Chaper One: This is Jay

And at the show on Tuesday
She was in her mindset
Tempered furs and spangled boots
Looks are deceiving
Make me believe it
And these tiresome paper dreams
Paper dreams honey, yeah
So won't you go far
Tell me you're a keeper

she moves in her own way - the kooks

In quello che deve essere il torpore mattutino, una voce squillante e simile allo strillo di una cornacchia s'infila nel mio dormiveglia umido di bava e sogni non adatti ai minori, facendomi rivoltare sotto alle coperte. Mi piacerebbe non sentire nulla, riuscire a ignorare le minacce e le domande, ma più provo a tornare alle immagini oniriche che riempiono la mia testa, più fatico a far finta di nulla.

«Jane! Diamine Jane! Scendi a fare colazione sì, o no?» 

Vorrei poter fingere che la voce di mia madre non sia irata come tutte le mattine dell'anno, così come vorrei poter dire che qui, a casa Raven, un modesto edificio situato nella zona sud-orientale del Brent, i risvegli traumatici non siano all'ordine del giorno, ma mentirei in entrambi i casi. Non so, credo che nei miei geni ci sia una vera e propria repulsione per le sveglie, per questo mi ritrovo costantemente a fare i conti con i versi da rapace che Catherine emette pur di vedermi comparire in cucina a un orario abbastanza accettabile da poter adempiere ai miei doveri di figlia, adolescente e studentessa londinese. 

Un nuovo grido giunge dalla base delle scale, disturbando nuovamente la pace che regna sotto al piumone: «Se non ti sbrighi vengo su e ti porto a tavola tirandoti per i capelli! Hai capito?»
Sì Cat, purtroppo ti ho sentita.

È giunto il momento di abbandonare il delizioso calore del letto, volente o nolente – così, come una tartaruga che mette la testa fuori dal proprio guscio, io faccio altrettanto, ritrovandomi a fare i conti con i tiepidi raggi di un sole autunnale che entra dagli spazi tra le tende.
Il bruciore agli occhi mi fa mugugnare a denti stretti, peggiorando ancor di più l'umore già instabile del momento. Perché devo fare la mia apparizione nel mondo dei vivi alle nove persino il sabato? Non è considerato giorno feriale da praticamente tutta la città o la Gran Bretagna in generale? Forse bisognerebbe spiegarlo anche allo staff della Saint Jeremy.

Mia madre non molla, la sento lamentarsi ancora una volta. Ha una perseveranza invidiabile, bisogna riconoscerlo, una dote che nessuno in famiglia è riuscito ad ereditare; nemmeno Jace.

Con un movimento deciso del braccio tolgo le coperte da sopra il mio corpo, convinta che sia la cosa migliore da fare per evitare una guerra. Non faccio in tempo a complimentarmi per questa ammirevole scelta che il freddo mi assale con una certa violenza, portandomi quasi alle lacrime.

Voglio morire.

Non si dovrebbe dire, lo so, in fin dei conti si tratta solo di qualche grado in meno rispetto a prima, eppure il fatto di aver appena aperto gli occhi lo rende terribile, qualcosa di paragonabile a una strage.

La pelle d'oca s'impossessa dell'epidermide chiara, mi fa stringere su me stessa portandomi alla mente una moltitudine fin troppo familiare di domande. Ma perché diamine non posso avere un bel risveglio caldo e accogliente come si vede nelle pubblicità? Perché devo sempre ritrovarmi ad avere a che fare con il cattivo umore già a quest'ora? Possibile che non possa mai dormire fino a tardi, così tardi da rasentare l'inumano?

Prendo un grosso respiro, mi faccio coraggio e alla fine alzo il sedere dal materasso che mi ha coccolata dal momento in cui sono rientrata a casa la notte precedente. I piedi si muovono lentamente sul parquet, fanno persino fatica a elevarsi dal suolo; i passi non fanno alcun rumore, corrono silenziosi fino a qualche centimetro dall'enorme affare che ho davanti: lo specchio. E qui, mi metto a fissare con una certa attenzione la lastra riflettente che ho difronte, provando a mettere a fuoco il mio aspetto, ma soprattutto provando a ricordare cosa ho fatto di preciso la sera scorsa. Tutto mi è chiaro fino a quando non sono salita sull'auto del mio migliore amico per cambiare locale, poi credo di aver perso i sensi, sprofondando in un primo sonno appesantito dall'alcol.

Piego la testa da un lato cercando di far mente locale e, mentre ci provo, mi rendo conto di aver un aspetto tutt'altro che accettabile. Nulla sembra essere al posto giusto, nemmeno le ciglia. I capelli sono un ammasso liscio che si va ad aggrovigliare nei pressi delle punte, mentre il trucco ha resistito - si fa per dire - almeno su un occhio. Sembra che abbia fatto a botte, che mi sia ritrovata nel bel mezzo di una rissa a cui era impossibile sfuggire e, pensandoci, potrei utilizzare questa scusa per restare in pigiama a crogiolarmi nella pigrizia del weekend. Sicuramente è una prospettiva estremamente allettante visto il programma che credo mi stia aspettando ai piani inferiori.

Certamente mia madre se ne uscirà con un qualche piano malefico capace di trascinarmi fuori dalle mura domestiche prima del previsto, accompagnata da lei e, forse, mia sorella Elizabeth - Liz per gli amici.

Sbuffando allungo una mano verso il cellulare che lampeggia a qualche centimetro da me, sulla scrivania dove non ricordavo di averlo lasciato. Dò un'occhiata furtiva alla notifica della sera precedente, attentamente ignorata fino all'ultimo per via della sua poca rilevanza e lì, spedito alle 23:30, il messaggio di Jace riporta la buonanotte che da bravo fratello maggiore mi manda ogni giorno.

Credo che sia il suo modo per non farmi sentire sola, soprattutto ora che se ne è andato lontano, a Parigi. La sua fuga "per studi" è stata vissuta un po' come un trauma dalla sottoscritta; nel nostro rapporto ai limiti della morbosità ha preso l'aspetto di uno strappo al cordone ombelicale che ci ha sempre uniti. E quindi eccoci qui, con lui che mi dimostra di non avermi abbandonata e io che mi prendo il suo posto nella vita che ha lasciato a Londra.

Con il dorso della mano cerco di togliermi una parte del kajal sbavato, ma all'ennesima strillata di mia madre decido di rinunciare all'impresa di riacquistare un minimo di dignità; è palese che ormai Catherine si sia spinta fino alla base delle scale, il prossimo passo è la porta della stanza.

Armando i piedi di calzini e le spalle di una delle tante felpe rubate a Jace, varco la soglia della mia piccola alcova, percorrendo a grandi falcate il corridoio. 

Scendere i gradini che separano i due piani è un gesto meccanico ma necessario, così arrivo fino all'entrata della cucina. Mi fermo. Sento l'estrema necessità di prendere un grosso respiro prima d'incontrare altre forme di vita antropomorfe e il perché è semplice: seppur i diciotto anni siano ormai alle porte, gli ormoni adolescenziali non ne vogliono sapere di lasciarmi in pace e, quindi, mi trasformo continuamente in una bomba a orologeria, soprattutto nei confronti di mia madre. Suppongo sia un passaggio fondamentale della vita di tutti noi e chi ne subisce le conseguenze sono sempre gli adulti, quelli che non ci capiscono mai, che ci tarpano le ali in qualsiasi occasione possibile.

Dopo il breve minuto di raccoglimento decido che è giunto il momento di fare la mia comparsa nel mondo dei vivi, così attraverso l'arco nella parete. Sull'isola al centro della stanza mia sorella se ne sta seduta, mischia i cereali nel latte freddo e mi fissa con una sorta di fastidiosa noia.

La sua fase adolescenziale è iniziata qualche anno fa, mentre ora si ritrova completamente travolta dalle migliaia di ormoni che ballano la salsa in tutto il suo essere: per lei, oltre al problema con gli adulti, c'è anche l'insoddisfazione nell'essere l'ultima di tre figli. Trova me un inutile spreco di protozoi – pensiero pressoché condiviso – e Jace un essere mistico a cui ambire. Insomma, la sua è una guerra generale nei confronti del mondo, la mia invece solo del governo domestico.

Le sorrido e lei alza gli occhi al cielo in un innegabile dimostrazione d'affetto.
Anche io ti voglio bene, non preoccuparti.

Mia madre si avvicina sbuffando: «Non sapevo d'aver messo al mondo la prossima Regina d'Inghilterra». Il suo tentativo di essere simpatica si conclude con un piatto di uova sbattute e del pane tostato sotto al mio naso, poi imperterrita riprende a sistemare il piano-lavoro su cui, miracolosamente, ha deciso di passare le ultime due ore.

«Peccato, avresti potuto reclamare la corona al posto mio!»

Liz alza un sopracciglio. Non capisco se sia sconvolta dallo scambio di battute infelici o, semplicemente, stia pensando a come farsi diseredare.

«Ti prego, Jay, dimmi che è l'alcol rimastoti in corpo a parlare...» e, nel concludere, lascia cadere sul pianale qualche goccia di latte, incurante dei minuti che solo ieri ho speso per pulire.

Mia madre, sentendo le parole della sua pupilla, sussulta. Volta la testa sgranando gli occhi: «Come?! Ho sentito bene? Signorina, quante volte te l'ho detto che non hai ancora l'età per simili sciocchezze?» le sue domande sono stridule come qualsiasi sillaba che le si riversa fuori dalle labbra, così storco il naso.

«Ora dimmi, cosa dovrebbe pensare una madre davanti a queste tue continue ribellioni?» Catherine picchia il tacco dodici sul pavimento in marmo.

«Che sono una teenager sulla soglia della maggiore età?»

La mia risposta pare contraddirla ancor di più. Si stringe le braccia al petto, scuote la testa riccioluta e cerca di non afferrare alcun oggetto contundente nel tentativo di malmenarmi per l'ennesima mancanza di rispetto nei suoi confronti. 

«Ringrazia il cielo che non mi è stato fatto dono dell'onniscienza, ragazzina! Chissà cosa combini quando te ne esci con quei due! Dio è il solo ad avere la spiacevole fortuna di vedere cosa fai» il suo sfogo pare non avere più alcun freno, ma al posto di incutere timore, genera in entrambe le figlie una sorta d'ilarità. Elizabeth quasi si strozza con i cereali che ha ancora in bocca, mentre io traballo pericolosamente sullo sgabello.

Se non sapessi che la mente di mia madre è quasi del tutto priva di malizia, avrei addirittura  potuto supporre che, in quell'ultima frase, avesse inteso che su tutti i miei slip è stato ricamato "entrata libera" a caratteri cubitali. 

Bello il sabato mattina a casa Raven.

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