PUNTATA I
PARTE 1
Autunno 1095, Sette Regni(*)
I venti da occidente soffiavano indisturbati nelle ampie lande al centro del Regno di Fearannheimr, eppure non una nuvola solcava quei chiari e pallidi cieli, limpidi come le acque appena sorte dalla fulgida sorgente. Una donna, bagnata dal liquido della fatica, se ne stava curva, descrivendo con l'orizzonte un contorno netto, a sradicare alcune carote dal terreno.
Il sole accennava di caldo quella giornata che sapeva più di primavera che di fresco autunno e lambiva con i suoi docili raggi il viso stanco ma giovane della donzella. Il lavoro dei campi era stancante, estenuante, eppure necessario se si voleva sopravvivere in quel mondo privo delle comodità moderne. Le mani graffiate dalla terra e arrossate dallo sfregamento stonavano con le linee gentili del corpo della donna. Ma ciò che andava fatto, non poteva essere rimandato, e la vita, famelica e divoratrice di tempo, non aspetta nessuno. Mai.
Estraeva le piante dal terreno con minuziosa cura, quasi maniacale, come se volesse accarezzare quelle che sarebbero diventate nutrienti bontà per il suo stomaco e quello di suo marito, lontano dalla terra quel giorno. Si era recato in un paese vicino per vendere alcuni prodotti del loro campo, mentre la moglie era rimasta nella loro dimora a continuare il lavoro. Tutto procedeva sornione, mnemonico, movimenti istintivi, naturali, assecondando lo scorrere inesorabile del tempo, come se tutto restasse sempre uguale a sé stesso. Ma tutto cambia. Sempre.
E non ci fu sentore al mondo che avrebbe potuto mettere in guardia la donna in quella pacifica giornata. I suoi capelli corvini le scivolavano di continuo innanzi agli occhi, eppure nulla sembrò impedirle in un cieco angolo remoto del suo campo visivo di intravedere un'ombra, come un presagio alle sue spalle.
Si voltò con apparente flemma, eppure il cuore, prima ancora di aver realizzato ciò che si sarebbe trovato davanti, stava già pompando con forza il sangue fin nelle profondità delle sue viscere, come reazione a un inconscio segnale di pericolo.
«Chi siete!?» pronunciò squillante la contadina alla vista di tre figure a lei sconosciute. Tre uomini dai volti cupi, gli occhi iniettati di sangue. Assassini. Non ci volle molte per realizzare la situazione. Una donna sola in un campo e innanzi a lei degli sconosciuti che trasudavano cattive intenzioni da ogni poro della pelle, elettricità statica che d'improvviso si formò nell'aria. Il cuore pompava sempre più forte e concitante divenne quando uno degli uomini, dal fetore di vino fermentato e nauseante, aprì bocca: «facciamo una cosa veloce mia signora, poi ce ne andremo, promesso.»
Gli altri due scoppiarono in acide e fragorose risate che risuonarono minacciose, cavalcando gli ampi spazi vuoti del terreno coltivato. La donna, d'istinto, fece due passi indietro. Il suo corpo, paralizzato dalla paura, rispondeva con ritardo immane ai suoi impulsi. Il cervello le urlava di fuggire. La paura invece la inchiodava salda al terreno, come radici millenarie. Persino i suoi occhi realizzavano lente le immagini che le si paravano davanti. In una manciata di secondi, una salda presa le strinse il polso, lanciando scattante una fitta poco gradevole. E poi un'altra e un'altra ancora. E poi il terrore prese il sopravvento, manifestandosi con grida e movimenti scoordinati.
I tre sconosciuti le erano già addosso e le loro mani malate e piene di peccato già scendevano maliziose sotto la camicia di lino della donna. Le urla di lei si propagarono per tutta la campagna, acuti di paura che sembravano fulmini risalire il cielo. Provò a dimenarsi con tutte le sue forze, eppure le prese degli uomini erano feroci, vogliose tanto quanto la sua voglia di avere salvo l'onore del suo corpo. Diede un paio di calci ben assestati, ma troppo stringenti erano le mani di quei predatori affamati di carne e di sesso. Le sembrò quasi che la vita le stesse già scivolando via dalle membra, come acero che viene spillato dal tronco. Non la stavano uccidendo fisicamente, ma quella sua intimità che stava per essere violata, la faceva sentire come pugnalata, colpo dopo colpo, fitta dopo fitta, palpata dopo palpata.
Alcuni lembi del suo abito si erano già arresi al triste vento che ora soffiava con più forza, mentre uno degli uomini aveva già abbandonato all'umido terreno i suoi calzoni. Inerme, la donna continuò a scalciare, a urlare, chiedendo pietà, ma nessuna parola può fermare una bestia senza ragione. Annebbiati dall'istinto e dargli ormoni erano gli animi di quei balordi. E quando le parole non bastano, solo la forza può soverchiare altra forza. E infatti, possente, all'improvviso, delle parole ruppero il caos vocalico della donna e dei tre uomini.
«I signori sarebbero così gentili da non importunare la donzella!?» irruppe una voce, tanto ferma quanto potente. Quasi stonò le loro menti quella richiesta, così educata nel significato, essere pronunciata con tale enfasi intimidatoria, come un piccolo boato.
La donna, vedendo una sagoma nera dare le spalle al sole, fermò le sue grida. Aguzzò la vista nel tentativo estremo di dare un volto a quella voce che aveva, come un miracolo, interrotto la fame di sesso dei tre uomini. Uno di loro digrignò i denti, mentre l'altro si rialzò i calzoni. Invece il terzo uomo, il meno ubriaco dei tre, sembrò bloccarsi come pietrificato, come se un piccolo segnale d'allarme avesse stimolato il suo piccolo cervello limitato.
«Che diamine vuoi, coglione!? Non lo vedi che ci stiamo divertendo!? Sparisci se non vuoi passare dei guai, capito!?» sbraitò uno di loro, gesticolando al vento come uno spaventapasseri lambito da una tempesta, riuscendo a malapena a tenersi in piedi.
«Forse vuole spassarsela anche lui» fece eco il secondo, sputando a terra un grosso grumo di saliva. Il terzo invece, quello che aveva meno vino in corpo, continuò a restare immobile, in una posizione di poco curvata con la schiena in avanti, come se le caviglie già si stessero preparando a una fuga disperata. Il suo corpo continuava a mandargli segnali di pericolo, eppure non si mosse da quella posizione. Forse il fatto di essere con i suoi compagni lo fece desistere, nonostante quei tanti piccoli dettagli che probabilmente, nel caso in cui fosse stato solo, lo avrebbero indotto a fuggire nella grotta più vicina.
«Se c'è un'azione che non posso assolutamente perdonare è la violenza carnale. Oggi è la vostra giornata sfortunata, signori» disse l'uomo misterioso. Appena ebbe fatto un passo avanti, anche la donna, che frattanto era distesa sul nudo terreno, poté osservare meglio l'individuo che con proverbiale tempistica gli stava evitando il violento supplizio.
Occhi limpidi, azzurri come il cielo e freddi come i ghiacci delle terre del nord. Capelli corti, chiari di biondo e di cenere. Uno sguardo di una rigidezza perentoria, maestosa. Una cotta di maglia brillante d'argento ai raggi del sole faceva risaltare la sua figura quasi di un'aura mistica. Altrettanto brillanti erano i guanti, fatti dello stesso materiale della cotta di maglia. Calzoni di morbida seta verdi, stivali con fibbie dorate e una lunga spada celata in un fodero di pelle. Il pugno destro dell'uomo era già serrato sul pomolo dorato della sua lama assassina e giustiziera.
Si capiva lontano dai monti alla vallata che fosse un cavaliere, ma non uno comune. Meno chiaro però era per degli uomini alticci, con il sangue mescolato a nettare inebriante.
«Senti un po', stronzo!» minacciò uno degli uomini. «Te lo ripeto un'ultima volta, meglio che tu sparisca, altrimenti ti sgozzo, bastardo!»
Ma il cavaliere non vacillò di un singolo centimetro, al contrario avanzò perentorio e con occhi bassi sussurrò parole di morte al cielo: «Respirazione del... No... Con questi bifolchi non c'è nemmeno bisogno della mia spada, non ne sono degni.»
Avanzò a passi lenti ma decisi, con i pugni chiusi e stretti e le braccia che gli scendevano lungo i fianchi quasi tese. Uno degli uomini, accecato dagli ormoni e dall'ira, si fiondò come tirato da una molla, correndo scoordinato verso il cavaliere. Nel suo breve percorso estrasse un pugnale dal suo borsello di cuoio, lo strinse a due mani e lo proiettò in avanti con ferocia animalesca. E quando sembrò che la lama non potesse sbagliare nel colpire il suo bersaglio, con un movimento rapido e preciso, il cavaliere schivò il colpo e subitaneo colpì alla gola il suo assalitore. Il colpo fece proiettare in avanti gli occhi del malcapitato e gli fece mollare la presa del pugnale. L'ugola gli bruciò come arsa e sentì il respiro scemare dai polmoni. Non ebbe molto a cui pensare: si ritrovò con la schiena a terra, trafitta dal dolore dovuto all'urto con il terreno. Un'intera piroetta aveva descritto, vedendo il cielo ribaltarsi innanzi a sé. E poco dopo la sua vita raggiunse il suo traguardo. Uno, due e poi il terzo. Tre calci con il tallone dello stivale bastarono al cavaliere per profanare, sfondare il cranio dell'uomo, inumidendo il terreno di porpora e viscere.
Un urlo lacerò il cielo, un grido di bestia imbufalita: un secondo criminale si lanciò sul cavaliere, convinto di poterlo prendere alla sprovvista, lanciandosi allo stesso modo del suo amico ormai privato della vita, con un coltello lanciato verso il busto del cavaliere. Ma quest'ultimo afferrò il polso del balordo e lo torse violento. Una fitta immane penetrò nelle carni dell'uomo, costringendolo a lasciare la presa sull'arma. E non ebbe nemmeno il tempo di terminare il suo grido che, fulminante, un movimento brusco del cavaliere gli spezzo l'osso del braccio, facendo affiorare dalla superficie dello stesso un carnoso bulbo, ricoperto di sangue e legamenti. Il grido si fece più acuto, così tanto che quasi sembrò imitare le tonalità di una donna.
«Chiudi il becco, stupratore!» sussurrò l'uomo vestito d'argento. Con un movimento circolare del piede sollevò il coltello del nemico che era finito a terra poco prima. Con la mano sinistra afferrò il ferro mortale al volo e con uno schioccò come di freccia le carni del nemico si piegarono ad esso. La lama aveva centrato l'occhio dell'ubriaco, schizzando rosso dal suo vitreo bulbo. Come un sacco riempito di pietre e lasciato cadere da un dirupo, il suo corpo cadde a terra privo di vita. Solo un ultimo uomo era rimasto e finalmente, sebbene ormai fosse troppo tardi, aveva ben compreso la situazione e anzi, più pericolosa perfino di quello che si era immaginato in precedenza. Ma non ebbe scelta, o meglio: era la scelta che lui aveva deciso d'intraprendere inconsciamente. Una scelta che gli costò la vita.
Anche quest'ultimo tentò in maniera goffa e vana di colpire il cavaliere, ma ben poco poté fare. Poco dopo il suo corpo giaceva morente, con il soffio vitale che lo lasciò in pochi attimi. Una lunga striscia di rosso gli colava dal collo, inzuppando i suoi stessi capelli.
La quiete ora faceva da padrone a quell'ambiente. La donna, che fino a quel momento era rimasta incantata dal terrore e dalla forza del suo salvatore, ricominciò a respirare in maniera regolare. Si sollevò solo per poi buttarsi ai piedi del cavaliere, con il capo chino, la voce rotta dalla gioia e le lacrime gorgoglianti.
«Grazie, mio signore, grazie mio lord! Senza il vostro intervento non oso immaginare cosa ne sarebbe stata di me! Grazie!»
Ma a quelle parole non seguì alcuna risposta. La donzella ebbe l'ardire di sollevare lo sguardo e di fissare l'uomo negli occhi, in un tempo in cui osare tanto, in una situazione di simile disparità sociale per giunta, era considerato oltremodo oltraggioso, ma in quel frangente non ebbe la lucidità di ricordarsi gli usi e i costumi. Lui fissò lei, glaciale, mentre lei fissò lui, timorosa. Bastarono una manciata di attimi per far desistere la donna nel non distogliere lo sguardo da quei pozzi di ghiaccio, severi e duri, forgiati nell'onore. Eppure, c'era dell'altro.
Il cavaliere si voltò e spedito raccolse uno dei pugnali che era a terra. Avanzò di nuovo verso la donna e, inaspettato, chiese: «sei maritata?»
«Perché me lo chiedete, mio lord» chiese lei con un filo di voce.
«Rispondi» si limitò a proferire il cavaliere con tono duro come il ferro.
La donna si limitò a un semplice gesto con il capo. Chinò lo sguardo e si accorse dei vestiti ormai logori e strappati che poco celavano le linee del suo corpo. Strinse il petto con le braccia e sembrò quasi raggomitolarsi quando, all'improvviso, un riflesso argenteo le arrivò agli occhi. Un coltello ora giaceva ai suoi piedi a un paio di passi. Alzò lo sguardo e ancora una volta i suoi occhi incrociarono, come avvolti da un filo invisibile, quelli del cavaliere.
«Perché? Cosa significa?» chiese con tale timore da temere un cataclisma in pieno giorno. Passarono alcuni secondi prima che la risposta tanto desiderata quanto inattesa arrivò come un fiume in piena.
«Quella lama è per tuo marito.» A quelle parole seguirono inesorabili e interminabili istanti di vuoto sonoro. Non un fiato uscì dalla bocca della donna. Impallidì e il suo respiro si fece più corto.
«Non comprendo...» si limitò a dire. Ancora una volta non riuscì a tenere salda la vista nelle profondità dell'animo del cavaliere. Si limitò ad ascoltare.
«Quei lividi giallognoli che hai sulle braccia, non te l'hanno procurati questi uomini, sono vecchi. Ho ragione?»
A quelle parole, la donna osservò le sue braccia, come se lei non sapesse di averli davvero, invece lo sapeva eccome. I suoi occhi non fecero altro che confermare una condizione che lei conosceva fin troppo bene, eppure continuava a sembrarle estraneo quel messaggio che invece era fin troppo esplicito.
Restò paralizzata, aspettandosi un comando, lei che era abituata ad essere comandata fin dall'età in cui i suoi genitori avevano deciso che lei dovesse diventare moglie. Ma suo marito non poteva avere figli e per questo, per malvagia ripicca, aveva costretto la moglie a una vita di privazioni, fatta di percosse e lavori nei campi, percosse e lavori nei campi, ancora percosse e ancora lavori nei campi. Lui incolpava la donna del fatto di non potere avere progenie, che fosse in qualche modo maledetta e che quel matrimonio fosse stato una sciagura. Cosa vera, in un mondo e in un tempo in cui il matrimonio aveva come unica funzione quasi esclusivamente la procreazione.
«Devi liberarti di tuo marito se non vuoi fare una brutta fine» riprese a parlare il cavaliere.
«Mio signore, ma cosa dite! Non posso privare della vita un uomo, a maggior ragione di mio marito! La vita è un dono e non ho alcun diritto di privarne qualcuno!» si giustificò la donna tutto d'un fiato.
In un primo momento nessuna risposta le arrivò, i suoi occhi si limitarono a registrare il suo salvatore che le voltava le spalle. Solo dopo i primi passi dell'uomo sentì un insieme di vocali e consonanti arrivarle sparate dritte nel suo cuore: «se la vita è un dono, allora tu stai sputando sul tuo scegliendo di non agire. Prima di essere una moglie, prima di essere una donna, sei un essere umano, non un sacco di cavoli. Non dimenticarlo mai.»
In un'epoca così diversa dalla nostra, quelle parole ebbero l'effetto di un pugno nello stomaco, sapevano quasi di rivoluzionario, di anarchico, di sovversivo. Sapevano di futuro. Sapevano di un'altra era.
Quando ormai i passi dell'uomo cominciarono a sbiadire per via della distanza, la donna allungò il braccio come a volerlo raggiungere e ancora ancorata al terreno chiese: «cavaliere, il vostro nome! Come vi chiamate?»
Il vento sembrò all'improvviso fermarsi. Anche i bagliori del sole sembrarono estinguersi nel cielo, ora più limpido che mai. Solenne, la risposta arrivò, trasportata da un tono di fierezza senza eguali: «io sono Sir Alastair Leslie, Primo Cavaliere del Regno di Fearannheimr, Difensore della Corona, Protettore degli Uomini e dei Fatati, Custode della Gloria dei Primi Dèi e dei Comandamenti Cavallereschi di Re Arthur. Giusto con i Giusti, privo di Pietà con gli Empi, Figlio delle Terre e dei Venti del Nord e fiero Servitore della Luce come da Sacro Giuramento.»
Non un alito di vento tornò a soffiare. Gli occhi della donna rimasero lucidi come a voler provare a tutti i costi a osservare quelle parole sfuggenti, come se in qualche modo potessero diventare materiali, tanto erano cariche di onore.
Il cavaliere, dopo un attimo di rallentamento, riprese a camminare e, lento, si allontanò salendo lungo una collina, lasciando dietro di sé quattro cadaveri, i tre balordi più il marito della donna che di lì a sera sarebbe stato pugnalato nel letto dalla moglie dopo l'ennesimo vile atto di percosse. Tante vite Alastair portò via quel giorno, eppure se esistesse una bilancia che permettesse di soppesare e mettere a confronto il peso del Bene e del Male, non penderebbe a favore del primo osservando che in cambio di quattro vite si ottiene la libertà di una donna e intere esistenze risparmiate a molte altre? Per Alastair non c'era nemmeno bisogno di rifletterci su. Quella era la Via che aveva deciso di percorrere, la Verità che aveva deciso solenne di accettare.
(*) Isola immaginaria che in questo "universo" rappresenta la controparte dei seguenti territori: Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda del Nord, Irlanda, Norvegia e Svezia. I Sette Regni appunto.
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