Chapter Thirty: Where is he?
"But dear I'm gone
And that's the lousy truth
For the past three years
I swear I've been a better man
Then who I become
I know I know I know
I left you down
But I've been gone
For to damn long"
- NeverShoutNever, Lousy Truth
Osservo mia madre. Vedo le labbra di Catherine muoversi, la sua espressione mutare tra e dopo ogni frase. Sta raccontando qualcosa, ma io non sento nulla, ho le orecchie tappate da batuffoli di cotone che provano a tener prigioniere le parole di Seth, quell'ultima domanda che riecheggia violentemente tra le pareti del cranio.
Vuoi davvero sentirmi dire che mi sono fatto la ragazza che voleva Charlie?
No. In realtà volevo sentirti dire tutt'altro. Avrei preferito che dalla tua bocca uscisse una verità meno scomoda, una motivazione più infantile, sciocca, risolvibile - ma tu fai le cose in grande, vero Seth? Se devi far male lo fai senza pietà, colpisci dritto dove il sangue viene pompato e fai un macello. Ora davanti a me vedo solo sangue: quello di Charlie, Jace e anche il mio. Hai tradito i tuoi migliori amici trattandoli come se non avessero alcun valore, così mi è stato impossibile chiedermi: quante ore sono passate prima che le tue labbra, da lei, si posassero su di me? Con quanta facilità ti sei chinato tra le sue cosce, prima di metterti in testa di prenderti il mio cuore? Perché se far loro del male è stato tanto semplice, farlo a me dovrebbe esserti risultato una bazzecola.
Gli occhi iniziano a bruciare e la consapevolezza di essere nuovamente a un passo dallo scoppiare in lacrime si fa preoccupante; non saprei nemmeno come giustificarmi di fronte a tutta la famiglia Raven. Cosa potrebbero pensare? Forse che sono impazzita; un esaurimento nervoso prima degli esami di maturità - chissà.
Sposto un asparago con la punta della forchetta, poi lo rimetto al suo posto. Non ho fame stasera e penso che non l'avrò per un po', quindi mi limito a giocare con il cibo illudendo i miei genitori di star mangiando, anche se, se si dovessero soffermare su di me, noterebbero l'inganno. E qualcuno di loro, d'un tratto, forse lo fa.
Liz mi tira una gomitata leggera, attira la mia attenzione. Per un istante mi pare venir risvegliata da un terribile e implacabile sonno, ma quando mi volto verso di lei strabuzzando gli occhi, vedo che con il mento indica il cellulare che ho appoggiato accanto al bicchiere. Lo schermo è rigorosamente rivolto verso il basso, come mamma comanda, ma si possono chiaramente vedere i bordi che, a intermittenza, si illuminano senza sosta, mentre la vibrazione lo fa cozzare ritmicamente contro il vetro della stoviglia. Lo fisso con un misto di timore e ribrezzo, senza però agire, finchè il vocione di mio padre non mi riporta definitivamente alla realtà, facendomi sussultare.
«Forse è urgente, tesoro».
Corrugo le sopracciglia.
«E' da quando ti sei seduta a tavola che continua a squillare».
Torno a fissare l'aggeggio.
Sì, lo so. Seth ha fatto passare giusto un paio di ore, probabilmente nella speranza che mi calmassi e tornassi da lui, ma io non ho ceduto e quando si deve essere reso conto che stavolta non ci sarà alcuna resa da parte mia, nessun nauseante desiderio di correre tra le sue braccia, ha iniziato a scrivermi e chiamarmi.
Ma come posso perdonarlo? Come posso lasciarmi avvolgere dal suo profumo, dal suo corpo e baciare dalle sue labbra sapendo chi è stato lì prima di me?
«Ha-hai ragione, papà. Scusatemi, non è nulla» allungo le dita e premo il tasto di spegnimento, mettendo fine al trillare - almeno questo affare può essere silenziato, mentre per le mie ansie è tutt'altra storia.
Ora capisco i timori di Jace, così come la diffidenza e l'allontanamento di Charlie. Dopo essere stato pugnalato da Seth deve aver pensato che anche io non gli dessi più alcuna importanza: avevo, anzi, ho ottenuto ciò che bramavo da anni e per questo, dei suoi sentimenti, ho smesso di preoccuparmene, diventando esattamente come Sharon e... Morgenstern, anche se mi fa male associare il suo nome a un concetto tanto ripugnante. Per Benton non sono diventata altro che la donna del fratello che l'ha ferito e, se lui è un traditore, io non potevo essere da meno.
Mi passo una mano sul viso, provando a tirar via le frustrazioni. Loro però sembrano incollate alla pelle del mento, delle guance, sulle palpebre e in mezzo ai capelli. Non c'è modo di staccarle senza strappare anche un po' di carne.
«Va tutto bene, Jane? Hai un aspetto... sbattuto» la mano di mio padre si appoggia con dolcezza sul polso che sorregge la forchetta, mi chiama, eppure mi sento nuovamente trascinare via dal presente: la mente non ne vuole proprio sapere di stare attenta.
Abbozzo un sorriso, ma sono certa di non rincuorare nessuno dei presenti; i loro sguardi restano dubbiosi e su di me, quasi avessi confessato qualcosa di terribilmente spiacevole - e forse sarebbe giusto sfogarmi con loro, dopotutto sono la mia famiglia. Forse dovrei dirgli che al momento ho il cuore a pezzi e mi sento la persona più orripilante della Terra, peccato che quando apro bocca dalle labbra mi esca tutt'altro.
«I-io... sì, sto bene. Sarà il ciclo. Posso andare a riposare?»
Vedo un lieve rossore riempire le guance di papà, tradendo la sua solita compostezza. Lui, che vive con tre donne da ormai più di venticinque anni, ancora non si è abituato a sentir parlare di simili cose e questo dettaglio pare essere la mia arma vincente. Annuisce senza porre ulteriori domande, non indaga per pietà del suo povero cuore: «Oh, sì, sì... certo».
«Vuoi una tisana calda? Qualche pastiglia per il dolore?» Catherine è subito in piedi, con le pantofole vaga per la cucina alla ricerca della propria borsa - perché nonostante l'imminente arrivo della menopausa ha ancora una scorta assai consistente di medicinali che conserva per poterci riempire i figli. Per ogni sintomo ha una diagnosi e, di conseguenza, qualcosa da farci ingerire.
«Forse dopo, mamma. Non ti preoccupare».
Vedo le sue spalle raddrizzarsi un po', testimoni mute dello stupore che deve averla colta nel sentire un tono tanto pacato e un "mamma" che raramente mi scappa di bocca, però non le do tempo di voltarsi per scoprire se ciò che ha udito è reale o un sogno. Mi alzo in fretta, afferro il cellulare ormai spento e sgattaiolo via - magari un po' di riposo riuscirà a farmi star meglio, a placare il caos di pensieri e sensazioni che mi attanaglia senza pietà.
***
Il giorno dopo, con lo zaino in spalla, la stanchezza post scuola e il timore di incrociare Seth a ogni cambio di direzione, mi ritrovo davanti a casa Benton. Le tende colorate si muovono nella brezza del pomeriggio, mentre una volta varcato il perimetro in mattonelle rosse le camelie di Molly mi accolgono in quello che è un minuscolo vialetto. Il profumo familiare di questo posto mi sfiora dolcemente, pizzica le narici con la scia della torta di mele che sicuramente sta cuocendo in forno, anche se il cuore resta incastrato nella gola bloccando l'acquolina.
Sono qui, ignara di ciò che devo dire, eppure alla disperata ricerca del perdono che Charlie ancora non mi ha dato, ma che mi auguro mi conceda ora. Così arrivo di fronte alla porta, prendo un grosso respiro e mi domando: sono pronta? Credo di sì, ma ogni volta che ho avuto una certezza il destino si è affrettato a farmi cambiare idea, quindi preferisco non dare nulla per scontato - forse nemmeno oggi riuscirò a sistemare le cose.
Butto fuori l'aria inspirata sperando che anche tutta l'agitazione esca con lei e poi, quando mi convinco di essere pronta, nonostante i tremori alle gambe, suono.
Il dlin-dlon del campanello riecheggia al di là dell'uscio, sento il rumore correre dall'ingresso verso la cucina, lì dove la finestra è aperta e il profumo prova ad ammaliare i passanti, me compresa.
Sento un'esclamazione, qualcosa che viene spostato e poi, nel giro di esattamente nove secondi, Molly Benton spalanca la porta, sussultando nel trovarmi in attesa - dopo tutti i giorni passati lontano da qui dubito si aspettasse di vedermi apparire praticamente dal nulla, soprattutto visto che non ho avvertito nessuno, nemmeno suo figlio.
«Oh, santo cielo, Jane! Cara che ci fai qua?» svelta prende a pulirsi le mani nel grembiule che ha indosso, il sorriso le si fa grande di gioia ora che mi ha riconosciuta, poi si sposta un poco in un muto invito a entrare - ed io non me lo faccio ripetere; un po' perchè così Charlie non avrà alcuna scusa per cacciarmi, un po' perchè l'idea di far merenda a casa Benton è ancora una delle cose che più preferisco. Le migliori leccornie le ho mangiate qui, seduta sul pavimento del salotto oppure della camera del mio amico.
Avanzo con una titubanza inusuale, addentrandomi nell'edificio conscia di non essere completamente voluta, ma prima di voltarmi verso la cucina mi fermo davanti alle scale. Alzo lo sguardo verso il piano superiore, quasi cercando qualcosa, eppure non vi è alcun movimento, men che meno suono.
«Sono qui per Charlie» ammetto imbarazzata, stringendomi nelle spalle consapevole della mia colpevolezza; non solo l'ho ferito, mi sono anche presentata qui senza alcun preavviso - e se ci fosse quella tizia fuxia con lui? Se stessero...? Fermo i pensieri prima che si facciano troppo fastidiosi, tornando poi a fissare la signora paffuta alle mie spalle.
Molly piega la testa da un lato, confusa: «Charlie?»
Annuisco, ritrovandomi a corrugare le sopracciglia: «Sì...»
Spostandosi una ciocca rossiccia, la donna s'incammina verso la cucina per controllare la torta: «Scusa, ma non vi siete sentiti di recente?»
«Ci siamo visti l'altra sera, all'Elder and the Moon».
«E non ti ha detto niente?» Si china, spiando dal vetro del forno. Pare così concentrata da non poter udire nulla all'infuori del ticchettio del timer, eppure quando nego non ha bisogno che io ripeta. La sua bocca si storce e lei torna a fissarmi: «Strano... di solito sei la prima che avvisa» con un po' di fatica si rimette dritta e nuovamente prova ad allontanare dal viso i capelli sfuggiti dal mollettone: «E' partito stamattina per Bristol, va da mia sorella per qualche giorno. Sai, Dana si sposa e aveva bisogno d'aiuto per il trasloco».
Oh.
No, non mi aveva detto nulla, nemmeno che sua cugina si era fidanzata.
Tiro un sorriso, stavolta mi sforzo sul serio. Non so perché ma faccio fatica a contrastare la gravità con i lati della bocca, pare quasi che non vi sia altra posizione, per loro, se non quella che tende verso il basso.
«Davvero? Non mi ha detto nulla del matrimonio... e quando è?»
Miss Benton sorride con dolcezza, forse è più perspicace di quel che credo e, persino se non lo dice, ha capito la mia delusione. Lo intuisco perché si volta e versa in una tazza del caffè, poi me lo porge: «Ne riparliamo a fine anno, stanno ancora organizzando. Sai come siamo noi donne, soprattutto quando si parla di eventi simili» vorrei dire di sì, ma in realtà non ne ho idea. La mia organizzazione massima si riassume nel preparare lo zaino per il giorno seguente, il mio massimo risultato in fatto di perfezionismo è l'amalgamento dei cereali all'interno dello yogurt.
Così per evitare una risposta falsa o che mi potrebbe mettere in difficoltà, accetto il suo pegno e ne trangugio subito una parte. Lascio che l'amaro del caffè scivoli giù per la gola insieme alle mie aspettative infrante, certa che entrambi abbiano lo stesso saporaccio, al momento.
«E... l-lui quando torna? Esattamente, intendo».
Perché torna, vero?
Sua madre si muove lenta verso una delle pareti, afferra l'angolo di una pagina del calendario che vi è appeso sopra e si mette a fare i conti, arrivando persino a spiare tra i numeri del mese successivo, lì dove a metà pagina, in pennarello, è segnato l'inizio dei miei esami di maturità. La calligrafia di Charlie è talmente unica che la riconosco senza fatica e, accanto alle parole di tenero scherno, dove un "L'ultima sfida di Jay ha inizio" mi strappa un sorriso, ci sono stelline piccole e grandi, di colori diversi e disegnate come se fossero opera di un bambino delle elementari.
Lui le cose importanti se le ricorda, non è certo come me.
«Sai che la puntualità non è il suo forte... però dovrebbe tornare a inizio del prossimo mese».
Tra due settimane, quindi. Mi mordo il labbro, soppesando la mia pazienza: riuscirei a stargli lontana, e con la consapevolezza di ciò che è realmente successo, per tutto questo tempo? Saprei impedire alla mia testa di riempirsi con pensieri inutili fino al suo ritorno? E senza di lui, sarei in grado di mantenere le giuste distanze da Seth? Perché temo che sia facile farmi cedere e se dovessi farlo, ne sono certa, perderei l'occasione di riavere Benton con me.
«E con il lavoro?» Domando svelta, cercando di appigliarmi a qualsiasi cosa pur di riuscire a farlo tornare prima, quasi fosse in mio potere.
Lei lascia andare la presa: «Aveva delle ferie arretrate, per quel che ne so» alza le spalle, socchiudendo appena gli occhi: «Ma vedrai che sarà qui prima di quanto immagini, tesoro». Lo dubito, però non lo dico.
Il tentativo di Molly di rincuorarmi è un sasso che cade nel vuoto, non ottiene alcun risultato. Quattordici giorni sono tanti, più delle dita di entrambe le mani e, per me, pensare a domani diventa già difficoltoso, figurarsi arrivare sin là. Ciò che mi limito a fare, quindi, è abbozzare un nuovo e fintissimo sorriso. Mi infastidisce il pensiero che lui non sia qui, che non possa raggiungerlo. Mi fa arrabbiare la sola consapevolezza di non essere stata informata di questa inusuale partenza - io! Io che dovrei essere la sua migliore amica, o comunque un tassello fondamentale del suo quotidiano...
Lenta appoggio la tazza sul lavello, nel mentre ringrazio per l'ospitalità e, seppur non vorrei, sentendo l'urgenza di andare via. Non dovrei essere qui se lui non c'è, non ho alcun motivo di restare ferma in una casa in cui non sono stata invitata.
Stringo forte le mani sulle spalline dello zaino, che adesso mi pare pesare un po' di più; stringo e mi domando quanti passi indietro debba fare per riuscire a sistemare le cose, se c'è una sequenza corretta di movimenti da compiere per ottenere nuovamente la vita di qualche mese fa, quando nulla era ancora andato in pezzi.
Fingendo un impegno saluto, ma una pressione sulla bocca dello stomaco mi fa venir voglia di sedermi a terra, rannicchiarmi e non alzarmi finché lui non sarà rincasato - eppure non posso, è ovvio, così vado via trascinando i piedi, stanca di sentirmi inutile di fronte a ciò che accade, inerme al cospetto delle conseguenze di stupidissime scelte altrui. Già, perché quelle di Morgenstern non si possono definire in altro modo, anche se lui ha sempre dato l'impressione di essere abbastanza intelligente e furbo da risparmiarci simili guai.
Malvolentieri mi ritrovo a camminare ancora una volta lungo il vialetto, poi sul marciapiede e infine a susseguire falcate in direzione di casa, nonostante al momento sia il posto peggiore in cui vorrei essere.
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