Capitolo 4
6 Mo'hg Ghar 1842 – luogo indefinito; Haksh
La notte aiutò il resh be'th cobra a nascondersi, ma era ancora molto teso. I suoi polmoni erano in rivolta, esigevano tutta l'aria utilizzata per strisciare via il più velocemente possibile. Sentiva il ferro del sangue in gola e non sapeva se il pericolo fosse svanito: non vedeva l'ora di potersi considerare al sicuro.
Si rifugiò momentaneamente nella palude creata da un affluente dell'Eari Sha e guardò in direzione del suo villaggio ormai sparito. Nonostante volesse dimenticarlo, il magnetismo della nostalgia di una vita non vissuta era ancora forte.
Qualche ora prima, era riuscito a schivare per miracolo il cavallo del sacerdote Lath e adesso aspettava un segnale non meglio specificato per poter ripartire. Nonostante la strada percorsa, credeva di essere ancora troppo vicino.
Di sicuro useranno cavalli e muli per cercarmi.
Una zanzara assaggiò il suo sangue di cobra prima di essere schiacciata tra le squame pallide della sua schiena, proprio sopra una delle tante cicatrici. Negli anni aveva acquisito una grande consapevolezza del dolore ed era sensibilissimo a ogni sensazione di fastidio.
Tra le comunità resh be'th, girava il detto secondo cui numerose ferite rendessero immuni alla sofferenza fisica, come se il corpo si abituasse a sopportare una certa soglia di dolore e, dopo un po', lo dimenticasse. Nel caso di Zahirile, la salvezza non fu dimenticarlo ma tenerlo costantemente con sé. Ogni notte sognava le frustate che avrebbe ricevuto il giorno seguente: ciò gli causava delle piccole perdite di veleno dalle mani.
Quando la tensione per la latitanza si attenuò, cercò in alto il segno della sua ricompensa; la luna aveva quasi raggiunto il suo primo quarto ed era già in grado di eclissare la luce delle stelle che la circondavano. Il cobra però sapeva dove trovare la sua compagna nel cielo e, anche se non poteva vederla chiaramente, la ringraziò per tutto ciò che ogni giorno faceva per lui.
Si rimise in spalla il sacco preparato ormai da molte lune e costeggiò quell'affluente senza nome. Era diretto a sud e aveva un obiettivo: poter prendere parte al maturamento. Come suo zio, anche lui possedeva un otzi. Non lo aveva mai conosciuto e le storie su di lui erano state solo gli insulti del nonno e di suo padre.
Tahiril e Ishm'ol avevano trattato lui e suo zio nella stessa maniera: sminuendoli, mortificandoli e picchiandoli, ma in Zahirile questo accostamento crebbe come fonte d'orgoglio. Sopportò tutto quel dolore perché era convinto che anche Theha'l, suo zio, avesse subito quella stessa violenza.
Credeva che l'odio della propria famiglia fosse solo paura per ciò che erano in grado di fare e pensò che avessero esteso il loro disprezzo verso chiunque possedesse un otzi. Non vide mai tutto il servilismo attuato da quei cobra nei confronti di chi manifestava questo importante dono.
Zahirile continuò a ripetere mentalmente il suo piano mentre proseguiva nell'ombra, era l'unico modo che conosceva per darsi coraggio. Ai suoi occhi era semplice, lineare e molto breve: sarebbe entrato nel maturamento, avrebbe imparato a combattere e sarebbe tornato a casa per vendicarsi. Non vide nessun intoppo e niente di sbagliato in ciò che pensava, avrebbe ripagato l'odio del padre e l'indifferenza della madre con la stessa moneta.
La stanchezza lo colse di colpo nei pressi di un canale e vi scivolò dentro. Non ebbe la forza necessaria per ribellarsi e si lasciò condurre dallo scorrere dolce dell'acqua; resistendo invano, cadde in un sonno incosciente.
Si risvegliò al sorgere del sole in un'ansa poco definita e lontana dalla civiltà; le piccole onde cullavano le sue guance. Raccolse qualche frutto selvatico che gli diede meno energia di quella che sperava e si rimise in viaggio: si sentiva sfinito. I tre picchi del monte Haksh erano a malapena distinguibili sulla sua destra, ma decise di evitare la capitale; sarebbe arrivato lì solo come partecipante del maturamento. Gli bastava entrare in un villaggio e nascondere alla meno peggio i segni delle sue torture, nessuno lo avrebbe riconosciuto.
Proseguì per giorni verso sud aggirando le strade principali. I sentieri ormai abbandonati, per i boschi e le pianure di Haksh, lo condussero verso posti che ignorava. Era in tensione continua: non sapeva se i cammini che stava percorrendo lo avrebbero guidato verso una meta, ma doveva fidarsi di loro; non sapeva se qualcuno lo potesse vedere, ma era pronto a nascondersi all'occorrenza; non sapeva se sarebbe stato accettato, ma doveva tentare. L'ansia di perdersi e la paura di essere scoperto furono le sue uniche compagne e pesarono su di lui molto più delle foreste già percorse.
Iniziò a scorgere dei campi di grano, capì di essere vicino a qualche villaggio. Trattenne il sollievo per aumentare la concentrazione. I resh be'th che lavoravano a malapena lo considerarono. Era consapevole della necessità di continuare di soppiatto, ma la malsana curiosità di sapere se potesse rilassarsi lo spinse invece a strisciare con finta naturalità tra i vari reticolati che portavano al sentiero principale. Era una bella giornata di fine estate e il sole era ancora molto forte. Il cuore batteva all'impazzata. Passò vicino a un anziano resh be'th huski per saggiare la situazione.
Se mi riconosce dovrò avvelenarlo.
Era sull'orlo di un precipizio ed era disposto a buttarsi, se fosse stato necessario.
"Buon Mo'hg Ghar." esordì l'huski, dopo averlo guardato distrattamente. Si rimise al lavoro: fu semplice cortesia.
Zahirile si tolse di dosso un macigno e si rilassò. Non riuscì a capire se il sollievo provato fosse per l'anonimato di cui godeva o se riguardasse il non aver compiuto un altro omicidio. Rispose con un cenno del capo e andò oltre.
Vide una cittadina in lontananza, poche ore e l'avrebbe raggiunta. Lesse un cartello di legno piantato al suolo – una delle poche capacità che il nonno lo aveva costretto ad apprendere – e proseguì sicuro. Quella notte avrebbe riposato a Harsha.
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