Capitolo 48

28 Mo'gh M'eskar 1842 – luogo indefinito

In un luogo imprecisato tra Haksh e Harfnag, Me'r e Katthe si stavano disperando.

Da quando erano usciti dalla Bozanj ebbero una strana sensazione di disagio, come quando una vecchia ferita inizia dare prurito. Erano certi di una cosa sola: quella porzione di mondo non stava attraversando delle stagioni fredde.

Il pelo chiaro sulla schiena era particolarmente sensibile ai ticchettii ripetuti delle gocce che riuscivano poi a infilarsi nel cuoio imbottito dell'armatura; la coda batteva insistente la sua punta scura sul manto del loro destriero. Oltre che i pensieri, anche le sensazioni dei gemelli erano coordinate. Come dei radar, scandagliarono con gli occhi lontani la desolazione ambientale in cerca di un dettaglio ignoto oltre l'acqua che occultava la zona.

La paura di potersi trovare a ridosso di una lugubre primavera li spinse a spremere fino all'ultimo i cavalli. La terra fangosa, incapace di trattenere l'abbondante pioggia che stavano attraversando, rese il viaggio molto duro. Ciò nonostante, quegli animali si dimostrarono essere dei compagni estremamente affidabili.

I due suricati decisero quindi di abbandonare la via prestabilita per attraversare i valichi delle montagne, avrebbero guadagnato due giorni e il maltempo forse li avrebbe abbandonati.

Fu una pessima decisione: la pioggia si trasformò in un temporale.

Me'r e Katthe condussero i cavalli in un tratto dove secoli prima era presente un rado bosco, abitato ora solo da tronchi secchi e da massi. Il tragitto su quel sentiero non durò a lungo: la terra cedette alla forza costante dell'acqua.

Un blocco di rocce e fango si sfaldò in più punti da un costone montuoso sopra di loro e li imprigionò prima che potessero pensare a come reagire; per i cavalli non ci fu più nulla da fare.

Erano trascorsi più di quattro giorni dalla frana e la rassegnazione di restare bloccati e costretti in quella piccola camera, creata dai massi caduti, divenne una compagna ingombrante. Gridare non era mai valso a niente e Me'r non tentò più di estrarre la sua zampa bloccata sotto alcune grandi pietre: aveva accettato l'arrivo della sua fine.

La puzza di morte e di sangue putrido dei due equini rendeva l'ambiente irrespirabile e del loro equipaggiamento era rimasta soltanto una delle molte borracce d'acqua. Katthe la teneva tra le mani tremanti, era leggera ma non vuota.

Si stava disidratando e non sapeva cosa fare: voleva bere, ma era necessario conservarla per il fratello.

"Katthe... Acqua."

Me'r era affaticato e debilitato, parlava a fatica e i suoi occhi rimanevano costantemente socchiusi.

Non sopportava vedere il fratello in quelle condizioni e, in un momento di rabbia improvviso, decise di provare nuovamente a liberare la zampa di Me'r.

"Katthe... No. È inutile."

"Sta' zitto! Io e te non moriremo qui dentro, capito?"

Iniziò a urlare per raccogliere a sé quelle poche forze rimaste, ma le rocce rimasero immobili.

Disperato, cominciò a prenderne una a spallate sempre meno efficaci. Me'r resisteva in silenzio al dolore delle scosse.

Qualcosa colpì delicatamente Katthe e scivolò tra i suoi capelli rasati.

L'acqua avanzò timida ed entrò nella cavità. Le gocce divennero rapidamente un filo e, subito dopo, un rivolo sempre più invadente. Le piogge non erano finite e, a devastare la loro critica situazione, si aggiunse anche il rumore dei tuoni.

La paura di morire annegati iniziò a serpeggiare tra i due, il liquido continuava a salire e il panico prese il controllo dei resh be'th. Katthe spostò a fatica la carcassa di un cavallo per far sollevare il più possibile la testa di Me'r, inaspettatamente ciò fece trovare all'acqua una piccola via d'uscita. Tirarono un futile sospiro di sollievo.

Vedere quell'esile cascata scivolare giù come acqua versata da una brocca, rapì Katthe. Resistere alla tentazione di berla fu difficilissimo, sapeva fosse contaminata, ma le sue reticenze stavano cedendo.

Devo farlo.

Il suo colore terreno gli sembrò birra ambrata. Il solo guardarla fu dissetante, ai suoi piedi una schiuma ammaliatrice. Iniziò a bere.

In bocca era acida, maleodorante e sapeva di ferro, ma nonostante il disgusto deglutì. Un conato rivoltò il suo stomaco e vomitò tutto ciò che aveva in corpo.

"Voglio uscire da qui!" urlò furioso non appena si riprese.

Iniziò compulsivamente a scavare in quella melma per creare un tunnel; non riusciva a controllarsi, la situazione era disperata e sentiva la ragione venirgli meno.

Per Haksh! Non può essere l'ilham.

Smise di colpo come annoiato e prese ad arrampicarsi tra le rocce. Non gli importava più del loro precario equilibrio o del fatto che potesse in qualche modo colpire il fratello bloccato.

La forza della pazzia lo stava aiutando a infilarsi in spazi prima irraggiungibili. Ferito, strappò l'armatura che lo ostacolava e si tirò fuori da quell'immenso cumulo di pietre. Vide i fenomeni del mondo in azione: venti violentissimi scuotevano i pochi alberi spaesati ancora in piedi, lampi continui illuminavano quella desolazione e l'acquazzone continuava incessante a coprire tutto con il suo lento incedere.

Ringhiò contro quello spettacolo e lo aggredì con le sue mani scattose nel vuoto. Rideva contro quella malattia del mondo, ma i tuoni lo fecero indietreggiare impaurito e rabbioso. Da un piccolo pertugio notò un suricata: era bloccato e rideva. Stava bevendo l'acqua che lo circondava, vomitava e tornava a ridere: incuriosito, gli urinò dall'alto e la cosa lo divertì.

Una folata di vento gli fece perdere l'equilibrio e lo scaraventò a terra. Svenne. Dalla sua sacca squarciata, uscì il papiro di Harfnag, nessuno lo rivide più.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top