Capitolo 3

20 Mo'hg Ghar 1842 – città di Harsha; Haksh

"Migliaia di anni fa, prima di tutto quanto" iniziò la nonna, con la mano stretta ancora al braccio di Ak'uira, "esisteva un solo grande individuo di nome Oth. Il suo talento nel disegno era così immenso che, quando tracciava delle linee nel cielo notturno, queste collegavano tra loro le stelle più belle. Quindi è così che nacquero le costellazioni: con il tocco della sua fantasia. Ma dopo anni passati a disegnare, il cielo di notte divenne così luminoso che non si differenziava più dal giorno." Sembrava preoccupata.

Il ragazzo si rassegnò ad ascoltare quella storia. Prese anche lui una sedia e affiancò l'anziana. Indossava una piccola coperta di lino a coprire le ali, leggermente ingrigite; diceva che servisse per il freddo, ma, in realtà, era per sentirsi bella come un tempo. Le numerose rughe avevano infatti solcato quello che fu un viso delizioso, un viso ereditato poi dalla madre del ragazzo. 

"Quindi ogni sera, Oth si recava in cima alla collina più vicina e si sdraiava per ammirare tutti i suoi capolavori, finché un giorno una voce lo chiamò. Era il Monte che lo rimproverava. Quindi gli disse che, nonostante i suoi disegni celesti fossero stupendi, stavano facendo ammalare il mondo e, quindi, che, se non fossero stati tolti, sarebbe stata la fine per la Terra." 

Ak'uira ripeté con lei a memoria muovendo le mani insieme all'anziana per disegnare la situazione:

"Le piante non riuscivano più ad alimentarsi come prima, gli animali non sapevano più quando riposare; quindi l'ordine delle cose era stato sfasato."

"Esatto!" incalzò la resh be'th riaggiustandosi la coperta sfuggita, "Oth però non voleva cancellare nessun disegno, era l'unico essere esistente e quindi gli tenevano compagnia, perciò non si curò della malattia del pianeta: se moriva assieme a esso – pensò – forse ne sarebbe stato felice. Il Monte, però, non poteva lasciargli credere cose simili: il mondo era ancora giovane e pieno di vita, mentre Oth era già molto vecchio. Quindi dopo lune di discussioni, anche l'ambiente iniziò a far sentire il suo dolore: terremoti, tempeste, vulcani che eruttavano in continuazione, alberi che cominciavano a seccarsi e animali che impazzivano sempre di più – guarda, mi è venuta la pelle d'oca. Comunque Oth, a quel punto, capì quindi di aver commesso un grave errore. Chiamò a gran voce il Monte e si pentì dicendo che avrebbe fatto di tutto per far tornare le cose come prima. Il Monte allora si rivelò nelle sembianze di un bue che iniziò a piangere: l'unico modo per salvare la Terra era sacrificare la vita di quel bue per darla quindi al mondo."

Le storie della nonna erano sempre piene di queste immagini surreali e fataliste. 

"Oth ebbe pietà del bue, in fondo sapeva che non fosse giusto: quell'animale non aveva fatto nulla. Quindi propose la propria vita per ripagare l'errore commesso. Prima di donarsi però chiese due favori al toro, che in realtà era il Monte: far popolare la Terra dopo la sua scomparsa e affidare i suoi disegni a chi ne fosse stato degno. E quindi il Monte diede così a quei disegni il nome Otzi, figli di Oth; in questo modo li avrebbe potuti chiamare e far scendere dalla volta celeste. Assegnò loro il compito di vagare per il mondo, non appena fosse guarito, quindi alla ricerca di chi fosse stato meritevole di averli. E a quanto pare Ak'u, tu e io lo siamo." Sorrise stringendo le mani del nipote.

Quella storia gliela raccontava quasi quotidianamente; voleva che il ragazzo la tenesse bene in mente così che potesse trovare le sue verità. Ma ormai l'ascoltava solo per non farle torto, conosceva ogni parola e pausa di quella fiaba. Annuiva marcatamente durante i passaggi sperando che, come la sua testa, anche questa accelerasse e arrivasse alla fine. Teneva persino il conto, per divertirsi ogni tanto, dei quindi ripetuti dalla nonna; oscillavano generalmente tra i trenta e i quaranta.

Joidhe, l'anziana aquila, era consapevole dei sorrisi forzati del ragazzo, ma sapeva i retroscena che Ak'uira avrebbe dovuto ancora scoprire e perciò continuava, ignorando il nipote: come qualsiasi resh be'th in là con l'età, pretendeva compagnia.

Nel loro piccolo salottino, situato all'ingresso dell'abitazione, la donna non mollava la presa e stava per narrare un'altra storia. Non c'era nulla che avrebbe potuto salvare Ak'uira. Il ragazzo scandagliò affannosamente l'intera stanza in cerca di qualsiasi cosa con cui distrarre, anche solo per un momento, l'anziana, ma non trovò alcunché. 

La porta di casa, logora e cigolante, si aprì di colpo risucchiando immediatamente l'ormai abituale suono spettrale. Aethrei entrò con la sua perenne energia facendo tremare per un attimo tutta la loro poca e indispensabile tappezzeria di maiolica. Per fortuna, i mobili erano ben saldi alle pareti di pietra; la famiglia intera ne era orgogliosa perché furono costruiti a mano da padre e figlio. Il legno era poco lavorato e, ogni tanto, si poteva infilare qualche scheggia tra le mani, ma le piallate e le martellate dimostravano l'impegno e l'amore delle due aquile.

Sottobraccio, il resh be'th teneva quello che sembrava essere un barile di birra. Lo aveva pagato facendo uno straordinario al canale vicino al mulino in cui lavorava. Non appena vide il figlio, un grandissimo sorriso gli si stampò sul volto:

"Questa sera brindiamo a mio figlio, il guerriero!". 

Sollevò il barilotto che, per gli strattoni, lasciò andare qualche liquida perla ambrata sul pavimento. Con un piccolo balzo volò da lui e, strappatolo dalle grinfie intrattenitrici della nonna, lo portò al centro della loro modesta sala. Dopo averlo modellato a mo' di soldato con le mani e mostratolo orgogliosamente, come fosse uno scultore, puntualizzò fiero: 

"Mio figlio. Vent'anni. Un guerriero".

Visti insieme, i due non presentavano grandi differenze: lo stesso volto fiero e la stessa fisicità tonica erano colorate di maturità in Aethrei, lasciando ad Ak'uira la lucentezza della giovane età. Amavano anche portare i loro lunghi capelli, bianchi e piumati, liberi fino alle spalle, salvo poi raccoglierli in una coda raffazzonata quando lavoravano. Gli stessi occhi oro e lo stesso sorriso spensierato facevano innamorare ogni giorno M'ehi, moglie e madre dei due. Solo la barba brizzolata di Aethrei, che gli circondava la zona della bocca, riusciva a concedergli il punto della vittoria sul figlio.

Con una smorfia imbarazzata e con lo sguardo rivolto ora alla madre, appena affacciata, ora alla nonna, Ak'uira disse:

"Già, un guerriero. È da stamattina che lo ripeti, immagino anche che l'avrai gridato continuamente al mulino. Due tuoi colleghi mi hanno salutato in maniera troppo reverenziale".

"Ovvio che l'ho detto! E per fortuna che l'hanno fatto, altrimenti mi avrebbero sentito. Oltre a tua nonna, nessuno della famiglia ha mai posseduto un otzi, né tantomeno quello del guerriero. Ma adesso festeggiamo per domani! In paese tutti fremono per il vostro esame, e anche noi non vediamo l'ora, soprattutto per la lunga primavera." Pregustò la sensazione di vigore che gli avrebbe donato la stagione.

"Ehi tu! Aspetta un momento" tuonò la moglie. "Ti sembra questo il modo di rientrare in casa? Per poco non facevi crollare ogni cosa." L'occhio da rapace catturò un dettaglio anomalo sul pavimento. "Guarda a terra! Stai sporcando tutto con la birra." La nonna di Ak'uira, che non perdeva occasione per gioire delle sventure del genero, rise sotto i baffi fino a tossire.

M'ehi non la notò, era troppo concentrata a rimettere in riga l'entusiasmo del marito. Anche lei amava essere leggera, ma sapeva che, se avesse seguito ogni singola stranezza di Aethrei fin da giovane, chissà in quel momento dove sarebbero stati. Quando si sposarono si erano divisi un pollo e, in quello che per lui fu un gesto romantico, le aveva lasciato la coscia dicendo che, tra i due, lui era quello con la testa tra le nuvole, lei quella più ancorata al suolo.  

"Scusa, amore della mia vita" la salutò con un bacio, affidando il perdono alla ruvidezza della barba sulle guance. "Non prendertela, lo sai che sono così felice per nostro figlio che dimentico le buone maniere. Guardalo, c'è da esserne orgogliosi! Anche se girano voci su una marea di giovani che possiedono un otzi, lui è un guerriero. Diventerà fortissimo, capisci!? Il lavoro nei campi sarà molto più facile e redditizio con lui; gli altri otzi, se posso dire la mia, sono inutili."

"Ehi!" esclamò la nonna di Ak'uira, sentendosi presa in causa.

Con un gesto sbrigativo della mano, Aethrei la liquidò subito. "Ma non badiamo a queste cose, domani è il giorno di Ak'uira. Sono così contento per te. Che ne diresti se, prima della verifica, facessimo la nostra solita corsa?"

"Approfittane ora, finché puoi ancora batterlo!" si intromise M'ehi per provocarlo.

"Tranquilla, mamma. Vinco comunque io." Tornò poi sul padre. "Però sai che non ci vedo niente di speciale, mi rendo conto sia un evento straordinario, ma io non mi sento diverso."

L'aquila inumidì il suo pizzetto come per prendere tempo. "Ne abbiamo già parlato diverse volte su cosa significa avere un otzi, tua nonna ti ha persino raccontato moltissime delle sue imprese." Nonostante lo adorasse, a volte era asfissiante doverlo convincere delle sue potenzialità.

"È vero, Ak'uino. Ti ho raccontato quindi anche di quella volta che ho dovuto mediare le manifestazioni contro lo sfruttamento nelle miniere a nord e quindi di come ho fatto lo sciopero della fame in svariate occasioni. Chissà se ne avrei ancora la forza."

"Ormai sei una vecchia aquila, mamma, non sei più in grado di compiere cose del genere. Il tuo spirito avventuriero si è dovuto arrestare da quando ti è venuta l'artrosi all'ala."

M'ehi prese l'anziana sotto braccio e la liberò della coperta abbandonandola sulla poltrona. Con passo lento, la accompagnò verso la tavola apparecchiata e pronta per la cena.

"Vorrei far presente che si sta parlando di Ak'uira. Senza offesa, Joidhe. E ripeto: avere un otzi è importante, sei destinato a qualcosa di grande" rimarcò Aethrei.

Se fossi stato al tuo posto all'età tua... Governatore sarei!

"Qualcosa di grande." Invidiava quel carattere estroso e aperto alla vita, avrebbe voluto tanto averlo anche solo per un giorno. "Non sono mai andato oltre i campi sulle colline e... – ho persino paura di volare – lo sai."

"Hai appena iniziato a vivere, il pessimismo lascialo per quando ciondolerai, vecchio, in casa come tua nonna. E comunque, li fai gli esercizi per tenere in forma le ali?" Da spensierato, il padre si era fatto serio.

"Sì, sì. Li faccio, non ti preoccupare." Aveva preso quell'abitudine negli anni, ma lo sguardo rivolto verso le dita arcuate di Aethrei dimostrava l'inefficacia della pratica. 

"Credimi," lo prese per le spalle strattonandolo, "un giorno supererai questa paura. Le tue ali aspettano solo che tu riesca a fidarti di loro."

Sebbene puntassero nella stessa direzione, i loro occhi guardavano scenari differenti.

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