Capitolo 17

1 Mo'hg Ba'haral 1842 – Cripta Samath; Haksh

Un urlo disumano uscì dalla bocca del ragazzo tigre, squarciando quell'atmosfera di spasmodica attesa che si era creata. Le sue pupille si incendiarono di rosso e il mio volto apparve per un istante sovrapposto al suo: un volto senza bocca, pallido e con la criniera di leone.

Quella stretta di mani si interruppe in un istante e tutto tornò a una finta normalità. I ragazzi iniziarono a sentirsi vulnerabili e prigionieri degli eventi in quella cripta che divenne improvvisamente tetra e soffocante. La tigre guardò nel vuoto e balbettò parole incomprensibili, il suo sconvolgimento fu tale che non riuscì a trattenere la saliva in bocca. Nonostante il suo corpo muscoloso, perse ogni forza e si ingobbì tremante. Gli artigli sulle zampe s'incagliarono nel terreno, ma senza aggressività. Nessuno avrebbe più voluto sottoporsi a quella prova.

Per millenni ho visto generazioni di resh be'th infrangersi contro di me e chiedo scusa per la crudezza con cui parlerei adesso, ma il mio cuore con il tempo si è irrigidito, o meglio, ha accettato questo compito. Molte volte mi sono domandato se la prova fosse stata mia anziché loro, come se avessi dovuto imparare a guardare le cose non in maniera particolare ma globale. Era necessario lo shock che provocavo in questi ragazzi? Sì. Mi dispiaceva per ciò che gli facevo? Sì. Provavo ancora dolore? No. Ero certo di essere sulla strada giusta, ma il dubbio di aver sbagliato qualcosa non mi ha mai abbandonato.

Il preside Shoudhe sussurrò a quel ragazzo parole gentili e lo abbracciò; la disperazione nei suoi occhi prese a diradarsi, come le nuvole cupe dopo un temporale. I resh be'th non proferirono parola: solo gli sguardi cominciarono a gridare la loro ansia e il loro smarrimento, ma furono zittiti dal dovere e dall'intransigenza dei maturatori; K'eirh mantenne a stento il suo ruolo, alcune lacrime le rigarono il viso da opossum.

Nonostante il tempo continuasse a scorrere inesorabile, all'interno di quella grotta tutti si trovarono a vivere uno stato di eterno presente. Il pulsare dei cuori resisteva, scandendo dei secondi che ormai non appartenevano più a nessuno. Jamgha'l alzò la testa, si asciugò come poté il viso e annuì.

"Non dimenticare e prosegui il cammino", disse Shoudhe in tono solenne al resh be'th appena rinato.

"Non dimenticare e prosegui il cammino", ripeterono i maturatori in coro.

Il coraggio, seppur molto debole, stava tornando a far parte dei ragazzi. Sapevano di non potersi tirare indietro e in fondo, anche se videro il loro mondo sconvolto in un istante, non lo volevano nemmeno. Erano curiosi di sapere cosa fosse quello che, nella loro mente, resisteva ancora come un dono del Monte. Uno dopo l'altro, si apprestarono a stringere la mia mano e la scena si ripeté sempre uguale e sempre carica di quel terrore annichilente. La formula pronunciata era l'unico barlume tra l'urlo e il silenzio rituale.

Fu il turno di Ak'uira, vedevo la sua mano tremare. Il suo corpo si trovò scisso in due: fobia ansiosa da una parte e automatismo del movimento dall'altra. Non voleva stringere quella mano, ma lo stava già facendo; sapeva di doverla toccare, ma sperava di trovare un altro modo per cominciare il suo destino. Pensò a un milione di cose differenti e confuse tra loro. Era troppo tardi, la sua mano strinse quella del Samath.

Una piana rocciosa immersa in un altopiano. La piacevole giornata era resa ancora più gradevole dal sole di mezzogiorno. Davanti ad Ak'uira si stagliava un'immensa roccia, alta alcune lance, con delle nicchie naturali. Sulla sua cima era posizionato un nido molto resistente, fatto con i rametti degli alberi circostanti. Delle piccole venature di muschio davano l'impressione di essere le radici di quel rifugio dal quale facevano capolino delle piccole testoline ossute.

Dei cuccioli di aquila testa bianca stavano gridando in attesa che i loro genitori tornassero con del cibo. Un senso di quiete familiare lo convinse a cercare un modo per poterli raggiungere e accudire momentaneamente.

Non appena mosse i primi passi, un'ombra lunga e spigolosa si parò sopra il suo sguardo. Dietro il nido, si palesò un essere mostruoso che non fece fatica a riconoscere. Il volto impresso su ogni altro ragazzo era di fronte a lui e lo fissava minaccioso. Una strana alchimia tra orrore e incanto lo paralizzò.

I miei occhi gli ricordarono qualcosa di lui: un sentimento lontano che non aveva il tempo di scoprire.

È veramente lui l'essere dal quale io, la mia famiglia, la mia razza e tutta la nostra specie derivano? Non è né un uccello, né nessun altro tipo di animale.

Tutto il mio essere gli risultò incomprensibile.

A differenza dei resh be'th, degli animali e di voi che avete una forma fissa, il mio corpo e quello della mia gente veniva modellato in base alle scelte fatte. C'era un motivo dietro il mio aspetto e fu proprio questo che ha permesso la loro esistenza. Ma non è il momento giusto per parlarne.

Ci fu un singolo istante di pura curiosità nel quale Ak'uira osservò le mie fattezze. Non possedevo delle gambe come lui, ma una lunghissima e possente coda blu con delle macchie nere. Il mio addome era scuro e più piccolo della mia testa; al di sotto, possedevo dei lembi di pelle simili a pinne. Sbattei le mie grandi ali con piume trasparenti, poste dietro un torace Rourok, per riportarlo alla realtà.

Distolse lo sguardo da me per una frazione di secondo, osservò il nido e mi fu sufficiente: lo notai anch'io.

"Fermati, cosa vuoi fare?" gridò mentre iniziai a volteggiare davanti al nido.

Lo afferrai con molta cura e, nel salire di quota, sfidai quel resh be'th troppo spaventato per contrastarmi. Ak'uira non sapeva cosa fare, cosa pensare, cosa guardare; riusciva solo a fissarsi febbrilmente sui cuccioli. Era chiaro non avessi buone intenzioni, ma non riusciva a capirne il senso. Sarebbe cambiato qualcosa se avesse compreso il perché dietro quelle mie azioni? Per lui sarebbe cambiato tutto. Se avessi avuto un motivo per strappare dalla roccia quel nido, anche il più futile, avrei attenuato il senso di colpa e di autocommiserazione che si stava facendo strada in lui: potevo vederlo. Era patetico.

Ak'uira voleva salvarli, si vedeva, anche il suo corpo era pronto all'azione, ma non ne fu convinto: non era abbastanza. Ho cercato quindi di stimolare una sua reazione.

Uno stridio in lontananza.

Rapido volò verso di noi quello che sembrava essere il padre dei piccoli d'aquila. Era un animale splendido, maestoso e caricò violento pronto a ghermirmi. Ak'uira trasse un sospiro di sollievo che durò poco. Afferrai con l'altro braccio la testa del rapace, le sue ali sbatterono furiosamente e i suoi artigli cercarono inutilmente di scalfirmi. Chiusi il pugno e quelle ali non si mossero più; del sangue grondò a terra.

Lasciai cadere ai suoi piedi quell'aquila dalla testa schiacciata. Con l'impatto, uno schizzo di sangue gli si posò sulla zampa. Una piccola parte del ragazzo era consapevole che tutto ciò fosse un'illusione, una sorta di magia della mente in grado di portarlo da un'altra parte durante uno stato di trance, ma quell'aquila era morta per davvero.

Il calore del sangue che gli colava sulla pelle grinzosa fu la sensazione più vera che avesse mai provato. Era realmente lì. Si sentì come gettato in un limbo, brancolava tra il dubbio e la verità. Il dispiacere e la rabbia per quell'atto lasciarono il posto a una sensazione che non aveva mai provato così intensamente: paura di morire. Mi sarebbe bastato un secondo per ucciderlo e da come lo guardavo, sapeva che potevo farlo. Un brivido lungo la schiena gli irrigidì le ali, una goccia di sudore attraversò velocissima il suo viso e si nascose nel poco piumaggio del petto.

Vedeva tutto a rallentatore, ogni suono e sensazione divenne ovattata. Il suo cuore e il suo respiro gli inondarono le orecchie con un ritmo sempre più incalzante, rendendolo ancora più confuso e frastornato.

Avevo fallito?

I cinguettii impauriti di quegli uccellini lo riportarono alla ragione: cercò d'inventarsi qualcosa. Guardò l'animale a terra con tristezza, si accovacciò e la depose delicatamente di lato.

Mi serve un modo per attaccare quella cosa e recuperare il nido. È solo un sogno, non mi succederà nulla. Calmiamoci. Un passo falso, basta solo quello! Così potrò correre sul primo appiglio di roccia per saltare. Non lo raggiungerò, ma almeno potrò afferrare al volo il nido se dovesse scagliarlo a terra.

Conoscevo tutto ciò che stava pensando e non era minimamente sufficiente. Dovevo fare qualcosa che lo scuotesse realmente: doveva volare. Decisi di metterlo sul serio di fronte a sé stesso, il tempo delle minacce era finito. Ora stava a lui muoversi, non volevo mi deludesse.

La mia coda salì lentamente fino al braccio che teneva il nido e pescai un aquilotto. Sollevai quel piccolo prendendolo per l'ala nuda, così poteva continuare a cercare aiuto. La roccia al mio fianco si sporcò con una macchia di sangue e piume.

L'urlo di Ak'uira riecheggiò per foreste, ma non mi importava e continuai. Ne afferrai un altro e iniziò a correre sbattendo le ali: voleva raggiungermi a ogni costo. Proprio questo volevo, c'era quasi.

Lanciai il secondo piccolo verso uno spuntone lontano. Ce la poteva fare, stava accelerando. Non appena quella vita si separò dalla mia coda, Ak'uira si arrestò incredulo e perse tutto. Il piccolo divenne troppo lontano. Il resh be'th cadde in ginocchio e pianse, non era stato in grado di fare nulla e per colpa sua avevo ucciso tre vite davanti ai suoi occhi.

Sono morti. Che vuole da me ora? Perché mi si è messo davanti? Per Haksh, è rimasto un piccolo. Devo prenderlo. Lascialo stare, se lo prendi con entrambe le mani in quel modo gli farai male. Fammelo prendere. No!

Perché l'hai fatto? Potevi lasciarlo a me, potevi risparmiarlo. Potevi... potevo essere più forte. È soltanto colpa mia. Come posso sperare di salvare qualcuno se non riesco nemmeno a volare?

Con le mani sporche di sangue mi lavai il viso e Ak'uira vide sé stesso come in uno specchio. Portai le mie braccia sulle mie ali, Ak'uira fece lo stesso ipnotizzato.

Strappammo entrambi con forza.

"Sei stato bravo", sussurrò Shoudhe nella cripta.

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