Chapter Twentyfive - Part One: True friends stab you in the front

"It's funny how
Things work out
Such a bitter irony
Like a kick right to the teeth
It fell apart
Right from the start
But I couldn't even see
The forest for the trees
(I'm afraid you asked for this)
You got a lot of nerve
But not a lot of spine"

- Bring me the Horizon, True friends

Seth ed io abbiamo parlato. Poco, ma comunque lo abbiamo fatto.
Nel restituirgli il telefono ho cercato di mantenere un contegno che addosso sentivo estraneo, uno scialle fastidioso che non sapevo come farmi andar bene - e quasi certamente lui deve averlo notato. Mi ha fissata per lunghissimi minuti, soppesando le mie parole al pari di un mercante con l'oro e, alla fine, mi ha baciato la fronte con talmente tanto trasporto che ho temuto non mi lasciasse più andare; ma avevo bisogno di allontanarmi dalle sue braccia. Dentro di me sentivo urgere sempre più la necessità di piangere, di liberare la tensione accumulata, però non volevo in alcun modo che lui lo vedesse.

Anche se forse l'ha capito.

Quella sera non mi ha chiamata, probabilmente conscio del mio bisogno di metabolizzare un evento tanto destabilizzante, piuttosto si è concesso un messaggio che, ad oggi, esattamente trentotto ore dopo, continuo a rileggere come un mantra.

"Te l'ho promesso".

Ma ciò non toglie che a dividerci ci sia un abisso chiamato "esperienza", uno spazio tanto ampio da terrorizzarmi - e se io non posso dargli quello che vuole, o a lui non interessa che io lo faccia, la sua promessa potrebbe essere infranta? Potrebbe, alla fine, decidere di spezzarmi il cuore?

Non lo so e a dire il vero vorrei non chiedermelo. Temo la risposta, così come temo di aver issato tra noi un muro invalicabile.

E se avessi rovinato tutto? Potrei aver accidentalmente mandato a puttane la mia unica possibilità con lui?

Sbuffo, spostando lo sguardo dalla finestra al centro della stanza, lì dove altre quindici ragazze discutono senza sosta da quasi un'ora: di cosa, però, mi è oscuro. Già, perché se le mie giornate non fossero già di per sé frustranti, a peggiorare la situazione sono arrivate anche le riunioni pomeridiane delle alunne dell'ultimo anno della Saint Jeremy - ore di totale segregazione accerchiata da donne con il periodo mestruale allineato a tal punto da agitare persino il più temerario tra gli eroi. E me, ovviamente. Ma se da un lato mi sento morire al pensiero di passare i prossimi due pomeriggi rinchiusa qui dentro ad ascoltare il loro vociare civettuolo e confuso, dall'altro provo anche un certo sollievo. Restando all'interno dell'edificio scolastico non ho modo d'incontrare Seth e dovergli spiegare il mio momentaneo allontanamento, anche se la ragione pare ovvia: l'imbarazzo è una brutta bestia.

Fingendo d'interessarmi alle questioni che riguardano il corpo studentesco giro uno dei fogli abbandonati sul mio banco, provando a capire a che punto della discussione ci troviamo - ma a distogliere il mio già latente interesse ci pensa una ragazza della prima fila: «Ma Misha che fine ha fatto?»

Le altre paiono riscuotersi, forse rendendosi finalmente conto di quanto tempo sia trascorso dall'uscita della loro beniamina - un dettaglio che io, invece, nemmeno avevo realizzato. Così, mentre loro iniziano a blatera su dove possa essere la tanto incredibile signorina MacCoy, io balzo giù dal bordo del tavolo urlando: «Ci penso io, ve la trovo in un baleno!» Il sorriso che forzo pare voler bucare le guance.

«Tu, Raven?» mi domanda allibita qualcuna delle compagne. Di certo sarei l'ultima delle loro scelte, vista la poca simpatia che scorre tra noi, ma allo stesso modo, con la scusa giusta, tutto appare accettabile, meno... insolito.
«Beh, devo andare in bagno, quindi uniamo l'utile al dilettevole, no?»
Le megere intorno a me si scambiano sguardi confusi, commenti sussurrati, ma alla fine cedono di fronte a una simile offerta - i loro meravigliosi deretani potrebbero rovinarsi nel compiere movimenti inutili, inoltre non c'è alcun belloccio che possa osservare la loro rotondità quasi perfetta; tanto vale lasciar andare l'indesiderata del gruppo.

«Dille che abbiamo bisogno di lei, ci serve il suo parere».

E anche se la lingua freme all'idea di poter rispondere con qualche seccante battutina, mi trattengo per non perdere l'occasione di sfuggire alle loro voci stridenti. Invece di concedermi l'ennesima cattiveria allargo il sorriso, poi, compiendo poche falcate, mi precipito fuori, liberandomi finalmente di loro.

Un sollievo sempre più intenso si fa largo in me, così, mentre svicolo per i corridoi deserti dell'istituto, stringo tra le dita il pacchetto di sigarette che nascondo nella tasca e, piuttosto che andare alla ricerca di Misha, decido di mettere nuovamente a repentaglio la mia condotta scolastica dirigendomi verso i bagni delle classi inferiori, gli unici che sono certa essere vuoti.

Passo dopo passo avanzo, sorpassando le aule dove altre studentesse si stanno confrontando sui loro programmi e porte chiuse, al cui interno non vi è più nessuno. Sto attenta a non farmi intercettare da nessuno dei docenti ancora presenti nell'edificio e, una volta arrivata nei pressi della mia meta, mi concedo un sospiro.

Poteva andarmi peggio, penso, appoggiandomi con la schiena all'anta azzurro cielo e afferrando la maniglia gelida. Ciò che mi consola, comunque, è il fatto che appena questo supplizio sarà finito potrò supplicare Caroline di fermarsi a far merenda con me - che sia in qualche locale qui vicino, oppure a casa di una delle due poco importa: se c'è la sua compagnia il dove diventa irrilevante. Ho bisogno di lei, delle chiacchiere fugaci e di quelle un po' più complesse; mi serve un consiglio tra pari, non l'ennesima perla di saggezza che potrebbe riservarmi Josephine. Necessito di qualcuno che possa capirmi, non di una donna il cui ultimo corteggiamento risale al Medioevo - per quanto sono certa sia stato favolosamente fiabesco.

Osservo un'ultima volta la desolazione intorno a me, mi crogiolo qualche istante all'idea di potermi concedere della solitaria pace e, infine, abbasso l'asta di metallo, lasciandomi varcare la soglia come un gamberetto che raggiunge Atlantide - anche se a differenza di un luogo tanto mistico questo sa di disinfettante e candeggina.

Mi richiudo la porta davanti al naso, trattenendo il respiro, e lo faccio con una premura che si riserva solo ai momenti di estrema delicatezza. Attendo lo scattare della serratura poi, una volta certa di essere finalmente in salvo, mi lasciando andare all'ennesimo sospiro, socchiudendo gli occhi.

Nicotina, finalmente.

Peccato che, mentre l'estasi di poter concedermi qualche boccata dal filtro giallo prende forma, un gridolino assai ambiguo sopraggiunge alle mie orecchie, paralizzandomi tra l'imbarazzo e la sorpresa.
C'è qualcuno, oltre a me. E quel qualcuno, a quanto pare, si sta ampiamente divertendo infrangendo molte delle regole presenti all'interno del manuale di buona condotta dell'istituto - una raccolta di atteggiamenti che persino io, più volte, mi sono ritrovata a ignorare.

Ma a questo punto, trovandomi in una situazione tanto singolare, cosa dovrei fare? Non posso certo sgattaiolare via come un ladro, il rischio di essere scoperta diventerebbe terribilmente alto, ma d'altro canto nascondermi in una delle latrine accanto all'altro avventore di questi bagni potrebbe farmi passare per una maniaca: e allora come procedo? Resto qui e aspetto?
No, direi proprio di no. Piuttosto fuggo, almeno avrei il deterrente di aver lasciato la giusta privacy a chiunque si trovi qui con me.

Così faccio per abbassare nuovamente la maniglia e scappare via, ma i gridolini vengono presto coperti da una voce fin troppo familiare, un tono che conosco bene e che, improvvisamente, non mi fa più desiderare di fuggire. In me si fa largo l'annichilante consapevolezza di avere tra le mani l'arma perfetta per mettere a tacere una linguaccia biforcuta e ciò mi convince a restare.

«Mi sei mancata, ultimamente.»
Misha.
L'irreprensibile signorina Misha MacCoy, colei che avrei dovuto scovare nel dedalo di corridoi della Saint Jeremy, è il qualcuno nascosto come la sottoscritta in questi bagni. Ed è in compagnia. Due piccioni con una fava, se dovessi scoprire che con lei, a dar sfogo alle proprie voglie, c'è qualcun'altra delle sue amichette.

Lentamente mi volto, pregustando già il retrogusto di una rivalsa.
Aspetto questo momento da anni, per essere precisi dal giorno in cui ho scoperto il suo "segreto", in parte distruggendolo, e lei ha deciso di punirmi.
Sono stata zitta in vece di un rispetto che lei, a me, non ha mai dato, riempiendo le orecchie delle nostre compagne con pettegolezzi sempre più vili nei miei confronti e aizzando con maggior entusiasmo la loro riluttanza nel conoscermi - e adesso potrò avere la mia parziale rivincita.

Sento oltre l'anta della latrina alcuni movimenti, qualcuno che sbatte, che si riveste in fretta e nel mentre ridacchia piano, forse preoccupato di poter essere udito.

«Sei sempre impegnata con quella» sbuffa la rossa usando il tono che di norma riserva a me, alle rispostacce che mi lancia dal suo banco a metà aula - così muovo un passo, mi avvicino per avere una visuale più appagante. Voglio vedere l'espressione di sorpresa e ansia che la coglierà nel momento in cui si renderà conto di ciò che so e posso usare contro di lei.

La porta del gabinetto si apre pigramente, quasi non volesse realmente mettere fine all'incontro proibito che si è tenuto al suo interno e, insieme a Misha, esce anche un'altra voce: «Quella ha un nome.»
Uno sbuffo.
Aspetta...
«E si dà il caso che sia...»

Caroline.

Il cuore perde un colpo, forse un paio.
Mi sento mancare, sopraffatta da un'incredulità che mi nausea e mi fa perdere pian piano coscienza dello spazio intorno a me.
No, non può essere vero.
Non posso credere a ciò che sta succedendo, sto certamente sognando, eppure... alle spalle della mia compagna intravedo il suo caschetto biondo dalle punte amaranto: è arruffato. Scorgo le sue guance paonazze, prove inconfutabili di ciò che fino ad ora ho supposto stesse accadendo - ma anche le labbra gonfie e arrossate vogliono confutare ogni pensiero profano che ha preso forma nella mia testa.

Finalmente Misha mi nota, i suoi occhi si fanno grandi di paura e stupore. Dalla gola le esce un sussurro, il mio nome. La sua sorpresa riecheggia nella stanza come una baraonda, rimbalza sulle pareti, gli specchi, i sanitari ma lascia me intoccata e, appena le lettere prendo consistenza, Caro alza il viso su ciò che ha di fronte: la sua migliore amica. O quella che dovrebbe essere tale.
I nostri sguardi s'incontrano, restano sconvolti l'uno in quello dell'altra finché, d'un tratto, l'urgenza di vomitare mi impone di mettere distanza tra noi, di correre via.

Afferro la maniglia spalancando la porta e quasi mi colpisco la spalla nella frenesia della fuga. Mi lancio fuori dal bagno incurante di qualsiasi conseguenza: potrei andare a sbattere contro qualcuno, scivolare, essere rimproverata da qualche professore - ma nulla mi interessa se non andare il più lontano possibile da qui.
Ciò che ho visto voglio cancellarlo, ciò che ho sentito dimenticarlo, eppure non riesco e più ci penso, più mi sento male.
Arranco sui miei stessi passi, quelli che a ritroso mi portano in classe, mentre lo stomaco si gira e rigira nella pancia e nelle orecchie sento ancora i loro gridolini, il suono di un tradimento che ha quasi la stessa brutalità di una pugnalata piazzata tra le scapole. Avverto la lama di menzogne sprofondare nella carne, spezzarmi la spina dorsale per menomare la fiducia e le aspettative che avevo ricamato intorno alla nostra amicizia, ciò che ho atteso e bramato così a lungo da credere potesse solo essere una chimera nelle mie fantasie.

Mi precipito in aula e trafelata provo a raccogliere alla bene e meglio le mie cose - non posso restare, non ho la forza per affrontare la questione visti gli avvenimenti di questi ultimi giorni. Ho bisogno di tempo, di mettere in pausa ogni cosa intorno a me.

Così, mentre le altre mi fanno domande, io muovo spasmodicamente le mani e cerco di non scoppiare a piangere, ignorandole completamente. Possono chiedermi qualsiasi cosa, non riceveranno alcuna risposta: ho ben altro d'affrontare al momento.

Carico lo zaino in spalla, avanzando a grandi falcate verso l'uscita, ma appena arrivo sulla soglia dell'aula Caroline mi si para davanti, bloccandomi: «Aspetta, parliamone.» Dal modo in cui il suo petto si alza e abbassa capisco che mi è corsa dietro, così come il fatto che la sua divisa sia completamente sottosopra mi fa ben intendere che non si è preoccupata di nascondere le tracce di ciò che è accaduto con Misha. Non ha finito di rivestirsi, più preoccupata per me che per se stessa.

«Levati» ringhio, provando a non dar spettacolo agli occhi famelici delle ragazze alle mie spalle.
«No, ti prego!» Le dita di Caro, quelle che solo qualche giorno fa mi hanno dato sostegno e conforto, ora mi repellono, ma non per ciò che mi ha tenuto nascosto su di sé, che comunque è grave visto il nostro rapporto, quanto più perché hanno toccato e desiderato l'unica persona che negli anni ho imparato a odiare.

La scanso malamente: «Levati di mezzo e basta!» Quasi le urlo. E lei si paralizza. I suoi occhioni da cerbiatta si fanno rossi come il viso, mentre il labbro inferiore prende a tremare.
«Jay, p-per favore... i-io...»
So che sta per scoppiare in lacrime, la sua espressione è loquace, ma ora non riesco proprio a guardarla in faccia e vedere l'amica a cui mi sono affezionata - per me è solo una traditrice.
Alzo le mani, in modo che lei non possa raggiungerle: «Stammi lontana, Caro» e i piedi riprendono a muoversi, allontanandomi da qui.

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