Capitolo 22

25 She'th Ghar 1842 (calendario di Haksh) – Khrimbetka; Bhimbetka

Boldegan era un fiero giaguaro di Bhimbetka, ge'th che si trovava a svariate centinaia di foreste a nord di Haksh, e quella mattina si stava recando al tempio per pregare l'inizio dell'accademia che le nuove leve avrebbero compiuto poche lune a venire.

Mentre era seduto all'interno del faltog, il treno elettrico sopraelevato che lo stava portando a destinazione, pensò a tutto ciò che avrebbe dovuto e voluto insegnare. Le sue pupille verdi, macchiate da alcune piccole imperfezioni, si riflettevano sulla superficie trasparente del vagone  e ammiravano distrattamente il tragitto che quella freccia di metallo stava compiendo tra i tetti della città tagliati da una rotaia aerodinamica. L'assenza di rumore del mezzo fece rimbombare le sue ansie in una sequenza confusionaria di informazioni, come se fossero state sfogliate frettolosamente per poter essere di nuovo comprese. Era da poco stato nominato accademico con sua grande sorpresa e la mente, nostalgica e appesantita, ritornò agli anni in cui fu lui uno studente: una grande gioia ma anche una grande fatica.

All'improvviso si ricordò di dover comunicare a Mithal, un barbagianni austero e mingherlino, segretario dei teocrati, il numero esatto di fascette azzurre da dare ai ragazzi: trentasei secondo gli ultimi aggiornamenti.

Era consapevole di essersi fatto carico di troppe preoccupazioni; oltre al nuovo ruolo, che lo aveva felicemente scombussolato, non riusciva a non rimuginare sulla grande particolarità di quell'anno. Assieme agli altri undici teocrati, aveva affrontato numerose assemblee per decidere come controbilanciare il dono di quel "talento elevato", mai verificatosi prima d'ora.

Cardine imprescindibile della loro fede e della loro politica era l'equilibrio professato da Betka, ascetico fondatore del ge'th. Quel numero di otzi aveva un significato che avrebbero dovuto scoprire, altrimenti la bilancia del mondo ne avrebbe risentito.

Boldegan guardò le sei fascette attaccate al braccio sinistro, delle porzioni di pelo maculato spuntarono tra gli spazi. Le risistemò affinché fosse tutto ordinato: per gli abitanti di Bhimbetka rappresentavano l'identità sociale e il giaguaro lasciava che la sua poca vanità desse a ognuna il giusto risalto.

Alla nascita ogni padre regala al proprio figlio una fascetta ocra con il proprio animale cucito sopra; lui ne ricevette anche una bianca in quanto resh be'th puro, possessore dell'hosi, come dicono a Bhimbetka.

La fascetta azzurra con una linea marrone la ottenne invece appena iniziò l'accademia e la sua abilità nel riconoscere le sostanze minerali gli portò grandi onori: due nastri gialli. Uno per aver riprogettato la costruzione degli edifici con un nuovo collante ricavato dalla marna, più resistente e lavorabile della pozzolana; l'altro per aver ottenuto il ruolo di accademico del sapere.

L'ultima stoffa però, quella rossa, era la più importante per lui. La conquistò cinque anni prima diventando nuovo teocrate di Khrimbetka, la capitale. Teneva molto a quel ruolo perché, fin da bambino, aveva sentito come suoi i principi di Betka. Nei momenti di sconforto ripeteva spesso questa formula: 

"L'equilibrio è fonte di vita e di giustizia, accettare gli opposti come naturali porta al movimento positivo della benevolenza". 

Ma, nonostante tutto, era proprio quest'ultimo nastro porpora, assieme ai dogmi che incarnava, che lo stava tormentando.

Il Circolo, organo religioso e politico di BhimBetka, aveva dato una spiegazione plausibile e concreta al miracolo dei trentasei hosi. Aveva interpretato infatti la presenza di quei ragazzi come la ricompensa per gli ultimi 360 anni di pace tra le varie città del ge'th; era quindi giusto godere di quell'abbondanza che tutti i resh be'th si erano meritati.

Sebbene riconoscesse la validità di questa visione e non potesse negare l'assenza di conflitti, Boldegan era l'unico a pensarla diversamente. Nelle assemblee si oppose a quella lettura degli eventi richiamando i numerosi episodi di ostilità latente e di corruzione lasciati sottobanco: come la compravendita di cariche pubbliche nel 1765 o il compromesso con il gruppo ribelle dei Chakich, puristi dell'alimentazione, durato oltre trent'anni sul finire del 1600. Erano eventi che non potevano essere ignorati.

Per il giaguaro il numero elevato di hosici era un'importante prova di bontà che Betka stesso avrebbe voluto superassero: la presenza di questo enorme talento doveva essere ripagata.

"In che modo dovremmo ripagare questa bontà? Con un sacrificio?"

Fu questa la grande obiezione postagli da tutti nell'ultima assemblea.

Boldegan sapeva che un'offerta di questo tipo a Betka non sarebbe stata né sufficiente né giusta: immolare trentasei anime avrebbe convertito il rito in una carneficina. Era in crisi, sapeva di avere ragione ma non riusciva a trovare una risposta da dare. Questa discordia interna era alimentata dalla paura di perdere credibilità o, peggio, il suo ruolo e i privilegi annessi. Poteva rivoluzionare quel sistema troppo adagiato su precetti resi comodi e piatti, ma era solo contro molti.

Scese dal faltog e si posizionò sulla pedana di discesa a pressione idraulica; una piccola folla lo vide e gli si radunò attorno per ricevere una preghiera o una benedizione. Rispose ai saluti di quei resh be'th ocra in quella piccola piazza, dedita al mercato agricolo, e si avviò al tempio con più dubbi che certezze, mentre gli aromi delle spezie e degli ortaggi di campo lo accompagnarono indicandogli una strada conosciuta.

Due panda rosso di pietra sorridenti, autorevoli e speculari sorreggevano delle pietre angolari. Quelle semplici statue dipinte, mostravano uno degli ultimi insegnamenti di Betka. Anche i resh be'th più ingenui e semplici avrebbero potuto comprendere il messaggio. Bastava concentrarsi sulle code turgide e inanellate del resh be'th, curvate ad arco, per vedere come le due spinte opposte che rappresentavano avrebbero trovato un equilibrio. I più scettici vedevano solo una bellissima opera scultorea che rendeva omaggio alla via principale lastricata di sampietrini. 

Boldegan si perdeva nell'ammirarne la grandiosità. Si disse che avrebbe portato lì i suoi accademici per discutere di insegnamenti morali e di composizione mineraria. Ma l'innocente sorriso che spuntò sopra il pizzetto biondo svanì quando scrutò gli accoliti del gran teocrate Dobry svoltare verso la sua direzione. Si potevano riconoscere perché, oltre all'abito fatto di spini sintetici, portavano sempre degli stendardi con il suo ritratto penzolante al vento.

Merda! Di sicuro ci sarà anche quel riccio pomposo.

Il giaguaro non sopportava la falsità di quello che era il resh be'th più importante del ge'th. In pubblico sapeva che sarebbe stato elogiato in maniera ipocrita con mezzi sorrisi e pacche amichevoli, ma nei Circoli avrebbe a malapena ricevuto un cenno o uno sguardo: era considerato l'ultima ruota del carro. 

I loro rapporti erano peggiorati ulteriormente da quando il teocrate aveva espresso l'altra spiegazione dei trentasei. Non solo aveva contraddetto il suo governatore, ma ciò fece ritardare di altri dieci giorni l'approvazione della proposta espressa quasi in maniera unanime.

Per questi motivi, Boldegan decise di rifugiarsi in una piccola stradina laterale, sarebbe arrivato in ritardo, ma non avrebbe dovuto sopportare più del dovuto la presenza del riccio.

La sua immaginazione inscenò numerose situazioni di diverbio tra i due resh be'th e Boldegan riuscì a zittire il governatore Dobry in ogni frangente. Riuscì a distrarre la sua subdola soddisfazione leggendo le pietre ornamentali delle abitazioni: erano dei piccoli blocchi di marmo che, allineati, narravano la storia della famiglia proprietaria tramite affreschi. Di colpo, si incuriosì nell'osservare le esplorazioni compiute da uno struzzo, capofamiglia della casa che stava costeggiando. Finalmente, la sua lunga coda ondeggiò rilassata e la sua mano lisciò la barba maculata.

"Teocrate Boldegan." Si sentì chiamare alle spalle da una voce sconosciuta. Non appena si voltò per rispondere, venne colpito in volto da una spessa tavola di legno.

Il giaguaro si svegliò qualche ora più tardi nel proprio letto con un grande mal di testa e un importante taglio sul naso. La luce del sole, filtrata dalle tende di seta bianca, rendeva la stanza calda e accogliente. Gli venne il dubbio se avesse o meno annaffiato i gerani sul piccolo davanzale, ma un'ombra, che non riusciva a mettere a fuoco, gli impedì di controllare. 

"Nima, cara!" chiamò la moglie reggendosi sui gomiti e strizzando gli occhi.

"Nima è uscita, tornerà presto." Un esile barbagianni dall'espressione gentile era intento a osservare quei fiori viola e bianchi. "Era ora che ti alzassi" disse senza nessun accento e girandosi verso il teocrate.

"Chi diavolo sei tu? E dov'è mia moglie?!" si allarmò Boldegan mentre tentava di tirarsi su. A colpo d'occhio constatò che potesse essere leggermente più giovane di lui.

Il barbagianni sorrise e si mise una mano sulla fronte. Aveva dei calzoni bianchi simili a una gonna lunga e una camicia di seta nera con delle strane decorazioni lineari dorate. Uno stile molto diverso da quello bhimbetkiano fatto di leggere giacche di cuoio smanicate e pantaloni di canapa morbida.

"Come faccio a spiegarlo senza sembrare ridicolo? Vediamo, io..." Picchiettò due dita sulla bocca glabra, "sarei la tua coscienza. Ricordi la botta che hai preso? Ecco, ti sta facendo avere un piccolo stress allucinatorio e ta-da! Puoi vedermi."

"Ma cosa stai dicendo? E soprattutto, come parli? Dimmi chi sei in realtà."

Cercò di ricollegare gli eventi e arrivò all'unica soluzione logica:

"Sei stato tu a colpirmi in strada? Che cosa vuoi, dei soldi? Prendili, ma lasciami stare, non è una buona giornata" disse deciso.

"Perché non mi credi? Cosa devo fare per convincerti?" Offeso, il barbagianni si mise davanti a Boldegan.

"Non posso parlare con te, ho un Circolo importante ora." Si alzò dal letto sollevando il lenzuolo come uno tsunami e il barbagianni lo affiancò.

"Il Circolo era quattro ore fa, ormai sarà finito."

"Ma levati di mezzo." Con un braccio lo spinse via, ma la mano non toccò nulla: aveva attraversato il corpo di quel resh be'th. Boldegan rimase di stucco e si bloccò sulla porta della camera.

"Ma cosa?"

Il barbagianni strinse le labbra e distese gli occhi:

"Mi credi ora? Te l'avevo detto, puoi vedermi solo a causa della botta che hai ricevuto".

"Tutto questo non ha senso, devo sedermi. Nima, portami dell'acqua! Ah no, non c'è." Si accasciò sconfitto sul materasso di pellicce.

"Andrei io, ma... non posso" replicò il volatile dispiaciuto.

Il giaguaro si rialzò dal letto e si diresse verso la cucina guardando con paura e curiosità quello strano resh be'th; provò a toccarlo nuovamente più volte, la sua mano passò sempre oltre.

"Se sei la mia 'coscienza' come dici di essere, perché sei così... diverso? Ti rendi conto di essere tutto sballato? Non sei un giaguaro, non hai le fascette, vesti in modo strano e soprattutto parli in modo strano" puntualizzò elencando i fatti con le dita.

"È incredibile vedere quanto tu sia stupido! Sono la tua coscienza, mica un passante. È normale sia diverso da te. Hai presente la cosa che siamo fatti da tanti strati... No?! Be', io sono solo la tua parte più antica: il tuo primo sogno, se preferisci" nel dirlo si rimise in tiro.

Boldegan bevve un sorso d'acqua e l'osservò meglio, scosse la testa mantenendo il liquido in bocca.

"No, non ti credo. Potresti benissimo aver usato un incantesimo per diventare così. Pensavi davvero potesse funzionare con me una cosa del genere?" sorrise beffardo a quel truffatore illuso.

"Avevi quattro anni, stavi giocando con Nima e un gabbiano è volato contro di lei per prenderle un tozzo di pane. L'hai scacciato con un sasso. Da quel giorno hai deciso di proteggerla sempre e questo è il tuo primo ricordo di lei."

Il bicchiere di legno cadde a terra, nessuno lo sapeva. Lo confessò solo a sua moglie prima di sposarla. Era davvero davanti alla sua coscienza.

"Finalmente mi credi. Ohh, era ora. Certo che sei difficile però." Boldegan non rispose, rimase un attimo in silenzio.

"Perché proprio ora? Voglio dire, ho capito che ti vedo a causa della botta in testa. Ma perché ora? E poi chi è stato a colpirmi?"

"Non lo so, non l'ho visto in volto." Camminò fino alla porta d'ingresso e guardò fuori. Si fece serio come il giaguaro. "A ogni modo c'è qualcosa che ti turba? Come mai il Circolo di oggi era così importante?"

"Oggi si decideva una volta per tutte come interpretare l'evento dei trentasei."

"Ah, capisco, ma credo ci siano delle buone nuove, sai!?" Indicò la porta con il pollice e si allontanò.

Nima entrò in casa, aveva una busta piena di erbe e del cibo appena comprato, quando vide il marito in piedi, davanti a lei, lasciò cadere i sacchetti e corse da lui in un abbraccio.

"Meno male ti sei ripreso, Nam Betka. Come stai, amore?" Esaminò la medicazione sul naso per vedere se doveva essere sostituita.

"Ciao, Nima. Sto bene, tu ti sei spaventata?"

Il barbagianni era sparito.

"Un pochino, per fortuna il gran teocrate Dobry mi ha tranquillizzata. So che lo detesti, ma è stato molto gentile, nonostante tutto."

"Immagino, che gran resh be'th eh?!" disse in tono ironico e storcendo la faccia.

"È vero, ti dico. Anzi ha detto che avrebbe rimandato il Circolo a domani proprio per farti riprendere." Raccolse da terra alcuni mirtilli scivolati sul pavimento e iniziò a sistemare la spesa nei vari scomparti.

"Ha rimandato il Circolo?! Non può essere. Era la sua occasione per tagliarmi fuori. Ma che sta succedendo qui? Betka, mi scoppia la testa."

"Bol, mettiti a sedere e rilassati, lascia stare il lavoro per oggi. Ti preparo una tisana calda."

"Grazie cara."

Guardò verso il corridoio di casa e il barbagianni era lì, con le mani conserte; sorrideva contento e annuì al giaguaro.

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