunerato, per far fronte a delle spese che avrebbero portato alla maturazione della nostra relazione o almeno, questo era ciò che speravo io. Volevo una convivenza assieme, volevo che il profumo della sua pelle fosse la prima cosa che aleggiasse al di sopra del letto a ogni mio risveglio. Desideravo una vita con lui, di dormire accanto, serena, cullata dalle sue braccia; lì a scomporre e ricomporre la mia realtà; lì a ispirare ogni mio presente come voglia di vivere poiché guardandolo mi avrebbe motivata e mi avrebbe spinta a essere felice e a renderlo felice, come un Noi.
Lui voleva lo stesso?
Non lo dimostrava e se ne facevo richiesta non arrivava mai una vera risposta.
Iniziai a dubitare di tutto, questo portò solo all'inevitabile rottura.
Non potevo accettare che lui, ormai in età più che matura, continuasse a insistere su qualcosa di incerto; non riuscivo a pensare di vivere di quattro spiccioli fatti dalla vendita di un disco.
Quando gli chiedevo cosa avrebbe voluto fare poi, dopo il disco, mi diceva che si sarebbe voluto esibire nei bar, nei locali che l'etichetta avrebbe proposto a lui e il suo gruppo.
Gli chiesi se stare in giro per i paesi, sopra un pulmino, vivendo alla giornata, il ché avrebbe comportato pure una lontananza quasi perenne da me, fosse veramente ciò che desiderasse. Rispose che gli facesse schifo. Non riuscii a capire dunque, come pensava di fare il musicista.

Dovevo vivere con l'incertezza?
Quell'idea non mi piaceva per niente, volevo una base solida.
Ci lasciammo per quello.
Le divergenze di pensiero erano troppe e di quelle discussioni ne avevamo avuto abbastanza.

La separazione era dolorosa per entrambi, i sentimenti in fondo non erano cambiati e la parola fine sembrava troppo forte.

Scrissi un messaggio.
- Dunque è davvero finita?
Quasi subito arrivò la sua risposta:
- Non lo so.

Quella risposta fu un boccone amaro. Non era un "sì" tuttavia non negava neppure un "no".
Una lacrima discese dal mio occhio sinistro. Si dice che quando una persona piange, se la prima lacrima cade dall'occhio destro è per felicità; dal sinistro, per disperazione.

Le dita presero a digitare compulsivamente lettere sulla tastiera del cellulare dettate da una paura folle che non volevo accettare.
- Vuoi che ci vediamo?
Attesa che parve infinita.
- Va bene, ti vengo a prendere tra un'oretta.

Un'oretta abbondante dopo:
-Arrivo.

Non nego di essere stata agitata. Non nego di aver avuto un'ansia crescente. Non nego che il mio cuore battesse così forte da temere che di colpo si inceppasse e finisse di muoversi.
Salii in auto.
Il tragitto fu accompagnato dal silenzio e il mio sguardo era diretto fuori dal finestrino. Nonostante fosse Ottobre, il tepore dei raggi solari si posava sulla mia pelle. Indossavo gli occhiali da sole; sinceramente non per proteggermi gli occhi, più per nasconderli. Non volevo che vedesse quanto fossero zuppi.

La solita piazzola.
La chiamano "la piazzetta degli innamorati" perché le coppie son solite fermarsi lì, in quel parcheggio che ha di fronte la vista meravigliosa di insenature scoscese che discendono fino al mare, a tenersi per mano e sbaciucchiarsi. Vi è anche un cartello circolare con il disegno di una giovane coppia che si scambia un bacio con su scritto "kiss me, please".
Il terreno adiacente, ha delle panchine che circondano una struttura metallica a forma di catenaccio con serratura a corredo, l'assessore alla sua costruzione disse: "un modo per conservare ciò che non vogliamo venga intaccato e una chiave per aprirci a nuove possibilità".

Fu proprio quello che accadde quel giorno a noi.
Lui mi cinse con le sue braccia e mi strinse a sé, io scoppiai a piangere in pianto liberatorio, nessuna nuvola all'orizzonte, solo il sole di una giornata in Ottobre e un bacio che ci unì nuovamente come coppia.

"Inciderò comunque il disco, poi dirò loro che non farò più parte del gruppo".

Egoisticamente mi sentii rasserenata da quelle parole, non perché non volevo che lui suonasse, è sempre stato ciò che più amato di lui. Sentivo, però, che quelle parole significassero ben altro.
Non sapendo che quella sarebbe stata una ferita che non avrebbe mai avuto modo di rimarginarsi in lui e un giorno, presto o tardi, sarebbe riemersa perché conservata come un fardello.

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