Capitolo 47
25 Mo'gh M'eskar 1842 – Stazione Nord, Haksh
Baharas aprì la porta di quella capanna di legna con incisa la scritta "Stazione Nord". L'atmosfera che si respirava già all'esterno non era rassicurante: alcune porzioni di terreno mostravano le cicatrici di un vecchio incendio e il prato superstite era chiaramente lasciato a sé stesso. All'interno dell'edificio trovò ad accoglierlo solo un oscuro silenzio e un odore nauseabondo di morte. L'improvviso ronzio di numerose mosche lo innervosì.
Non ci impiegò molto a vedere l'orrore: carne marcia e bruciata riversa a terra e ossa sparse per la piccola sala. Capì fossero l'avanzo di qualche animale affamato. Le luci intermittenti del pannello elettronico mostravano tutta l'indifferenza continuando la loro danza. In un attimo, quel miscuglio informe di carcasse si trasformò nella sua paura. Nonostante fosse impossibile distinguerne la fisionomia, riconobbe quei resh be'th.
Colpì ripetutamente con dei calci una colonna di legno vicina e si colpevolizzò per quanto accaduto all'interno della stazione.
Se solo avessi avuto io i rapporti.
In fondo sapeva che non sarebbe cambiato nulla, ma volle infliggersi la responsabilità delle mancanze di altri.
La presenza di un terzo corpo incuriosì il falco. Era certo non dovesse esserci nessun'altro assieme a Hoga'l e Rabe'th, così studiò meglio quei resti carbonizzati fino al busto.
I vestiti, una volta pregiati, erano stracciati e bruciati in più punti, ma a Baharas sembrarono familiari. Anche quelle zampe rugose e grigie da cacatua lo misero in allarme. Fulmineo, strappò il tessuto che ricoprì le gambe del cadavere e scoprì un otzi sulla pelle gonfia di larve e liquidi: un pappagallo azzurro con lo sguardo verso l'alto.
Gharai?! Ma allora chi sta con i nostri ragazzi?
Uscì di corsa in preda alla confusione cercando di decifrare il terreno, trovò solo un caos di segni ben poco definibili, era passato troppo tempo per poterli decifrare.
Doveva tornare subito al monte e avvertire Shoudhe della situazione. Non riuscì a non pensare alla possibilità che qualcuno avesse preso il posto del giovane maturatore.
"Merda!"
Spiccò il volo e tagliò il vento che carezzava le sue piume: il tempo era ancora sereno, ma stava cambiando. Studiò le correnti e decise quali imboccare, si sentì in ritardo di lune e ogni secondo perso poteva essere quello decisivo. Sfrecciò per i campi del ge'th e non riuscì a non pensare a Gharai e a quel corpo carbonizzato. Era furioso, vedeva insistentemente la morte dei suoi amici e si ripeteva, come un'ossessione, il rischio che Haksh stava correndo.
Non era tranquillo e il suo volo ne risentì. Forse i corvi erano estranei alla cosa oppure era un loro doppio gioco. Non sapeva quale fosse la prospettiva peggiore, ma i pugni stretti e i muscoli contratti per la tensione erano dedicati alla vendetta per Hoga'l e Rabe'th
Le prime gocce d'acqua iniziarono a colpirlo in viso sconvolgendolo: aveva ancora molta strada da fare. Troppa.
Non può essere già l'ora delle piogge, che stia iniziando l'ilham e non me ne sono accorto?
Fece dei rapidi calcoli, aveva a disposizione altri quattro giorni prima del momento di estro e le nuvole nere erano in anticipo. Shoudhe si era dimenticato di cambiare il giorno, ne era sicuro, ma ora non era più il momento di adirarsi anche per questo. Abbandonò ogni pensiero e aumentò la velocità di volo mentre i cumuli sopra di lui si facevano sempre più neri e minacciosi.
Con le mani davanti agli occhi, cercò di osservare la conformazione del cielo sempre più oscurato e, sebbene non fosse un esperto, qualcosa lo insospettì; le sensazioni corporee alimentarono il dubbio: quelle piogge, abbondanti e fastidiose, non solo erano in anticipo, erano anche più fredde di quello che avrebbero dovuto essere. Cercò di non farci caso e si abbassò di quota, ma sentiva i muscoli sempre più rallentati e le sue ali sempre più pesanti dal picchiettare delle gocce. Cambiare altezza di volo non aveva migliorato la situazione, aveva solcato i venti per poche ore ed era già affaticato. Si riparò tra le fronde di un grande e vecchio olmo tra alcuni campi coltivati, doveva trovare un nuovo piano d'azione. Mentre si strofinava le braccia e si copriva con le ali fradice, imprecò contro Shoudhe.
Non è possibile che...
Un lampo illuminò l'albero in un'esplosione dirompente.
Il falco fu scaraventato a terra stordito. Rantolò al suolo e un ago sempre più penetrante divorava i suoi timpani; i suoi occhi non riuscivano a restare aperti per l'abbaglio e un dolore diffuso, che lo dilaniava, gli fece perdere i sensi.
Si risvegliò che le piogge erano sparite e, con un pesante sibilo nella testa, cercò di rialzarsi liberandosi dalle pesanti frasche che lo imprigionavano. Una gamba cedette: versava in pessime condizioni e un ramo spezzato si era conficcato nella coscia; il sangue rappreso era ovunque. Il suo istinto fu di estrarlo, ma riuscì a fermarsi mantenendo la calma, non aveva nulla per arginare la ferita: il fulmine aveva bruciato gran parte dei suoi vestiti.
Era nudo, ferito, zoppo e ustionato in vari punti. Il viso presentava un'enorme bolla nella parte destra e molte delle sue piume erano state arse e strappate con l'impatto a terra. Notò il proprio corpo maculato da scottature e piccole schegge, mentre i suoi piedi, spellati per via del passaggio elettrico, crepitavano nel reggere il suo peso.
Tentò di alzarsi lentamente aiutandosi con uno dei rami a terra e, non appena ci riuscì, cercò di orientarsi. Il dolore lo attaccava dappertutto. Secondo le sue stime, doveva trovarsi a poco più di una foresta dal villaggio di Eshm'ar: troppo per farcela a piedi, un suicidio se lo avesse compiuto in volo. Optò per la velocità della seconda.
Dopo alcuni tentativi vuoti, partì sostenendosi la gamba con le braccia. Sentiva la grande ferita pulsare e riprendere a sanguinare. Resistette ai continui svenimenti e arrivò al primo mulino che vide, trattenne un urlo quando poggiò la zampa a terra. Per fortuna, fu soccorso da due pastori lucertola paralizzati per lo shock di incontrare un resh be'th otzico in quelle condizioni. Baharas si sarebbe medicato da solo; sperava ingenuamente che la sua rigenerazione lo aiutasse. Ordinò loro di portargli una corda e dei panni.
"Aspettate, quando è avvenuto il temporale?"
"Ieri pomeriggio, signore. È sicuro che non possiamo fare altro per lei?"
"Se potessi avere del pane, ve ne sarei grato." Accennò un sorriso per la loro gentilezza.
Aspettò alcuni istanti che si fossero allontanati.
Va bene. Adesso.
Un colpo secco. Un urlo disperato.
Fasciò velocemente la gamba mentre il sudore e i tremori stavano avendo la meglio su di lui. I due allevatori, impacciati e titubanti, lo aiutarono come poterono. Baharas si accasciò a terra sfinito e provato, gli occhi fissarono distratti il cielo ora sereno. Mangiò velocemente il pane con del formaggio offerto dai due resh be'th e rivisse l'incidente. Il fulmine era un chiaro segnale di manomissione, quelle non erano le piogge programmate, suppose che Shoudhe avesse spostato l'inizio – come concordato – e che qualcuno avesse modificato ulteriormente il giorno e la tipologia: ora sapeva chi era stato.
Gharai.
"Abbiamo perso tutte le nostre capre, signore" disse uno dei due, quasi vergognandosi per la sfacciataggine.
Baharas lo guardò in silenzio senza sapere come consolarlo.
"Il Monte è arrabbiato con noi? Non lo stiamo rispettando abbastanza? Eppure seguiamo i Sei e gli ordini del capo villaggio." Gli porse dei bendaggi e dei medicamenti per le ustioni.
"Il Monte non è arrabbiato con voi. – Se nel monte ci fosse veramente un dio non dovrebbe prendersela con noi! – Farò in modo di risarcire le vostre perdite e di ringraziarvi per l'aiuto che mi avete offerto." Era determinato e sincero; iniziò a fasciare le bruciature.
Ripartì poco dopo nonostante non ne fosse in grado, non voleva scomodare ulteriormente quelle due lucertole gentili. Doveva tornare al monte a ogni costo e intervenire. Trasse la forza dalla paura e dalla rabbia. A ogni battito d'ali avvertì le pugnalate, non vedeva l'ora di riposarsi su una corrente d'aria e planare, ma non gli fu possibile. La gamba ferita non poteva restare distesa a lungo. Passarono due giorni.
Vide la montagna sacra sempre più vicina e, quella mattina, la capitale era ormai a portata di mano. Era stremato e affamato, i dolori non lo lasciavano mai. All'improvviso si sentì il petto battere all'impazzata e perse forza nelle ali.
No, non adesso. Non ora che sono così vicino.
L'ilham stava arrivando e lui non era ancora rinchiuso nella sua stanza, doveva correre oppure avrebbe potuto causare dei danni agli altri resh be'th o peggio, morire. Mentre saliva di quota per raggiungere l'entrata della grotta, i segnali si fecero più intensi e insistenti: il suo cuore gli rimbombava nella testa assieme al sibilo costante. Strizzò gli occhi e si portò le mani alle tempie nel tentativo di tamponare quell'ago doloroso.
Poggiò il piede sulla rupe d'ingresso e non ebbe il tempo di fare nulla. Con l'ultimo sprazzo di lucidità si fiondò lungo i corridoi urtando qualche parete calcarea. Scorse la sua stanza e serrò la porta alle sue spalle.
Urlò mentre i suoi occhi si tinsero di rosso: l'ilham era iniziato.
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