0.3 Þriðja Söng - Tungl
0.3 Terzo Canto - Lune
Apro gli occhi su un mondo
di candido biancore.
La meraviglia impressa
su queste iridi cangianti.
un bagno di luce scivola sulla mia pelle,
inchiostro bianco su una notte d'ebano.
Ma ecco che a corromper inizia questa
lattea luminiscenza.
Fiotti di sangue scarlatto,
rivoli di vite umane.
E nell'oscurità ecco che avanza
la Morte vestita di soffici tenebre.
Un manto scuro cala su questa vita,
solo una debole luminiscenza, pesantemente scalfita.
Ecco, la vedi, che s'allontana, sfinita?
È la mia speranza, ormai svanita.
Neeïrmorv - 567 anni dal Sigurdagur.
-
Si erano oramai compiute quasi quattro ore dallo scoccar della cupa mezzanotte, e una fredda brezza notturna aveva principiato a spirare sempre più vorticosamente: smuoveva e nel cielo batuffoli di nuvole e sul suolo polvere e le poche foglie croccanti, appassite nella loro tenera vita. La frescura primaverile permeava l'aria gravida di tensione, abilmente celata dietro a una visione idilliaca bagnata dai raggi di Fyrsta Tunglið e Annað Tunglið.
Archi rampanti d'illusioni lunari si intrecciavano nel cielo dipinto di cupo cobalto, in un mosaico di milioni di lapislazzuli abilmente incastrati, mentre i fievoli balugini stellari sbiadivano a confronto del candore emesso dalle Lune. Lentamente, queste compivano il loro viaggio nella fitta coltre scura della notte, procedendo con cautela su quel cammino incrociato.
Esse trovavano l'una la propria destinazione nell'altra, nel pellegrinaggio della loro incantevole luce, come le due metà unite in una sola, singola, anima. Le loro orbite sferiche si sovrapponevano con certosina precisione, creando una circonferenza dalle perfette fattezze che ricongiungeva – tramite una curva sinuosa – l'Austur e il Vestur, in un evento millenario che pareva causare tra la popolazione catastrofiche emozioni. Era stato annunciato come un evento che avrebbe segnato l'inizio e la fine di una epoca, il procedere inesorabile del Ragnarok, tra inquietanti ambiguità che gettavano il terrore tra le persone: nella vasta città non v'era spirito vivo che si trovasse tra le vie a rimirare lo spettacolo delle due Lune che si dirigevano con estrema lentezza l'una in direzione dell'altra, in moti opposti che prima o poi si sarebbero scontrati.
Non tanto l'evento in sé ma quanto più il mistero e l'inquietudine che vi aleggiavano attorno era ciò che gettava nel totale sconforto i più, in un fiume di pensieri febbricitanti che si perdevano e si dissolvevano nel vuoto alla ricerca di una verità che era stata taciuta dal Vǫluspá e che sarebbe stata ancora a lungo celata dal Destino.
Tutta l'aria sembrava fremere, onde di Aeter si riversavano tra i cunicoli delle strade – come leggeri spiragli di aria –, a volte invisibili agli occhi, altre volte catturando la luce dei raggi e risplendendo di un bianco purissimo, etereo. V'era elettricità che increspava le fronde degli alberi, che faceva rabbrividire il più piccolo germoglio nella freschezza rassicurante di quella sera primaverile: quella tensione elettrostatica aveva un sentore di mistero e inquietudine, le quali sembravano aleggiare dovunque, creando una sorta di cappa opprimente di apprensione che avvolgeva nella sua tesa stretta ogni persona, animale, granello di sabbia.
Solo veglie nervose si aggiravano tra i vari camminamenti disposti sotto le parvenze di una mezza raggiera che considerava come suo epicentro lo Shrine af beinum; la grande città che si spandeva a perdita d'occhio pareva quasi ammutolita del tutto, come se i suoi abitanti avessero deciso di spostarsi altrove pur di sfuggire a quel disastroso avvenimento.
Nemmeno le più fievoli luci erano accese all'interno delle case, come se queste fossero completamente disabitate; ogni rumore era cessato, come se qualcuno avesse silenziato la voce del mondo; eppure le guardie ben sapevano che, nascosti tra gli assi delle finestre, migliaia – o forse milioni – di occhi stavano attentamente scrutando il cielo, alla ricerca di qualsivoglia segno che qualcosa di nefasto stesse per abbattersi sul loro capo, senza clemenza alcuna.
Quando anche l'ultimo orologio dell'enorme città segnò le quattro in punto, le due Lune erano ormai molto prossime a un catastrofico scontro: il terrore aveva iniziato a diffondersi tra gli animi, alla stregua della più temibile tra le pestilenze mai conosciute, incominciando a mietere vittime su vittime, che caddero in preda all'orrore più radicato; nessuno sapeva cosa esattamente sarebbe accaduto, non avevano idea di cosa aspettarsi, se non ciò che tutti conoscevano grazie a quelle poche parole lasciate dalla perduta Profezia, ossia che una nuova era sarebbe giunta quando per la prima volta le due Lune si sarebbero ricongiunte in un unico e splendente Astro, definendo i confini di una nuova Realtà.
Quando ormai la fine era vicina, e quasi tutti si erano rassegnati a perire sotto quel cielo che pareva promettere visioni paradisiache – ma che in realtà celava le inquietudini dell'Inferno più profondo –, un fascio di pura luce illuminò a giorno la volta celeste, facendo impallidire sotto quei raggi cristallini il bagliore di qualsiasi corpo celeste, anche quello delle stelle più vicine. Si riversò a terra, in onde di fotoni lunari agitati, scossi, i quali erano percossi da crescente energia cinetica che li facevano spandere dovunque, attraversando ogni cunicolo, ogni viotto, ogni singolo vuoto tra molecole di sostanza.
Non v'era anima umana, animale, vegetale, che non tentò di nascondersi da quell'abisso di luce, ognuno intimorito a modo suo dalla morte a quel punto già prossima.
Eppure, il nulla avvenne da quell'impercettibile urto. Solo un silenzio mortale calò dal cielo, avvolgendo in una silenziosa e opprimente cappa tutto l'ambiente, facendo quasi ammutolire le pulsazioni dei cuori fino a qualche istante prima palpitanti e frenetici. L'epinefrina in circolo aveva sì raggiunto ogni singola cellula di ciascun corpo, eppure un'atroce immobilità era stata la reazione condivisa da tutti.
Igour allentò la presa sui muscoli delle palpebre che aveva serrato con violenza, abbassando allo stesso tempo il braccio che d'istinto si era rialzato a protezione degli occhi e del volto. Distese l'espressione del viso contratto in una smorfia quasi impaurita, sfregandosi il dorso della mano anche per schiarirsi la vista appannata a causa della forte luce pungente.
Aloni scuri ottenebravano parte del suo campo visivo, sfocando in zone cineree agli angoli, mentre lievi fitte dalle pupille – ristrette alla punta di uno spillo – giungevano alla sua mente occupata dal disappunto. Non appena ebbe riacquisito tutte le sue facoltà cognitive, l'uomo rivolse uno sguardo ai suoi compagni di squadra, che parevano versarsi nelle sue medesime condizioni, indubbiamente perplessi ma leggermente più sollevati di prima.
Ciononostante un timore recondito colorava le loro iridi pulsanti e vive di magia, mentre rivolgevano lo sguardo tutt'attorno per verificare cosa fosse avvenuto, per capire se si trovassero nella mera illusione dell'attimo della loro morte. Quasi in un gesto inconscio, Igour si tastò il corpo con le dita, per verificarne la fisicità e giungere alla medesima conclusione a cui erano giunti anche i suoi compagni: nulla pareva essere cambiato, o almeno questo pensò in un primo momento.
Tirò dunque un sospiro di sollievo mormorando alcune parole sottovoce.
«A quanto pare non possiamo ancora riposarci da questo faticoso lavoro. La morte ci rifiuta tutti, eh?», biascicò con una nota ironica nella voce, facendo sfuggire agli altri delle deboli risate.
«Capo, per te ogni momento è buono per scherzare, vero?», replicò uno di loro, con le labbra piegate a un mesto sorriso e con tono sollevato.
«Certamente. Avevi per caso qualche ombra di dubbio, Jaey?», gli rispose il primo, senza abbandonare del tutto quella leggerezza.
«No, no. Certo che no.»
«Bene così, allora. Si vede che impari in fretta.»
Poi Igour tacque e scandagliò l'ambiente con precisione chirurgica, nel tentativo di capire cosa fosse realmente successo, con una crescente nota stralunata negli occhi, che sembravano aver riacquisito finalmente la loro completa capacità.
Una sola occhiata bastò affinché sul suo viso di dipingesse un'espressione di pura meraviglia: il suo corpo era completamente avvolto da una sfera dinamica di Aeter, che pareva brillare quasi di luce propria, elemento a cui non aveva prestato troppa attenzione, per quanto era preso nello scherzare con il suo compagno.
Movenze oscillatorie avvolgevano così il suo corpo, come tutto l'ambiente circostante, come se tutta la magia di quel Regno si fosse d'improvviso risvegliata a quel profetico evento. Come filigrana fittamente lavorata, un'aura eterea aleggiava dovunque, immergendo nel suo candore perlaceo ciascun elemento di quel mondo trascendente pregno di magia.
Igour era completamente ipnotizzato da quel gioco di luci che parevano scherzare tra di loro, danzando con un bagliore e un altro, spostandosi con lente cadenze come le spire di un placido vento serale. Non si accorse, difatti, con gli occhi ancora incatenati a quello spettacolo pirotecnico di luci e ombre, che i suoi compari recavano sul volto la stessa morbosa fascinazione.
Dopo interi attimi impiegati nella speculazione di quel ballo sinuoso, Igour sollevò improvvisamente gli occhi alla volta celeste, e ciò che scorse incastrato lassù nel cielo lo lasciò ancor più senza fiato. Un'unica, grande, e magnifica Luna dominava l'orizzonte, così vicina alla superficie terrestre tanto che pareva potesse essere toccata solo allungando una mano, tangibile come mai era stata prima.
La rivelazione gli mozzò il fiato in gola, tanto che dovette tirare lunghi sospiri per continuare a respirare e per non rimanere senza aria. L'ilarità che aveva caratterizzato il suo demone interiore era andata via via scemando di fronte allo spettacolo stupefacente che gli si parava davanti: le due Lune si erano fuse in una sola, incandescente, entità, brillando nel firmamento come fosse dotata di luce propria.
Scie luminescenti si calavano con maestria dal cielo, trainate in basso da carri di notturni raggi di dolce bagliore lunare, che venivano riflessi nei pinnacoli delle soffici nuvole che dispiegavano il cielo in un'infinità di balze azzurrine e bluastre, rischiarate appena sui bordi sfocati nel cobalto.
Sotto quell'incanto argentato, tutto pareva assumere un differente significato, completamente nuovo: un nuovo velo di intrigante mistero e affascinante oscurità avvolgeva qualsiasi cosa, calandosi con morbidezza sopra al mondo come i leggeri fiocchi di una quieta nevicata, facendo emergere quella parte di aura nascosta alla luce di Sól. Ogni singolo elemento pareva impresso, pregno di un nuovo valore, ridipinto nelle sue reali fattezze, privato una volta per tutte dalla maschera che il giorno imponeva di indossare.
Molto tempo trascorse Igour a speculare la volta celeste, ancora brillante a causa dei raggi che l'unione tra le due Lune continuava a produrre, fino a quando almeno, queste non iniziarono ad allontanarsi l'una dall'altra, in direzioni opposte, nell'intrepida attesa di ricongiungersi insieme, nuovamente.
Solo quando la luce che inondava tutto l'ambiente circostante iniziò ad afievolisi, Igour si rese conto di quanto essa fosse stata per lui accogliente ed essenziale: con il ritorno del buio, rischiarato appena dai due astri ormai quasi del tutto scissi, l'uomo si sentiva quasi svuotato dentro, come se il ritorno alla normalità fosse per lui un doloroso passo verso la rinnovata follia della sua mente. Dischiuse le labbra in un sorriso amaro, mentre l'oscurità continuava a calare incessante, fino quasi al punto di non ritorno. Anche la magia, che aveva acceso l'aria già di per sé tesa di una elettricità elettrostatica, era tornata alla sua quiete cinetica, smossa appena dalla sua staticità da una fievole brezza che spirava con lenta solerzia.
Nella grande città attorno ai piedi del palazzo, un nuovo vociare iniziò a diffondersi con lo scorrere del tempo: erano tutti sorpresi che non fosse avvenuto assolutamente nulla, e lentamente il terrore negli occhi di tutti aveva lasciato spazio alla magnificenza e all'assuefazione di fronte a quello spettacolo che poteva essere chiamato magico.
Una ritrovata gioia si era accesa nei cuori e con essa rinnovate voci si diffondevano per le strade. Man a mano che il tempo scorreva, sempre più i giovani si riversavano per le vie per festeggiare la morte accantonata in un angolo, rimandata a tempi probabilmente oscuri e preferibilmente lontani. Da quell'evento profetico, nuova vita pareva essersi diffusa, una nuova percezione della realtà pareva essersi concretizzata negli sguardi più attenti di chiunque, sebbene la felicità ne celasse l'ombra dalle iridi ancora splendenti.
Nonostante, però, il sollievo che si era diffuso tra le membra di Igour, una tensione recondita si celava ancora nei suoi tratti, come se l'inconscio gli suggerisse che non era finita, che quella che stava vivendo era solamente la delicata quiete prima di una violenta tempesta; perciò, pur rivolgendo un sorriso tranquillo ai suoi compagni, forse nel desiderio di infondere in loro la tranquillità che lui non poteva avere per sé – che non riusciva a provare –, rimase in attesa, con i sensi pronti a scattare a qualsivoglia traccia di pericolo.
Per molto tempo attese nella notte che lentamente iniziava a scurirsi, avvicinandosi alle sue ore più buie, ed erano ormai giunte le quattro quando l'uomo decise di abbandonare la tensione scattante del corpo per una posa più rilassata. Si avvicinò dunque a una delle guardie più giovani, verso colui che con tanta foga aveva consigliato a Brandir di prendersi una pausa; il soldato, appostato esattamente sotto a una torre di avvistamento vuota e sguarnita di soldati, con le spalle appoggiate al muro, si fece timidamente da parte, rivolgendo all'uomo un cenno di saluto. Igour sorrise di fronte a tanto candore e ingenuità, e questi parve arrossire sotto alla piega dolce in cui le labbra carnose dell'uomo si erano curvate.
«Igour, signore... se mi permette di chiederle una cosa... lei... l-lei conosce da tanto tempo Brandir?», una voce esitante si fece largo tra i suoi pensieri, facendo sì che riportasse l'attenzione sul giovane che gli stava di fianco.
«Per prima cosa, non devi mai azzardarti a chiamarmi signore», iniziò a dire l'uomo, beandosi quasi dell'espressione completamente terrificata della sentinella e intenerendosi davanti ai suoi occhi castani spalancati, «ti sembro per caso un vecchio decrepito, Perlej?», concluse poi, lasciandosi sfuggire un sorriso.
«N-no, s-signor-... mi scusi. C-come p-preferisce che la chiami, allora?», domandò Perlej, con l'ansia crescente di aver sbagliato tutto.
«Beh, mi pare alquanto ovvio. Chiamami con il mio nome, semplice. Esiste per quello, giusto?»
«S-si, sign-... mi scusi, volevo dire I-igour...», sussurrò dunque Perlej, le gote arrossate visibili nonostante l'oscurità.
«Perlej, smettila di scusarti. Non siamo in un covo di anziane comari, puoi stare tranquillo. E ti prego, non darmi del "lei", per carità della Dea. Altrimenti inizio davvero a sentirmi vecchio. Lo sono, per caso?», rispose occhieggiandolo, nel tentativo di toglierli quell'atteggiamento insicuro e remissivo.
«N-no, Igour», e l'esitazione ancora palpabile nella voce ancora puerile.
«Visto, non è stato tanto difficile pronunciare il mio nome. Non ti ho mica mangiato, no?»
L'altro sorrise un po' impacciato, ringraziandolo mentalmente per quell'aiuto che non gli aveva chiesto ma che gli era stato di sostegno per superare un po' alla volta le sue numerose insicurezze.
«Per rispondere alla tua domanda, sì, conosco bene Brandir; siamo stati amici prima ancora che compagni d'armi. Le nostre strade si sono divise quando abbiamo terminato entrambi l'apprendistato. Come puoi vedere, per lui non esiste altro che il lavoro, per questo ci siamo allontanati e persi un po' di vista. Come mai questa domanda?». Igour parlò senza interruzione, sommerso com'era completamente nei suoi ricordi della gioventù spesa a imparare l'arte della guerra.
Fu proprio quando ormai la tensione aveva abbandonato il suo corpo, che questi sentì aleggiare fiocamente nell'aria il suono quasi impercettibile di alcuni vagiti.
Perlej, forse percependo che non era il momento di continuare quel discorso, tacque, mentre una nuova tensione prendeva il sopravvento sul suo corpo, irrigidendolo.
Nel silenzio di quella parte della città – che non pareva tornata in vita dopo il pericolo appena scampato –, anche quel suono così delicato parve riecheggiare nell'aria fattasi nuovamente tesa ed elettrostatica, tanto che in quel pianto infantile era possibile distinguere i suoni di due neonati.
Sebbene leggermente preoccupato per ciò che aveva udito, Igour non vi diede troppo caso, pensando che quei fievoli rumori – molto probabilmente provenienti da una delle case verso cui aveva rivolto lo sguardo – non potessero in alcun modo nuocere a nessuno. Eppure, si stupì per il fatto che il giovane avesse rinunciato a volerne sapere di più, data la sfrenata curiosità che aveva accesso lo sguardo altrimenti timido e impacciato. Intuì che forse anche Perlej avesse percepito qualcosa aleggiare nell'aria, così decise di non insistere nemmeno lui, preferendo dunque spostare la sua attenzione a sorvegliare tutt'intorno.
Diversi minuti dopo, mentre scrutava con attenzione i dintorni, anch'egli con le spalle appoggiate alla grande muraglia, catturò con la coda dell'occhio un movimento quasi impercettibile ai limiti del suo campo visivo.
Sperando con tutto il cuore che ciò che aveva visto fosse solo un riflesso incondizionato della sua stanchezza, Igour rivolse nuovamente gli occhi in direzione del movimento che aveva colto. Alzò lo sguardo verso il cielo, là dove aveva scorto tentacoli di oscurità oscillare nel vento fresco.
A nulla valsero le speranze dell'uomo, di fronte al raccapriccio che gli ricoprì le membra –divenute all'improvviso pallide e livide di paura – quando i suoi occhi si posarono sulla creatura che lievitava mollemente a diversi metri di altezza dal suolo. Una fitta trama nera di fili di densa e viscosa oscurità era intessuta a creare un corpo senza fattezze, una coscienza senz'anima.
L'unica nota di umanità era percepibile nella forma vagamente familiare degli occhi cangianti, dalle iridi screziate di nero e di rosso, là dove il corpo senza forma risplendeva delle profondità dell'abisso più oscuro: il cremisi del sangue pregno di vita che penetrava, lambiva, il terreno arido della loro assente anima, screziandola di scie di rubino.
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