Capitolo 1

20 Mo'hg Ghar 1842 – città di Harsha; Haksh

Visto dall'alto, Haksh era tra i ge'th più belli mai costruiti. Non era evoluto tecnologicamente come molti altri, ma, nella realizzazione delle città e dei villaggi, era evidente il rispetto per la terra su cui poggiavano: ogni cosa cercava di essere in armonia con il paesaggio. La mano resh be'th incedeva infatti con un passo delicato, come a chiedere permesso, su dolci colline che si stiravano fino a valle. Erano vestite di campi e di boschi tranquilli, e scivolavano verso un mare accogliente che non aveva mai urlato la sua forza.

Il monte Haksh, dal quale il ge'th e la capitale prendevano il nome, con i suoi famosi tre picchi e la sua catena montuosa a semiluna, circondava e difendeva il confine occidentale. Come un augurio, il suo nome voleva dire dente che protegge e tutti gli abitanti dovevano molto a questo rilievo. Era più di un semplice simbolo: era l'origine stessa della loro vita.

Il grande fiume Malk'eari, nato tra le sue rocce, oltre a essere un'importante fonte di sostentamento per la pesca interna, aveva permesso la realizzazione di una vastissima e capillare rete di canali per l'irrigazione delle risaie e dei campi di grano.

Era proprio all'interno di uno di questi che Ak'uira stava lavorando. L'indomani si sarebbe compiuta la verifica per il maturamento e, sebbene tutti sapessero che possedeva uno di quei rarissimi otzi, lui avrebbe preferito rimanesse una faccenda personale. Da quando si era sparsa la notizia dell'arrivo del nobile Thoeri, nonché uno dei maturatori, il suo rapporto con gli altri agricoltori era cambiato radicalmente. La loro umiltà e schiettezza si era trasformata in timorosa riverenza, come se fosse diventato tutt'a un tratto un re. Ogni compito pesante gli veniva tolto gentilmente: "Non sia mai che un otzico fatichi nei campi come noi umili resh be'th". Ma fin dove riusciva, l'aquila rifiutava l'aiuto cercando di celare il proprio imbarazzo.

Questi atteggiamenti erano dovuti soprattutto alla speranza di un anno senza inverno. Si diceva infatti che, quando un resh be'th con un otzi sul corpo fosse entrato nel monte Haksh, l'inverno non si sarebbe presentato. Trattare bene questi 'eletti' avrebbe portato ricchezze maggiori alla propria famiglia. Il Culto dei Fondatori si basava proprio su tali primavere anticipate, ma la popolazione non conosceva i meccanismi che la governavano.

Questa nuova dinamica metteva a disagio Ak'uira, lui non si sentiva cambiato e non ne aveva intenzione. Nonostante sapesse che alla conclusione del maturamento sarebbe stato destinato a ricoprire delle grandi cariche politiche, non ne era interessato: la sua vita era quella e gli andava bene così.

Controllò lo stato di alcune spighe sorvolando con la mano le reste, erano pronte per la mietitura. Il sole, appena emerso dalle acque orientali, si rivelò clemente nella potenza dei raggi, perciò il resh be'th afferrò la lunga falce e iniziò a dare colpi esperti e decisi prima che il calore fosse troppo intenso. Lungo la via passarono due operai diretti al mulino più a nord, lo stesso dove lavorava suo padre. Riconobbero le ali nere spuntare tra il grano e così approfittarono dell'occasione per omaggiare quel portatore di otzi.

"Già chino sui campi di prima mattina, signor Ak'uira? Vostro padre ci ha informati di domani. Vi porgiamo i nostri migliori auguri" esclamò il primo accompagnato dal secondo.

Una lucertola e una donnola che ben apprezzavano il buon cibo e il buon vino dato l'imponente stomaco che presentavano; il contrasto con le braccia toniche e nerborute era palese.

Sollevatosi per vedere chi lo avesse salutato, Ak'uira ricambiò la cortesia con un gesto della mano e con un sorriso che non nascose l'impaccio. Immaginò subito il padre: pronto a bloccare chiunque gli passasse davanti per ricordargli di suo figlio e delle cose cui era destinato. Aethrei era un resh be'th semplice e onesto, non lo faceva per vantarsi: era solo un'aquila entusiasta e che, tramite i conoscenti, voleva spronare quel giovane poco convinto.

Era tardo pomeriggio quando il ragazzo finì di mietere l'ultima porzione di campo per quell'estate ormai conclusa. Da lì a pochi giorni sarebbe iniziata una nuova semina e lui se la sarebbe persa. La trepidazione per il maturamento era infatti in costante conflitto con il dispiacere di perdere la crescita dei nuovi germogli. Depose l'ultimo carico di spighe nel carretto, lo pressò con la lama curva e si avviò al mulino.

La leggera brezza era a favore, perciò spalancò le ali per proteggere il carico e per refrigerarsi. Adorava la dolcezza dell'aria che filtrava dalla canotta per volatili; le piume potevano vibrare, simulando la libertà per cui erano nate e per cui fremevano ardentemente.

Guardando la sagoma del monte Haksh in lontananza, pensò a quanto fosse bello lavorare in giornate così e lo ringraziò come sempre. Il duro lavoro nei campi, la cura e passione, scaldavano il cuore della montagna e questa, come ricompensa, distribuiva il sole e la pioggia quando erano necessari. Per questo tutti i resh be'th avevano offerto, alla fine del mese She'th Ghar, parte del proprio raccolto al fiume Malk'eari e avevano pregato per la venuta di altri nuovi otzici.

Quello che Ak'uira e gli altri abitanti non conoscevano, era che il clima a Haksh – come negli altri ge'th – era modellato da un grande velo invisibile a forma di cupola chiamato Bozanj; nella cultura in cui era stato concepito significava protezione. Questa patina ricopriva l'intera regione e isolava il ge'th dall'esterno: la vita al di fuori di questo scudo era ignota.

Nessuno oltrepassava mai i suoi confini, se non in casi rari e specifici. Esternamente, il mondo si stava consumando e i vari ge'th non erano diventati altro che delle piccole oasi che fagocitavano la salute stessa della Terra.

Ak'uira si diresse a casa, sapendo che ad aspettarlo c'erano tre cose: l'affettuosità della madre; l'allegria, a volte esagerata, del padre; ma, soprattutto, una delle infinite storie della nonna. Gliele narrava fin da quando era piccolo, erano il suo modo per dimostrargli affetto oltre che essere una deformazione del suo otzi, dovuta alla vecchiaia. Anche lei ne possedeva uno e non faceva altro che raccontare, sia perché credeva fosse il suo dono sia perché non la faceva pensare.

Venticinque anni prima le era venuto a mancare il marito e fu colta da una forte depressione; aveva perciò deciso di cedere tutti i suoi beni – ed erano numerosi dato il suo status sociale – al vecchio governatore di Haksh, sua grande amica, e si era ritirata con la figlia nella città di Harsha. Da lì a pochi anni, questa si era sistemata e aveva dato alla luce un bambino, a cui l'anziana aquila aveva chiesto di dare il nome del suo defunto marito.

Appena rientrato nella piccola casa, e salutato le due donne, il ragazzo fu subito afferrato dal braccio della vecchia aquila che lo portò vicino alla sua poltrona di vimini, dove era seduta fino a qualche secondo prima. Si accomodò con lentezza e cominciò. Vista l'importante giornata successiva, decise di estrarre dal repertorio la leggenda sugli otzi, strani simboli con i quali poteva nascere un resh be'th su un milione.

La fascinazione che Ak'uira aveva da bambino per quella storia maturò in speranza di risposte. Voleva credere che dietro quei simboli ci fosse un motivo importante: uno di quelli che definisce chi si è. Quando ci pensava, strofinava sempre il suo polso destro dove era impressa una spirale vorticosa a tre fasce azzurre.

Gran parte delle caratteristiche su di essi le aveva ricevute semplicemente osservandolo; conoscere altri dettagli era impensabile. C'era una grande ignoranza mascherata da mistero su di loro, inoltre qualsiasi informazione era preclusa alla gente comune. Chiedere a sua nonna era una pessima idea, sapeva che non lo avrebbe lasciato in pace prima di tre ore; perciò aspettava e sognava: tra non molto avrebbe ottenuto tutte le risposte.

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