Chapter Thirty-one - Part Two: Don't let me go
"I wanted him to kiss me how
With open mouth and open mouth
We keep our distance now
I wanna feel his hands go down
I try not to think about
What happened last night outside his house
Too far to go back now
Just wanna feel his hands go down"
- Hayley Williams, Sudden Desire
Con il cartone di pizza tra le mani, e una possibile ustione alle dita, mi destreggio davanti alla porta di casa di Morgenstern nell'inutile tentativo di suonare il campanello. Se la mia fortuna è stata quasi perfetta, facendomi arrivare qui prima del ragazzo delle consegne e scoprendo che la serratura dell'ingresso non è ancora stata aggiustata, a questo punto non si può dire altrettanto. La confezione della familiare è così grosso da intralciare tutti i miei movimenti e se provassi ad appoggiarlo su un ginocchio, trasformandomi in un momentaneo equilibrista, sono certa che la pelle della gamba non me lo perdonerebbe, lasciando che la temperatura eccessivamente elevata dell'ordine crei una chiazza estremamente rossa e dolorosa. Così, all'ennesimo tentativo di raggiungere il pulsante, un angolo della confezione cozza ancora contro la porta, attirando definitivamente l'attenzione di chi vi sta al di là.
Seth spalanca l'anta già sul piede di guerra, pronto a inveire contro chiunque si sia azzardato a disturbarlo, ma appena i suoi occhi mi riconoscono, il broncio si tramuta in sorpresa.
Per un attimo resta esterrefatto a fissarmi, quasi fossi un fantasma, poi corruga la fronte ignorando completamente il pegno di pace, seppur non definitiva, che si frappone tra noi.
«C-che ci fai qui?»
Tiro un sorriso, incerta, e alzo il cartone in modo da metterlo ben in mostra: «Folletto della pizza, in caso non avessi già cenato» dico, evidentemente sopraffatta dall'imbarazzo. E' ovvio che a entrambi la mia presenza su questo pianerottolo risulti strana, così come è palese il fatto che non abbia idea di come affrontare la pessima decisione che mi ha condotta sin qui, però provo comunque a resistere all'istinto di mettergli tra le mani il cartone della pizza e correre via con le lacrime agli occhi - perché un po' mi fa male vederlo, sento una specie di escavatrice provare a penetrarmi la carne del petto. Inoltre, guardandolo nella sua esitazione, mi rendo conto che neanche lui deve essersi vissuto bene questi due giorni di totale silenzio.
Morgenstern si passa una mano sul viso, quasi stesse provando a strofinarsi via di dosso la stanchezza che lo stava assalendo e che, mi accorgo, ha scurito la pelle sotto agli occhi, rendendo il suo verde-acqua ancora più acceso.
Con un sospiro si sposta, mi lascia entrare nella sua piccola alcova arrendendosi al pari di un principe sconfitto. Tiene la testa bassa, conscio della propria colpevolezza, ma per ora non sono intenzionata ad accennare alla questione - non sono pronta, però sa che sono qui per questo, si rende conto della gravità delle sue azioni, o forse lo è sempre stato, per questo ha taciuto.
Appena varco la soglia mi rendo conto che la musica è spenta, la tv anche, ma nell'aria c'è l'odore acre del tabacco, nicotina che dà forma a una leggera cortina di fumo. Ovunque il mio sguardo si posi, sul divano con la coperta aggrovigliata, sul tavolino dove il posacenere è ricolmo di mozziconi, sul pavimento dove qualche bottiglia di birra se ne sta addossata ad altre vuote, posso vedere con chiarezza che nervosismo, o la frustrazione, ha avuto la meglio su di lui. E non posso negare di sentire in bocca un sapore amaro, conscia di poter essere in parte causa di questo suo comportamento.
«Alla fine gli alieni ci hanno ridato il vero Seth?» domando, appoggiando la pizza sul tavolino: «No, perché quello che sapeva fare le faccende domestiche era un po' sospetto...» mi sfilo lo zaino insieme alla giacca e subito inizio a raccogliere i rifiuti. Il vetro cozza mentre afferro tra le dita i colli delle bottiglie e Chucky mi fa notare il suo disappunto dalla poltrona.
Stupido gatto, mi lascio sfuggire tra un pensiero e l'altro.
Un passo dopo l'altro, incurante di ciò che mi circonda, avanzo verso la cucina e sapientemente ripongo ogni cosa al suo posto; con tutte le serate passate a guardare film e mangiare take away ho finito con l'imparare a menadito la disposizione di tutto ciò che si trova in questa stanza e, alle volte, con grande sorpresa di Morgenstern, mi ricordavo meglio di lui dove si trovassero determinati oggetti.
«Sei sparita per due giorni» lo sento dire in un sussurro. La sua voce però, seppur lieve, mi appare terribilmente nitida e, persino senza voltarmi, so che ormai mi è alle spalle, che se allungasse una mano potrebbe sfiorarmi i capelli, accarezzarmi la schiena. E rabbrividisco piacevolmente al pensiero della nostra pelle a contatto, anche se è ovvio che non dovrei avere simili reazioni, vista la situazione.
Fingo indifferenza, strappando dal rotolo di scottex alcuni fogli che prendo a piegare senza alcuna logica.
«Ti ho scritto, Jay» le sue parole continuano a riempirmi le orecchie, ma come ho già dichiarato non sono pronta ad affrontare subito la questione del nostro litigio: «E ti ho chiamata decine di volte».
Mi chino: «La roba nella lavastoviglie è-»
«Smettila di far finta di nulla!»
Il cuore mi balza in gola. Ci metto qualche istante prima di risollevarmi e decidere di fronteggiarlo - non sono brava in queste cose.
In un gesto istintivo mi bagno le labbra, preparandole a muoversi, però alla fine non dico nulla, piuttosto resto in attesa, esattamente come una preda buttata nella gabbia della belva. Forse restando ferma non verrò assalita.
«Perché hai portato la pizza? E per quale fottuta ragione sei qui, se è da due giorni che mi eviti?»
«Non ero pronta a parlare con te».
«Ed ora sì? Non potevi scrivermi, dirmi anche solo mezza frase per evitare che...» non conclude; si prende la fronte con entrambe le mani, tirando indietro i capelli, sbuffa nervoso, però non aggiunge altro. Così mi rimetto a cercare dei bicchieri puliti.
«Ora sei l'unica persona che può rispondere alle mie domande» soffio una volta terminata la perlustrazione e recuperato gli oggetti del mio interesse. Sento una pressione fin troppo soffocante sulla bocca dello stomaco, minacciando la fame che mi ha spinta a ordinare una pizza tanto grande da sfamarci entrambi fino a domani.
Le cose non sono mai semplici, quando c'è di mezzo Seth. Avrei dovuto saperlo fin dall'inizio, peccato che in nessuna delle mie fantasie vi fosse il mondo al di fuori di noi due, di quei baci che anelavo segretamente o delle sue carezze.
Quando mi volto, pronta a incamminarmi verso il salotto, lo sguardo che incontro è triste, sconfitto, e il corpo è piegato in una posa di resa e delusione che mi fanno stringere nelle spalle, rammaricata da ciò che ho innanzi. Non è mai uno spettacolo piacevole vedere qualcuno come lui, quasi intoccabile, cadere con le ginocchia a terra, schiacciato dal peso di ciò che non si conosce.
«L'unica persona?» mi fa eco, abbozzando un sorriso infastidito: «Fammi indovinare, sei andata da lui per avere delucidazioni e ti ha richiuso la porta in faccia?»
Taccio, muovendo il primo passo. Nel silenzio asserisco. Gli passo accanto, pronta a superarlo e fingere di non averlo sentito, ma Seth mi blocca. Le sue dita si stringono attorno al mio braccio nudo e per la seconda volta, da quando abbiamo iniziato a sfiorarci con il chiaro intento d'impadronirci della pelle l'uno dell'altra, rabbrividisco. I suoi polpastrelli sono freddi, esattamente come la voce: «Sei andata da Charlie prima che venire da me?»
Cerco di liberarmi, ma è inutile. Seppur non mi stia facendo male, la sua presa è così salda d'apparire impossibile da sciogliere - e un po' ne ho paura, forse perché non voglio ferirlo, come invece sono sicura che accadrà.
Morgenstern mi costringe a voltarmi. Con il fondoschiena mi schiaccio contro al mobile al centro dell'angusta cucina e lui, d'un tratto, mi è nuovamente davanti. Ci fronteggiamo privi di spazi di sicurezza per una possibile fuga. Il suo corpo torreggia di fronte ai miei occhi, quelli che al momento non vogliono guardarlo in viso, così si aggrappano alla maglia sgualcita che ha indosso; se alzassi la faccia e sostenessi il suo sguardo vedrebbe la colpa che mi colora le guance e non credo proprio di voler iniziare la serata così - men che meno finirla.
«Seth...» la voce è un sussurro talmente lieve che persino io fatico a sentirlo, ma so che dovrei aggiungere altro, spiegare, fargli capire - ma cosa c'è da dire? Sì, sono andata da Charlie prima di venire da te. Sono andata da lui perché lo sto perdendo, perché vorrei strattonarlo a me e dirgli che mi dispiace per il male che gli hai fatto, per confessargli che non ne sapevo nulla e ho ceduto a te per via del fatto che... beh, perché lo desideravo da tempo.
Però resto zitta, conscia che gli farebbe male sentire tutto ciò - in fondo sono sicura che si aspettasse che tornassi da lui, che salvaguardassi prima noi due, poi tutto il resto.
Il vuoto fisico tra i nostri corpi si assottiglia e con la mano libera mi afferra il mento, obbligandomi ad alzare su di lui almeno il viso, anche se lo sguardo ancora fatica a posarsi e restar fermo nel suo. «Cosa gli hai chiesto?» Mi domanda, mentre con il respiro bollente e dal retrogusto dolce, di malto, mi accarezza l'epidermide.
Cosa avrei voluto chiedergli?
Tanto. Tutto.
Cosa gli ho chiesto?
Nulla, ho solo pregato qualche divinità in cui non credo di farlo tornare. A Londra. Qui. Da me.
«Cosa hai voluto sapere, da lui, che io non potevo dirti?»
Probabilmente la cruda e brutale verità, quella che tu non potresti mai dirmi per paura di mandare a puttane ogni cosa. Il suo dolore, quello che dubito tu possa comprendere al momento - perché persino io fatico a farlo, nonostante mi senta in parte vittima delle tue azioni.
Frappongo le mani, con i bicchieri, tra noi, cercando in qualche modo d'impedire al suo petto di schiacciarmi a sé e dare il via a una sequenza di reazioni che temo: le lacrime senza freni, i mugolii soffocati, i baci amari, le crepe nel nostro amore.
Mi mordo il labbro in punta di denti, cerco una forza che mi manca, che lui e Charlie mi fanno mancare con una facilità tale da spaventarmi. Strappo pellicine che dovrei lasciar stare, per evitare il sangue, ma alla fine tiro quella sbagliata e il calore di una goccia che si forma sulla curva delle pelle che brucia mi fa tremare. Vibro nella sua presa. Seth lo sente, lo percepisce, capisce - e mi si preme addosso per leccarmi via di bocca il dolore.
Si schiaccia a me nonostante il cozzare del vetro, la resistenza degli arti. Mi pulisce dalla colpa che ha provato a macchiarmi la carne, rossa come ciò che ci lega, scarlatta come la ferita che lui stesso deve aver aperto nel torace del suo più caro amico.
«Cosa ti ha detto?» domanda appena le nostre bocche si separano, con il respiro mozzato e gli occhi languidi, troppo perforanti per riuscire a contrastarli.
«Nulla...» confesso, lasciando che la prima lacrima scappi: «Nulla, perché se ne è andato a Bristol» e stavolta, fuggire, mi viene più semplice del previsto. Con uno strattone laterale mi divincolo dalla sua presa, cammino svelta verso il tavolino su cui il cartone della pizza è rimasto intoccato da quando ve l'ho appoggiato sopra e mi piego per sistemare tutto il resto.
«Che vuoi dire?»
«Quello che ho detto. Charlie ha preso e se ne è andato da sua zia».
I passi di Seth mi rincorrono, insieme alle sue parole. Uno dopo l'altro mi si mettono alle calcagna, agitandomi.
«Jay...» ancora una volta le dita di lui trovano la mia carne, l'afferrano, se ne impossessano e paiono non volerla abbandonare più. Forse un giorno finiranno con il lasciare il segno, un marchio indelebile di questa relazione sbagliata sin dal principio, eppure assuefante. «Magari ha bisogno di tempo per sé, non pensi?»
«Penso che avreste dovuto dirmi tutto sin dall'inizio, a dire il vero!» Sbotto continuando a dargli le spalle, consapevole di poter scoppiare a piangere senza alcun ritegno, se dovessi nuovamente incrociare il suo sguardo. Come d'abitudine mi ritrovo a mordere il labbro, avvertendo una piccola stilettata, un bruciore lieve che mi fa contorcere la smorfia: «Penso... penso che sei stato uno stronzo, Seth! Perché lo hai fatto? Perché diamine gli hai fatto una cosa del genere?» Il male si fa sempre più forte, la rabbia aumenta e alla fine, del tutto in balìa del dolore causatomi da questa situazione, mi volto e con un pugno colpisco il suo petto. Batto forte, mentre le lacrime scivolano sulle guance: «Che cazzo ti è saltato in mente?! E perché lo hai allontanato anche da me?»
Ogni volta che una percossa va a segno, sento la rigidità del suo corpo opporsi. E' immobile, una statua che si erge dinnanzi a me, imperturbabile. Non reagisce nemmeno per un istante, subisce in silenzio, privo di giustifiche con cui placarmi. Chissà cosa sta pensando mentre lo colpisco: forse che sono una pazza isterica, oppure nella possibilità più romantica e meno realistica che è terribile aver fatto un torto del genere a due delle persone più importanti della sua vita. Eppure, nonostante il mio sfogo, dalle sue labbra non esce suono.
Vado avanti senza ritegno, sempre più pietosa in questa sceneggiata da film tragico. Batto il lato della mano sul pettorale di Seth, lo faccio perché non so cos'altro possa fare per mettere a tacere l'annichilante mix di sensazioni che mi logora dal giorno in cui ho scoperto l'origine del loro distacco, ma la forza va diminuendo, finché alla fine sono io ad arrendermi a lui, aggrappandomi alla stoffa della sua maglia, strofinando il viso per sentire calore.
Piango e cerco sostegno. Anelo risposte mentre mi lascio trovare impreparata, ancora, al cospetto di tutto questo - forse se Jace non avesse mai deciso di andare via le cose non avrebbero preso a sfaldarsi in questa maniera; è lui il collante e in sua assenza noi cadiamo a pezzi, l'uno lontano dall'altro, fino a farci male.
Morgenstern aspetta, non mi stringe subito, ma quando lo fa pare quasi che stia abbracciando una scultura di vetro: troppo fragile per essere toccata, eppure così bella da non potersi fermare.«Sono uno stronzo, un egoista, un vigliacco... ci sono mille modi per definirmi, ora, ma quel giorno non sono riuscito a fermarmi. Non potevo restare in disparte, non più. E alla fine ho dovuto scegliere se venir ferito o ferire, così ho agito nell'unico modo in cui so fare». China il capo, appoggiando il mento sulla mia testa. Resta fermo, ancora. Sembra che ogni movimento gli costi fatica e il battito così accelerato del suo cuore, che sento pompare al di là della gabbia toracica, mi fa temere qualsiasi suo gesto: e se scoppiasse? Se d'improvviso, a furia di palpitare, si strappasse?
«E seppur faccia male, Jay, non credo di pentirmene del tutto» trattengo il respiro, in attesa di una confessione che non sono certa di voler sentire: «Non avrei avuto te, capisci? Se non mi fossi comportato così meschinamente, se non avessi distrutto tutto, non sarei arrivato al punto di baciarti quel giorno, d'ignorare il fatto che sei la metà di Jace, il nostro piccolo corvetto...» Le lacrime non si fermano, seppur i singulti siano ora muti. «Sono uno stronzo, sì. Forse ora che ti dico questo lo sono ancora di più, ma fidati, non volevo ferirti, non volevo toglierti nulla... e se conosco Charlie, nemmeno lui desidera vederti triste o saperti così disperata per la sua assenza. Ci tiene a te, a dispetto di me... quindi ti prego, smettila di darti colpe che non hai» - peccato che sia più facile a dirsi che a farsi, amore mio.
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