0.2 Annað Söng - Shrine af Beinum
0.2 Secondo Canto - Santuario delle ossa.
E nella notte buia, illuminata da un astro cadente,
rinasco nelle ossa di una dea morente,
nella carne di un futuro nascente,
nel sangue di un destino imminente.
Neeïrmorv - 567 anni dal Sigurdagur.
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Continuando a stringere nella mano il pezzetto di foglio recapitatogli dal valletto personale del suo Sire, Brandir attraversò di tutta fretta la coltre di alberi che circondava il palazzo, senza prestare troppa attenzione all'ambiente circostante. I suoi passi pesanti e affaticati procedevano rapidamente, incuranti sia della ghiaia smossa dal sentiero acciottolato sia della polvere che turbinava in piccole volute attorno ai suoi pesanti stivali consunti — di un grigio nebuloso —, ricoprendoli di un leggero strato tendente al bianco sporco.
Dopo una manciata di minuti solamente, l'uomo raggiunse una delle quattro sporgenze che, insieme alle altre, donava a quell'immensa reggia la forma di croce stellata. Ciascuna protuberanza pareva volersi allungare nelle quattro direzioni dalle quali i primi Dei erano sorti e là dove gli ultimi erano, invece, tramontati, come astri al culmine del loro ancestrale splendore. Le prominenze non erano altro che onorificenze a ciò che era stato - difatti non erano poi tanto dissimili dalla funzione dei longilinei obelischi di cristallo -, e si incastravano dinamicamente tra di loro, accuratamente fissi nella loro posizione statica; eppure sentivano un richiamo fin nelle loro vive fondamenta: fremevano, impercettibilmente, per ricongiungersi alla sorte che aveva abbracciato le vite delle Ancestrali Divinità; erano prigioniere in quello scheletro di marmo, private della loro libertà come il più inetto dei colpevoli, trasmutate da eburnee ossa in mero granito, fossilizzate nel corpo giacente di una dea morente, pregne di quel sangue che le rendeva incantate.
Prima di raggiungere i pesanti battenti, che recavano incise sulla superficie motivi sinuosi fittamente intagliati da abili e delicate mani, e rinforzati da intarsi in metallo argenteo, Brandir dovette salire una piccola scalinata, che lo condusse di fronte a uno degli estremi dei quattro bracci della croce. Il portale che connetteva l'interno con l'esterno era finemente lavorato: le numerose strombature a sesto acuto parevano tendere verso l'alto, quasi per dare maggiore senso di verticalità alla struttura già di per sé di altezza notevole; i piccoli bassorilievi filiformi, flessuosi, donavano eleganza e morbidezza ai tratti più duri e spigolosi della costruzione; erano curve sinuose che avvolgevano ogni spigolo: una sensazione di ineffabilità quasi totale aveva circondato la mente di Brandir di fronte a quegli ornamenti, tanto simili a un delicato gotico fiammeggiante. Erano volute di fuoco marmoreo quelle che imbrogliavano gli angoli, ogni singola strombatura che emergeva dalla struttura massiccia e, allo stesso tempo, longilinea. Nonostante tutte quelle elaborate incisioni e quelle fiamme granitiche impresse nella pietra, quei decori non erano nulla a confronto a ciò che presentava agli occhi di chiunque una volta di fronte al mastodontico ingresso principale. Non v'erano parole per descrivere l'elegante e quasi trascendente bellezza delle delicate radici che si attorcigliavano le une sulle altre, dando loro stesse la forma alla porta: non erano difatti loro a essere modellate sulla base delle linee della volta, quanto più il contrario, come fossero dotate di vita propria, in una serie infinita di archi a sesto acuto accavallati senza un apparente senso artistico. A partire dalla base della lunga scalinata che permetteva l'accesso, esse parevano protendersi nella direzione di quest'ultimo; e sembravano riunirsi tra loro, e separarsi poco più distante, e a ricongiungersi nuovamente, ancora e ancora, arrampicandosi prima sul corrimano della gradinata e sui bordi degli scalini finemente lavorati, e poi risalire con onde sinuose per tutta l'ampia facciata; e tra un intreccio e l'altro, piccole rose sbocciavano, purissime, cristallizzate nella loro eterna fioritura. E a uno a uno, quei fragili dettagli si riunivano sotto la grande cornice di una singola tela, abilmente dipinta dalle mani esperte di un pittore: un Albero, che traeva forza dalla terra che lo aveva generato, che si tendeva all'infinito verso la Volta Celeste che lo avrebbe poi cullato.
Gli altri due accessi, rivolti là dove Sol raggiungeva il suo massimo splendore e là dove la Morv compiva il suo ciclo terreno, non erano dotati di altrettanta avvenenza, ma nulla poteva essere paragonato al , alla sua ipnotizzante beltà.
Brandir distolse i pensieri da quell'impagabile incanto, dotato di una grazia senza pari, per riportare l'attenzione a ciò che gli si prestava dinnanzi. Non ricordava quanto tempo fosse passato dall'ultima volta in cui aveva posato gli occhi su quegli intarsi, gli pareva fosse passato tempo immemore, ma ciò di cui era sicuro era che mai sarebbe riuscito a riempirsi completamente l'animo di quella vista.
Addossato al vertice della croce, si apriva un varco di moderate dimensioni, dotato di due pesanti battenti di legno scuro che cozzavano pesantemente con il chiarore della parete quasi traslucida, come il seme dell'oscurità nel caldo ventre della luce.
Senza indugiare in istante di più, Brandir poggiò il palmo della mano - fasciato da robusti guantoni neri - sulla superficie leggermente rugosa della porta e socchiuse appena gli occhi, nella speranza di concentrarsi e di richiamare a sé la sua . Tentò di accordare la sua voce alle note del Canto, saggiando parola dopo parola la formula di quel piccolo incantesimo come fosse la prima volta. Ogni sentenza di quella composizione rituale pareva spingere leggermente sulle sue labbra, esercitando una debole pressione, come se, dotata di vita propria, stesse con trepidanza insistendo per voler uscire dalla sua bocca e riversarsi all'esterno del suo corpo per ricongiungersi all'Aeter come una sola entità.
In quel momento, un dolce raggio lunare, rimanendo intrappolato in quella prigione di carne e sangue, fu catturato dalle iridi smeraldine di Brandir. Queste brillavano, rilucendo nel cielo corvino come astri splendenti sul punto del collasso, mentre gli effluvi dell'etere - dalle sfumature di un prato primaverile - si incanalavano lentamente all'interno dello sguardo dell'uomo, alla stregua di onde di un placido mare risucchiate da una voragine.
Erano espressioni melodiche quelle che si innalzarono nel cielo, coronate di una solennità senza eguali: parevano creature tangibili, labili, disperse al vento come i petali di un fiore carminio; eppure non appena questi rivoli di incantesimo vennero a contatto con l'Aeter, parvero prendere fuoco, illuminandosi di infinite sfumature rigogliose, come tanti piccoli fuochi fatui verdi.
Quelle fievoli scintille infuocate, con i piccoli lampi elettrostatici a rimbalzare da una all'altra, percorsero in una frazione di secondo la distanza che le separava dalla barriera abilmente plasmata sulla superficie eburnea di e una volta a contatto con essa, come d'incanto, mutarono la loro natura ideale, trasformandosi in veloci scie luminose, di pura energia vitale; percorsero in tutta la sua altezza la parete parabolica del palazzo, gettando a sprazzi, dei coni di fievole luce. Il bagliore emesso da quelle stille luminose andò via via scemando, come se a ogni metro, centimetro, millimetro si fondesssero parzialmente con la liscia superficie, fino a consumarsi completamente.
Sentì le poche forze che aveva in corpo abbandonarlo, privando alle ossa e ai muscoli quel piacevole calore che gli permetteva di stendere un passo di fronte all'altro nonostante la desolante fiacchezza delle membra; eppure, il modo in cui parte della sua magia si fondeva con la sua creatrice, con colei che aveva dato vita alla Vita, era uno spettacolo a cui non poteva rinunciare di assistere, per cui avrebbe dato ogni singola stilla di energia che aveva in ognuna delle sue patetiche e insignificanti cellule: un fascino che andava al di là della comprensione lo inchiodava in quel punto per assistere a quello che i più stolti avrebbero definito un mero spettacolo pirotecnico. No, per lui aveva tutt'altro significato: era un suo dovere, un suo onore, rispettare la sua Dea più degnamente possibile, e non v'era modo migliore se non onorarla donando la sua magia alla struttura che conservava ancora, tra cunicoli e corridoi, parte della sua anima, della sua essenza e delle sue spoglie terrene.
Quando ormai tutte le scintille si erano dolcemente consumate, tornando a colei che aveva dato loro origine, Brandir distolse lo sguardo dal pinnacolo che svettava in alto, a numerosi metri di distanza dal suolo, là dove si annidava il potere della Dea, sotto le parvenze di una rosa astratta. Riportò gli occhi prima sulla mano che stringeva ancora convulsamente il foglietto ripiegato, tanto che i muscoli delle dita ancora gli dolevano per essere stati costretti a perpetuare la tensione del pugno così a lungo, e poi sul palmo ancora appoggiato sulla superficie scura della porta. Riportò il braccio lungo il fianco, a pendere mollemente come fosse stato privato di vita, e tentò di allentare la tensione che lo costringeva a una posizione troppo rigida. Non appena venne meno il contatto con il suo palmo guantato di nero, con un debole cigolio, i due battenti si torsero su se stessi con grande lentezza, dovuta, quest'ultima, forse alla mole immensa degli intarsi metallici che decoravano il legno con minuziosi fregi o forse allo spessore stesso delle porte.
Gettandosi alle spalle una singola e ultima occhiata, come un riflesso involontario acquisito dal suo corpo autonomamente, Brandir spostò lo sguardo di fronte a sé, con rinnovato vigore e sicurezza, nonostante le forze che aveva in corpo fossero esigue e ormai molto prossime all'esaurimento completo.
Con passi poco pacati e piuttosto strascicati percorse numerosi corridoi, svoltando prima a destra e dopo a sinistra, seguendo istintivamente i movimenti delle gambe: la sua mente era invece altrove, a riflettere su cosa potesse esserci scritto su quel biglietto. Attese, però, di aprirlo solo una volta giunto alle sue stanze private: sapeva che non a caso Vatikird aveva mandato da lui il suo valletto personale, anziché uno qualsiasi; si trattava dunque di una faccenda delicata che molto probabilmente egli aveva remore a non far sapere in giro, sebbene vi fossero veramente poche cose di cui il suo Sire avesse paura. Un dubbio però lo attanagliava, ossia il motivo per cui il messaggio gli fosse giunto davanti a quei gruppi di soldati, anziché in privato, una volta che fosse giunto nelle sue stanze. Poiché non v'era modo di porre soluzione a quella domanda, Brandir decise di accattonarla in un angolo della mente e di non pensarvi più: troppe indecisioni già animavano il subbuglio nel suo animo, non v'era motivo di aggiungervi un'altra futile preoccupazione.
I suoi occhi sorvolarono sui servitori che affollavano i corridoi del palazzo, sulle persone che gli rivolgevano chi parole di benvenuto con assoluta riverenza e chi invece lo accoglieva con un semplice sorriso: ai suoi occhi tutto era divenuto trasparente, niente era degno di essere focalizzato, fuorché quella linea immaginaria che lo congiungeva alle sue stanze. La sua mente ricreava le immagini che gli occhi vedevano senza però vedere realmente, sviluppando quindi repliche distorte della realtà, annebbiate e confuse. L'istinto lo spingeva avanti, a procedere il suo infinito cammino, l'indifferenza completa che scivolava su qualsiasi cosa: servitori, guardie, stanze e porte.
Solo quando i suoi piedi si arrestarono miracolosamente di fronte a una solida parete, si accorse di essere giunto davanti alla soglia dei suoi appartamenti privati. Con un sospiro stanco, poggiò la mano sulla serratura, e sussurrando alcune parole con fare confidenziale talmente piano da non essere quasi percepibile, spinse con la mano sul pomello della porta. In quell'attimo i suoi occhi catturarono la luce rossastra proveniente delle fiamme - che bruciavano consumando le fiaccole appese alle pareti -, rilucendo come prima per un breve istante, mentre l'aura che lo avvolgeva si rianimava di quei piccoli bagliori così famigliari, ma ogni volta ipnotizzanti.
Varcato l'uscio della sua ampia stanza, Brandir se la richiuse alle spalle, con un gesto quasi brusco e schietto, per tentare di concedersi un attimo di riposo da qualsiasi tipo di intrusioni, che fossero dettate dalla sua mente o dalla realtà. Con un gesto abituale si slacciò la mantella mentre ancora attraversava la stanza, rivelando pratici vestiti scuri di morbido lino a fasciargli il corpo tonico e robusto. Gettò un'occhiata alla sedia di fronte a un semplice tavolo in mogano scuro, foderato di pergamene e documenti; scuotendo la testa dall'esasperazione scaturita alla vista dei cartigli, lanciò in quella direzione la cappa che lo aveva celato agli occhi della notte, e questa atterrò agilmente sulla spalliera della seggiola con un fluido svolazzare di lembi. Il movimento della stoffa produsse una leggera corrente che agitò i fogli in cima ai vari plichi, facendone cadere alcuni a terra, dove atterrarono sventolando dolcemente. L'uomo decise di ignorare gli oggetti appena riversi sul suolo, puntando e volgendo altrove la sua attenzione.
Percorrendo il pavimento rivestito interamente in legno con passi ampi e rapidi, Brandir si gettò sul letto, sfiancato, tirando ampi respiri e chiudendo gli occhi per un istante. La morbidezza del materasso sottostante il suo corpo lo cullava dolcemente verso le braccia di un sonno senza sogni, e gli ampi movimenti del petto scolpito che si alzava e abbassava con irregolarità sciolsero il nodo che stringeva in un unico grumo i muscoli delle spalle; eppure, un piccolo campanello d'allarme, sempre attento e vigile, continuava a sostare nei cunicoli più bui e indifesi dei suoi pensieri: gli ricordava costantemente che non v'era tempo per il riposo per lui, dal momento che Vatikrd aveva preteso la sua presenza, forse immediatamente. Con non poco sforzo si rimise seduto dalla sua posizione supina, e gettò lo sguardo sul pugno ancora chiuso, che celava al suo interno il messaggio molto probabilmente criptico del suo sire. Distese le dita, appoggiando con estrema cura la pergamena ripiegata sulla soffice trapunta crema; con poco garbo nei gesti, si sfilò le calzature che portava ai piedi, per poi posizionarle sotto uno degli spigoli del letto con noncuranza. Tirò le gambe sul letto, stendendole per far riposare le membra doloranti e sciogliere la tensione e la pressione sulle caviglie e sui polpacci, e poi con piccoli gesti rapidi si avvicinò con la schiena alla testiera dello stoico letto, riponendo tutto il peso del busto sopra agli spugnosi cuscini che ivi erano riposti. Il suo sguardo corse per un attimo alle lisce pareti di bianco granito, quasi cristallino, e si arrampicò su per le insenature leggermente più scure della pietra, non incontrando nessun ostacolo su quella casuale traiettoria. La camera, difatti, nonostante gli fosse stata assegnata ormai molti anni addietro, era stranamente spoglia, priva di qualunque decoro personale, al di fuori dei suoi abiti e gli strumenti di lavoro che aveva riposto sulla superficie del tavolo. Alla luce delle fiaccole che si erano accese non appena aveva messo piede nella stanza, Brandir dispiegò il foglio, stendendolo e appiattendolo sulla sua coscia con le mani, nella speranza di riuscire a distinguere meglio la sottile e allungata calligrafia di Vatikrd. Sulla superficie irregolare della pergamena vi erano impresse poche ed essenziali parole.
Brandir, avrei necessità di un incontro con te, urgentemente. Raggiungimi non appena possibile nell'Hásæti Herbergi. Porta con te tutto ciò che ti serve per un lungo viaggio.
V.
Come già aveva previsto, il messaggio recapitatogli conteneva più enigmi di quanto fosse concepibile, era quasi più criptica rispetto alle profezie dell'Ancestrale Vǫlva. Ciò che lo tormentava però, non era tanto il motivo per cui Vatikrd aveva richiesto tanto urgentemente la sua presenza, quanto più per il fatto che doveva nuovamente partire per una meta ancora sconosciuta.
Inevitabilmente, non potè fare a meno di immergersi completamente tra i suoi pensieri, nel vano tentativo di porre ordine in quel turbine di emozioni che aveva invaso la sua mente con furia cieca, dirompente. Quasi inconsapevolmente, il flusso dei suoi pensieri lo condusse nell'empireo mondo dei sogni, là dove realtà, fantasia e desiderio si condensavano fino a creare un labirinto senza fine di presagi, incubi e demoni.
Il tempo gli scivolava addosso, senza sfiorarlo neppure con un delicato tocco, e continuava inesorabile la sua corsa, mentre lassù, nel cielo, due astri si ricongiungevano nel più delicato e mortale degli abbracci.
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