Capitolo Tre.

Avevamo lasciato Forte dei Marmi alla volta di Firenze. Abitavamo in un appartamento grande e luminoso, nella zona di Piazza d'Azeglio. Betti aveva due amiche: Chiara e Gioia.

Chiara era una bambina molto tranquilla, respirava rumorosamente a causa delle adenoidi; usava gli occhiali per studiare, viveva nella casa accanto alla nostra, ma la sua era una piccola abitazione di campagna, dalla quale si capiva che fino a qualche anno fa, quella zona di Firenze fosse stata una realtà contadina. Il padre di Chiara era meccanico, lavorava in un'officina sotto casa, in quello che prima doveva essere stato un fienile. La madre era di Trieste e allevava i polli tenendoli alcuni in un angolo del giardino, altri chiusi nelle gabbie. La donna preparava loro un pastone giallo che puzzava di pesce. Lungo la ringhiera delle scale in pietra per salire in casa, si trovava sempre qualche gallina morta, appesa per le gambe legate alla parte in ferro della ringhiera.

Gioia era l'ultima di quattro figli. Suo padre faceva il medico di campagna; nel '47 aveva abbandonato moglie e figli, trasferendosi a Roma con una sua cliente, della quale si era innamorato. Nel '49 ella morì di un tumore alla gola e il padre di Gioia, con l'aiuto di parenti e di un frate della chiesa di San Francesco, dove la moglie era solita recarsi la domenica alla Messa, si riunì alla famiglia. Da questo ritrovato amore nacque nel '50 Gioia, adorata dal padre, mal sopportata dalla madre, odiata dai tre fratelli.

Spesso loro tre studiavano nella piccola cucina di Chiara. La sua gatta Briciola, adesso era chiamata Briciolona, essendo diventata una gatta obesa, stava quasi sempre a dormire accovacciata su una sedia, vicino alla finestra. Io mi sistemavo sulle gambe di Betti, la quale assieme alle sue due amiche, facevano i compiti. Si sentiva il lieve rumore dei pennini sulla carta dei quaderni; Betti voleva usare solo quelli a torre. Annusavo l'odore dell'inchiostro, quando venivano aperti i piccoli calamai. Anche io imparavo le tabelline e anche io odiavo le divisioni con la virgola. Ogni tanto dovevano studiare una poesia, facendo a gara a chi l'avesse imparata a memoria per prima. La madre di Chiara che si chiamava Isola, sfaccendava per casa e alle cinque del pomeriggio accendeva la televisione: una scatola  nella quale si vedevano immagini brutte, come le avventure di cani antipatici che si chiamavano Rintintin e Lassy.

La donna batteva il manico della scopa per terra tre volte. Dopo qualche minuto nella calda cucina, entrava un ragazzino che indossava una tuta blu tutta sporca del grasso dei motori delle automobili, macchiata di olio; anche lui guardava la televisione facendo merenda con pane olio e sale, a volte anche con il pomodoro strusciato oppure pane con vino rosso e zucchero.

Quando il tempo lo permetteva invece, scendevamo tutti giù in giardino, allora si che io e Briciolona ci divertivamo a intrufolarci tra i pulcini che ci camminavano sopra facendoci il solletico; oppure ci arrampicavamo sull'albero di fico e da lì osservavamo il mondo sotto di noi.

Le bambine giocavano a rincorrersi; facevano il gioco della settimana saltando sopra a dei numeri disegnati per terra; cantavano filastrocche; saltavano la corda, facevano le gare con

l'ulaop; quando erano stanche si sdraiavano sull'erba osservando le bianche nuvole in cielo."Un coniglio!"

"Dove Chiara'!"

"La nuvola laggiù Gioia! E' un coniglio!" In ogni nuvola vedevano qualche immagine e aspettavano che il vento muovendole, deformandole, le modificasse magari in qualche altra cosa.

"Oggi è stata l'ultima volta che sono venuta a scuola."- annunciò Gioia - La maestra non mi vuole più vedere, dice che sono troppo vivace, così mi manderanno dalle suore. Mamma voleva mettermi nella classe dei bambini difficili, ma papà ha detto che non sono difficile."

"Non ci vedremo più?"chiese Betti.

"Non lo so! Mi mandano dalle suore, quelle con il cappello grande grande che mi fanno tanta paura."

FLASHBACK

Elia aveva trovato lavoro presso la casa Editrice La Rosa. Lina si occupava della casa e sperava di diventare madre. Preparava il corredino per il futuro nascituro, anche se ogni mese aveva la delusione di non essere incinta, usando lane dai colori tenui come il giallino o il verdolino chiaro: tinte che andavano bene sia a un maschietto che a una femminuccia.

Dopo cena suo marito si accomodava sulla poltrona davanti alla radio, fumando una sigaretta e con la cagnolina Lola accucciata ai suoi piedi.

L'11 Dicembre del '37 Mussolini annunciò dal balcone di Palazzo Venezia, l'uscita dell'Italia dalla Società delle Nazioni, discorso che fu trasmesso dalla radio.

Elia imitava il Duce, la sua gestualità, stando in piedi davanti a Lina che rideva.

"Lo rifai uguale, ma lui è più bello di te."

"Certo! Preparati che ti porto al cinema, così vedi il tuo cavaliere nel cinegiornale."

"E' il Duce di tutti!"esclamò la donna ridendo.

Lina adorava le commedie come"Mille lire al mese"e "Teresa venerdì". Le piacevano gli attori:Amedeo Nazzari, del quale Elia era un po' geloso, perchè lei non lo guardava mai come osservava l'attore durante i primi piani. Aveva anche un debole per Fosco Giacchetti-Rossano Brazzi, Gino Cervi, invece era gelosa di Alida Valli ammirata particolarmente da Elia.

"Pare che sulla nostra famiglia sia calata una maledizione." sospirò un pomeriggio Elisabetta, stando seduta sulla sedia; le sue mani stringevano i manici della grande borsa che teneva sulle gambe.

Lina facendo un veloce segno della croce rispose:

"Cosa dici? Porta male parlare in questo modo!"

"Mamma ha perso un figlio giovanissimo nella grande guerra ed è morta a causa della sua decima gravidanza.-proseguì Elisabetta-Nostra sorella Vincenza ha un figlio del quale non ha voluto saperne niente una volta partorito, così Dio l'ha punita facendole morire la nostra adorata Virginia di cancro."

"Non pronunciare quella parola Elisabetta, non devi."

"Ma per favore, dico le cose come stanno e le chiamo con il loro nome! Ma quale "male là"! Si chiama cancro."sbottò la donna.

Lina, che stava stirando, appoggiò il ferro a scaldare sulla fiamma del fornello, prendendone un altro caldo. Le due donne parlavano nel dialetto milanese.

Elisabetta continuò:

"Io ho avuto la sventura di sposare un uomo sterile, tu prepari il corredino e ancora niente."

A Lina le venne da piangere.

"Prima o poi rimarrò incinta!" esclamò.

"Adesso ti confesso un segreto, ma non deve saperlo nessuno ."

Elisabetta dicendo così,si era alzata in piedi e stava abbracciando la sorella.

"Certo che resterai incinta tesoro! Allora, vuoi sapere questo segreto? Il figlio di Vincenza lo abbiamo cresciuto io e Pietro, per questo siamo andati ad abitare in campagna. Lui sa la verità, ma considera noi come i suoi genitori e per noi è nostro figlio."

"Come si chiama?"

"Bruno e anche se figlio della colpa, è stato battezzato. "

"Papà?"chiese Lina

"Quando è arrivato da noi in campagna lo abbiamo informato sull'esistenza del nipote e sai che ha detto? Ciò che Dio toglie, Dio ci rende."

"Augusto passa tutta la giornata con Lola, portandola al giardino dietro casa: si siede su una panchina e lei rimane accucciata ai suoi piedi. Quella cagnolina vuole più bene a mio cognato che a Elia. Vincenza non vuole vedere nessuno, va al Musocco sulla tomba della figlia e se ne sta lì, parlandole come se fosse viva."

Elia lavorando per la casa editrice La Rosa spesso, quando rientrava la sera a casa, portava alla moglie delle riviste e qualche libro.

Dopo cena, mentre il marito cercava di sintonizzare la radio, andando avanti e indietro con la manopola, tra brusii e voci che andavano e venivano, Lina si immergeva nella lettura. C'era da leggere la nuova puntata del libro di appendice sul giornale; leggere il nuovo romanzo di Liala, dove donne bellissime erano perseguitate da un brutto destino, ma si sapeva già, che poi avrebbero sposato l'uomo dei loro sogni. Leggeva la rivista Grazia che odorava di inchiostro. Ammirava le copertine dei libri della collana Omnibus.

Avere un segreto con Elia non la faceva star bene, così Lina si recò dal suo confessore presso la chiesa di Sant'Ambrogio.

Il prete l'ascoltò in silenzio da dietro la grata e poi le disse:

"Mia cara, il segreto non riguarda voi, quindi non venite meno al vostro dovere di giovane sposa. Tre Ave Maria e un atto di dolore!Ego te absolvo a peccaris tuis, in nomine patri set filii et spiritus sanctit."

La donna si sentiva sollevata e tutta contenta si inginocchiò davanti all'altare dicendo sommessamente le sue preghiere in latino.

Le piaceva l'odore delle candele che si respirava in chiesa, lei si sentiva in pace con se stessa solo nella preghiera, a questo pensava uscendo dalla chiesa, togliendosi il fazzoletto dalla testa."Cosa mi sono sposata a fare? Per avere un figlio devo fare quella cosa là, provo solo schifo e dolore." Voleva bene a suo marito, ma come le comunicò un giorno un dottore, lei essendo frigida, non provava piacere. Elia faticava a penetrarla, così spesso, capendo la sofferenza della moglie, smetteva di fare l'amore, la prendeva tra le sue braccia e le parlava del suo lavoro. Aveva conosciuto scrittori come Luigi Pirandello, timido ed elegantissimo. Trilussa, che aveva problemi con i suoi scritti contro il potere, ma simpaticissimo e con il quale poteva parlare in romanesco.

Cesare Pavese: grandi occhiali e grande intelligenza che traduceva i poeti del nord America, ma adesso si trovava relegato al confine in Calabria, per le sue idee anti fasciste. Era diventato amico di Salvator Gotta e Marino Moretti.

Gabriele D'Annunzio lo aveva incontrato al Vittoriale sul lago di Garda. Elia era stato incaricato dalla "La Rosa",di fare autografare delle copie in veste economica, che facevano parte del "Il sodalizio dell'oleandro."In oltre doveva consegnare a D'Annunzio delle lettere chiuse in un'unica grande busta sigillata, il contenuto delle quali gli era sconosciuto. A riceverlo all'ingresso del Vittoriale fu una cameriera tutta vestita in nero, con una cuffia bianca in testa, che lo fece accomodare in un salotto dove il colore predominante era il rosso in varie tonalità. L'uomo si guardava attorno; non aveva mai visto tanti oggetti, tutti nella stessa stanza: libri, zanne d'elefante, manoscritti, lampade stile liberty.

Nella penombra della stanza, sentì provenire una voce dal tono basso:

"Prego, accomodatevi! Siete il signor.Elia De Michelis?"

"Grazie maestro. Sono Elia De Michelis."

Alla "La Rosa"lo avevano istruito di rivolgersi allo scrittore chiamandolo maestro o vate.

"Con un simile nome vi conviene lasciare l'Italia al più presto, siete senza alcun dubbio di religione ebraica e per voi giudei si avvicinano tempi difficili."

Mentre parlava il vate gli aveva fatto cenno di accomodarsi su una sedia con una alto schienale, lo scrittore si sedette dall'altra parte della grande scrivania colma di oggetti.

" I miei genitori si erano convertiti al cattolicesimo e mi hanno fatto battezzare."

"Molto previdenti i suoi. Il duce è amico di Hitler, vi assicuro che tra poco anche qui la maggior parte degli italiani sarà anti semita, la borghesia si adatta sempre al potere."

Dicendo ciò il Vate si era alzato e da uno scrittoio aveva preso una cartella con all'interno un manoscritto redatto e firmato di suo pugno.

"Gentilmente, questo dovrete consegnarlo personalmente al signor La Rosa. "

Elia aprì la ventiquattrore che aveva appoggiato sulla scrivania, dalla quale estrasse i libri da firmare e mise via il manoscritto.

Su un tavolo vicino a una finestra nascosta da pesanti tendaggi di velluto rosso, stava appoggiato un vassoio d'argento con una caffettiera e dei biscotti.

"Prego! Si serva pure." lo invitò D'Annunzio aggiungendo "Mussolini fa di tutto per tenermi relegato qui al Vittoriale, ma non mi fa mancare niente. "

L'uomo sentì l'odore del vero caffè e se ne servì in silenzio, pensando all'intruglio che sua moglie ogni sera gli propinava facendolo passare per caffè, ma in commercio non si trovava altro.

Guidando verso la pensione sul lago, fu colto da un dolore forte alla bocca dello stomaco causato dall'ulcera, ma era preda anche di un altro dolore ben più forte, per il quale non c'era nessun Bicarbonato che potesse calmarlo, perchè il suo pensiero andava a Roma, al ghetto, ai suoi parenti, amici, temendo per la loro sorte.

A Milano già serpeggiava un certo malcontento contro gli ebrei, i quali erano incolpati di avere ucciso Gesù, di essere il male della società. Aveva assistito con sua moglie, qualche sera prima, a una commedia nella quale un vecchio ebreo usuraio veniva ucciso; dalla platea si era alzata una voce "Muori giudeo indegno."

Quella persona aveva inveito contro l'ebreo,no l'usuraio.

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