0.1 Fyrsta Söng - Ævintýramaður

0.1 Primo Canto - Avventuriero 

Come un ladro nella notte, 
furtivo come l'eco d'un'ombra
al calar della Mezzanotte.
I raggi di due Lune,
spettatrici di un segreto infferrabile,
impalpabile.
Il mondo acceso di magia, 
l'oscurità dei cuori illuminati 
dal tenue bagliore di quel che della Dea
in perpetuo resta.

Neeïrmorv - 567 anni dal Sigurdagur.

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Era da poco giunta la mezzanotte quando il cigolio proveniente da una torsione di una porta sui suoi cardini spezzò il disincanto dello statico manto notturno che era calato sul quel tratto di landa desolata a pochi metri di distanza dalle fortificazioni presidiate da vigili guardie. Esse rappresentavano piccoli puntini in cima alle alte difese, e le loro divise luccicavano in modo sinistro all'ombra della volta celeste — che riluceva di irrisori diamanti di chiarore — riflettendo in modo grezzo il riverbero della magia che scorreva loro accanto e li attorinava con dolci carezze.

Un piccolo valico addossato alla ridotta cinta muraria, nella zona più ombrosa di quella distesa arida e inospitale, era stato aperto da un valletto di fanciullesca età; egli, non appena individuato in quella pianura incolta il soggetto del suo sguardo esaminatore in avvicinamento, si affrettò a chinare il capo e a farsi da parte con ossequiosi versi sommessi, per lasciare passare attraverso la fenditura una seconda figura a cavallo. Quest'ultima, vedendo il varco oscurato dagli alberi aperto dallo scudiero, con un'abile e limpida mossa, smontò dalla maestosa giumenta, che ammansì e tranquillizzò con piccole e delicate carezze sul suo muso umido e fremente, troncando sul nascere i piccoli sbuffi agitati dell'animale. Afferrando le redini che legavano a sé la cavalcatura e conducendola con lui attraverso l'accesso sufficientemente largo solo a farla passare a stento, l'uomo si addentrò all'interno della cittadella, calata nel silenzio più assordante, ignorando con infinita stanchezza il servo che gli aveva aperto i battenti.

Il suo atteggiamento inespressivo, indifferente e quasi sdegnoso turbava in primo luogo i suoi sensi, facendolo vergognare del suo stesso portamento, eppure la sua spossatezza mentale gli impediva l'esternazione di qualsivoglia emozione, fuorché netto e freddo stoicismo. Quest'ultimo tinteggiava sul suo viso ancora giovane innumerevoli sfaccettature di rigidità, ricalcate da leggere rughe del tutto simili alla trama fitta di una ragnatela.

Il garzone, percepito il suo ostinato mutismo indotto dalla fiacchezza, si apprestò a dileguarsi tra le vie acciottolate, non prima di aver, però, rivolto nuovamente altri saluti intrisi di timore reverenziale. L'uomo, lanciò un piccolo sguardo sofferente nella direzione dell'inserviente, quando ormai quest'ultimo gli aveva voltato le esili spalle per affrettarsi verso una meta a lui sconosciuta; un cipiglio, quasi invidioso per la spensieratezza della candida mente che ancora quell'adolescente conservava, infranse la legnosità della sua espressione. Con passo stanco e affaticato dal lungo viaggio, sbuffando di tanto in tanto, il cavaliere proseguì per il suo cammino e, in totale solitudine, si diresse verso la stalla per lasciare la sua fedele amica affinché si potesse riposare dopo l'estenuante cammino.

Una volta giunto a destinazione, scambiò due veloci parole con lo stalliere, che ormai da diversi anni si prendeva cura con assoluta professionalità ed efficienza delle sue cavalcature. Gli dispiacque abbandonare in tal modo la sua carissima giumenta, e il sentimento pareva reciproco, perché il mansueto animale iniziò a nitrire piano, quasi in un dolce pianto; ma non poteva portarla con sé dentro il palazzo e doveva assicurarsi che riposasse a sufficienza. Con un dolore sordo nel petto si allontanò dall'edificio in legno, all'apparenza poco saldo sulle fondamenta, mentre i nitriti si intensificavano, dietro di lui, per poi scemare pian piano con l'aumentare della distanza.

I suoi passi riecheggiavano nei riverberi delle strade battute con un chiasso assordante, un rumore che sembrava tagliare l'aria come piccole cesoie finemente affilate; il suo cammino spezzava la quasi simmetria creata dall'immobilità e dall'assenza di anime vive tra i cunicoli delle vie, mentre una cacofonia di pensieri preoccupati aleggiavano vorticando nella sua mente annichilita, alla stregua di un fetido miasma che corrodeva la sua attenzione, brucando la percezione ancora per poco lucida che aveva del paesaggio circostante.

Procedeva lentamente, ponderando un passo dopo l'altro quasi per limitare il dispendio di energia — ormai del tutto esaurita —, e lentamente attraversò la cerchia più esterna di edifici, quelli adibiti alle attività diurne; non v'era traccia di movimento alcuno, se non quello prodotto dalle sue lunghe gambe fasciate dalla morbida stoffa nera, dalle sue braccia lasciate mollemente a pendere di fianco al busto avvolto in una casacca morbida, anch'essa intessuta con fili d'oscurità. Il mantello agganciato sulle spalle robuste descriveva a ogni suo spostamento flemmatiche volute e onde sinuose. Si stava addentrando nella zona residenziale, e la trama di staticità — che fino a poco prima lo aveva accompagnato con il suo abbraccio quieto — era occasionalmente sfilacciata dalle figure in movimento intraviste dalle finestre, dal lento chiacchiericcio che proveniva dagli interni delle case, dalle voci trasportate dalla leggera brezza che spirava, portando con sé ogni tipo di fresco effluvio.

Il suo sguardo assente, velato dalla fatica, corse alle dolci luci accese delle abitazioni, mentre i rumori familiari, attutiti dal manto scuro nel quale il cielo si era avvolto, sembravano crescere man a mano che si avvicinava alla strada principale, ossia il percorso di circonvallazione tramite cui si congiungevano tutte le porte della cerchia muraria più interna, la qual circondava interamente il mastodontico palazzo — che svettava elegante sfidando le leggi della fisica innalzandosi verso il cielo, quasi nel desiderio di stringersi alle stelle —. Un sentore di risate e allegria si aggirava con scioltezza dovunque, come se niente potesse turbare quella dolce illusione bagnata dai tenui raggi di Fyrsta Tunglið, mentre Annað Tunglið risplendeva poco lontano; la complicità dei due astri sembrava donare al mondo una bellezza nascosta, misteriosa e affascinante, che di giorno sbiadiva sotto alla luce di Sól. Eppure, non v'era possibilità che vi fosse splendore, senza l'ammissione dell'esistenza della sua nemesi: la miseria era incrostata negli angoli più remoti e oscuri, come uno strato di ripugnante sporcizia o una patina di ruggine sanguigna; le persone erano abbandonate a se stesse come cadaveri e carcasse rigettati negli intrecci più nascosti tra gli edifici e nei vicoli più bui.

Procedendo veloce, l'uomo oltrepassò il labirinto di case e solo dopo un lunghissimo viaggio a piedi riuscì a raggiungere il retro della seconda cinta muraria, quella che si innalzava a protezione del grande palazzo che aveva intravisto al suo arrivo. Pur avendo attraversato la città nel punto in cui le due muraglie erano più prossime l'una dall'altra, era ormai l'una e mezza quando raggiunse il piccolo ponte levatoio che permetteva l'accesso all'immenso fabbricato in pietra d'ebano, circondato da una sorta di boschetto e pattugliato notte e giorno da sentinelle armate. Ad attenderlo, v'era una un piccolo drappello di guardie, che si davano il cambio nello scrutare attentamente tutt'attorno, come per non lasciarsi sfuggire nulla. Siccome si trovavano all'esatto opposto dell'ingresso principale dell'edificio, di fronte al quale si estendeva per miglia e miglia l'affollata e caotica città, in quel punto la protezione era ridotta allo stremo nonostante le Manifestazioni. Questi, risalenti solo a qualche giorno prima, avevano allarmato tutto il corpo della guardia, nonostante il loro Sire, sebbene privatamente e già tempo addietro, li avesse messi in guardia di un loro possibile avvento; non era dunque strano che la città fosse regolarmente pattugliata da gruppi di soldati nelle zone più affollate e più percorse, sebbene la scarsità di protezione della zona retrostante facesse storcere il naso al viaggiatore appena giunto: quella era la zona dedicata ai Nyate, a quei pochi che potevano ancora godere delle propria libertà, da servitori. Non a caso le loro abitazioni erano esigue, non a caso erano stati rilegati nella parte più oscura di tutta Delry, là dove al sorgere di Sól calava l'ombra più oscura della sfarzosità, là dove Sól tramontava, segnando la fine della civiltà.

Più si avvicinava, più nitidamente i dettagli si dipanavano davanti ai suoi occhi: quattro uomini erano appostati ai lati del varco, in attesa di cogliere il minimo rumore o il più piccolo movimento. Portavano tutti una cotta di maglia, che riluceva quasi dolorosamente sotto alla tiepida luce delle due Lune e che gli feriva gli occhi stanchi, ormai non più abituati a un bagliore tanto tagliente. Attorno ai loro corpi, scie filiformi di Aeter mandavano scintille di differenti sfumature, avvolgendo i loro corpi in un abbraccio familiare, sicuro. Onde di quella materia eterea si riversava nei loro occhi splendenti, come astri imprigionati in mere e sporche iridi umane. Era quella la loro fonte di potere, la loro unica fonte di vita, l'ultimo dono concesso dalla loro Dea, dalla loro Gyðja.

Non appena si avvicinò sufficientemente per essere notato, portò con lentezza le mani al capo, lasciando ricadere sulle spalle piegate il cappuccio che gli aveva celato il volto per tutto il tempo. La rigidità che i quattro corpi avevano assunto vedendosi avvicinare quell'ombra — che sembrava intenzionata a volersi fondere tra i sussurri della notte — lasciò spazio a un malcelato sollievo, segno che era stato riconosciuto. Nel buio della notte, anche i suoi occhi si accesero di infinite tonalità smeraldine quando si avvicinò a loro, come per mostrare un'ulteriore prova di riconoscimento.

«Salve, Brandir», lo salutò uno di loro con familiarità, con un'inflessione delicata e armonica nella voce, quasi avesse avuto timore di risvegliare gli spiriti della notte con parole troppo schiette.

«Ciao a te, Igour. Come mai sei qui? Pensavo che fossi al Herakademían». Un debole sorriso illuminò il viso di Brandir alla vista dell'uomo seduto mollemente su un semplice sgabello.

«Diciamo che mi sto prendendo una pausa da quel luogo... a mia discolpa posso dire che più giorni passano, più diventa asfissiante continuare a stare lì. Ho deciso di unirmi alle squadre di perlustrazione, almeno finché non mi sarò ripreso da questo trauma.».

«Dunque sei passato a mansioni più leggere; di certo non te ne faccio una colpa, non è mai facile avere a che fare con questioni tanto delicate...», gli rispose lui con apparente leggerezza. Nonostante la stanchezza gli appesantisse le membra, quasi richiamandolo in un sonno perpetuo, il sollievo di poter nuovamente parlare con qualcuno che non fosse egli stesso gli alleviò un pochino la mente tediata dalle preoccupazioni.

«Già... ma dimmi di te. Sei già di ritorno?».

«Sì, mi è giunta voce che ci sono stati dei recenti avvistamenti in città, e volevo controllare di persona la faccenda. Avete visto qualcosa, durante le vostre ronde?».

«No, in verità no. Molti di noi credono che non ci sia nulla di cui preoccuparsi: molto probabilmente si tratta di menti paranoiche troppo stressate da ciò che sta per succedere... Nei giorni precedenti ho controllato le vie della città con la mia squadra e non vi tro trovato nulla, ma oggi mi hanno spostato qui, da quando uno dei loro compagni si è ferito durante i giri di perlustrazione.».

A queste parole, Igour indicò i suoi nuovi commilitoni con un cenno breve della testa.

Questi contraccambiarono il freddo gesto di accoglienza di Brandir con sorrisi leggermente impacciati ed esitanti, che mal si sposavano con la loro posizione di guerrieri. Il viso, forse involontariamente autoritario del loro superiore, sebbene egli fosse solo di alcuni anni più grande di loro, li poneva di fronte a un timore reverenziale che non riuscivano a controllare, un disagio che nasceva dal profondo del cuore, come il più potente delle umane emozioni.

Brandir sembrò riflettere un attimo prima di rispondere all'altro, l'insicurezza del dubbio e dell'incertezza palpabili nell'atteggiamento quasi agitato.

«Per quanto ne so io, Brandir, posso dirti che per ora non v'è nulla di certo... nessuno ancora ha distinto con chiarezza le Manifestazioni, di conseguenza non si può affermare nulla per certo: potrebbero verificarsene altre come potrebbero non farlo; in ogni caso sarebbe eccessivo agitare tutta la popolazione con un falso allarme, anche se non possiamo nemmeno abbassare la guardia, nel caso questi avvistamenti siano reali», continuò poi Igour, dopo una breve pausa di riflessione. Sul suo volto si era dipinta un'espressione perplessa e leggermente sconcertata, un riflesso incondizionato della voce assorta, come a indicare un pensiero inconsciamente fatta ad alta voce.

«Tutta questa faccenda è molto strana. Vatikrd mi ha contattato quando ero in missione, cosa non da lui, perciò mi sono tanto affrettato. Devo andare a vedere che succede, ma-...».

«A questo proposito, forse dovrebbe raggiungere la sua camera e riposarsi, prima di occuparsi di tale questione... in questo momento ci siamo noi delle ronde notturne a controllare la situazione, lei dovrebbe solo ristorarsi e dormire per un paio di ore. Immagino sarà stanco dopo il lungo viaggio», aggiunse una delle sentinelle con voce pressoché flebile, come per paura di risultare troppo sgradevole alle orecchie del viaggiatore. Brandir era sorpreso quanto lui di quella azzardata intromissione, cosa che agitò solo di più il ragazzo appena ventenne che aveva parlato; il suo disagio era percepibile anche a distanza dal leggero rossore che gli velava i tratti come un sottile velo di innocenza e dal capo leggermente chinato verso il basso, come in un atteggiamento di remissione. Il motivo, però, che aveva scosso i pensieri di Brandir non era stato quella interruzione nel suo monologo interiore — un riflesso, un miraggio involuto dei giorni passati conversando con se stesso, in perfetta solitudine —. No, era stato tanto il modo di porsi estremamente formale e rispettoso nei suoi confronti a disorientarlo, quanto quell'atto di sottomissione sproporzionata. Non si aspettava sicuramente tanta deferenza, e pensò che forse i suoi pensieri convulsi avessero filtrato sul suo viso solo un'espressione rigida, troppo formale, che probabilmente, o quasi sicuramente, li aveva tutti posti in quella situazione di teso imbarazzo. La stessa espressione che con ogni probabilità aveva atterrito il valletto che lo aveva accolto non appena giunto in città.

«Io... hai ragione. Sono troppo stanco al momento per pensare a queste complicazioni. Penso che mi ritirerò per un paio d'ore. In ogni caso, non esitate a cercarmi nel caso ci fossero dei risvolti nella situazione», pronunciò quelle parole faticosamente rivolgendosi a nessuno in particolare, e tentando di sciogliere il nodo di autorevolezza che portava stretto in viso e invogliando la sua voce verso una cadenza più tranquilla e meno rigida.

Una risata cristallina gli giunse alle orecchie, perforando nuovamente la barriera che aveva eretto sui suoi sensi stanchi. Alzò il capo un'altra volta, spostando il peso sull'altro piede, un po' scosso da quella situazione di folle imbarazzo.

«Prendi tutto troppo seriamente, Brandir. Certe volte dovresti preoccuparti più di te stesso e lasciare stare per un po' di tempo questo genere di questioni, Non ti farebbe male. Si potrebbe quasi dire che hai sposato il tuo lavoro...». Era stato Igour ad articolare quella frase, con ancora un caldo sorriso sul viso. Con scioltezza e in un atteggiamento quasi affettuoso, si avvicinò all'amico appoggiandogli una mano sulla spalla e lasciandovi sopra delle piccole pacche fraterne, conducendolo a piccoli passi verso il ponte levatoio. «Ora vai a riposare, Brandir, ci penso io qui.»

L'uomo gli sorrise riconoscente, ma prima che potesse rispondergli, un suono affrettato di passi concitati troncò sul nascere la frase che stava per enunciare. Rivolse lo sguardo da dove aveva colto quel rumore e vide affrettarsi nella sua direzione un servitore scarmigliato che pareva avere una fretta fatale di raggiungerlo, percorrendo il ponte levatoio partendo dall'altra parte. Non appena si fu avvicinato a sufficienza, Brandir potè riconoscere in lui la figura del servitore personale del suo capo.

«Il mio Sire desidera vederla al più presto, signore. Mi ha chiesto di consegnarle questo messaggio.».

Pronunciate queste parole, ripose velocemente nella mano tesa di Brandir un foglietto ruvido, numerose volte ripiegato su se stesso; poi senza rivolgere attenzioni a nessuno, tornò indietro con passo rapido, quasi zoppicando per la fatica di poco prima, attraversando a ritroso il ponte in legno lucido, nonostante l'usura.

«A quanto pare non sono tanto io ad abbracciare il lavoro, quanto lui a gettarmisi tra le braccia alla stregua di un perduto amante», sussurrò poi Brandir, emettendo un lungo sospiro di esasperazione e stringendo nel pugno il messaggio che gli era stato recapitato. «È meglio se vada, ora. Ci vediamo in seguito, Ig.».

L'amico lo guardò andare via, con un uno sguardo amareggiato e rassegnato e l'ombra di un sorriso ruvido per la sua tetra ironia.

«Vatikrd ti ha già rubato tanto, Brandir, non lasciare che ti porti via anche la tua vita... Non lo capirai mai, vero? Continuerai a lavorare, a lavorare, a lavorare, finché non ti spezzerai e la morte non ti richiamerà a sé come una vecchia confidente.».

Con quelle parole sulle labbra, dolcemente sussurrate e abbandonate al vento, Igour si voltò, dando le spalle all'ingresso, e ritornò dalla sua nuova squadra, che lo aspettava a bocca aperta, completamente sorpresa per l'intimità con cui si era relazionato a Brandir, il braccio destro del loro Sire, l'archetipo del guerriero fedele e leale al suo sovrano.

Nel frattempo, il firmamento si era animato di ombre oscure che annebbiavano lo splendore delle due Lune, affievolendo il loro incanto fatato. Era un funesto presagio che il Fato avverso aveva appena messo in moto i suoi diabolici piani, quasi a voler infrangere volutamente le vite di quei fragili esseri umani, per proprio diletto.

N/A

Eeee... finalmente questo lenstissimo, lunghissimo, noiosissimo *e tutti gli issimi che volete aggiungere* capitolo è finito. 
- I miei modo per iniziare queste note certe volte stupiscono anche me. -

Benvenuti carissimi lettori nel primo capitolo di questa storia *^* Questo capitseolo, come i prossimi che seguiranno, sono molto introduttivi, e servono giusto per raccontare alcuni avvenimenti importanti che non avrei modo di raccontare nella vera e propria storia. Perciò mi scuso in anticipo se non sono poi tanto interessanti, ma sono fondamentali per comprendere alcuni dei passaggi e personaggi più importanti.

Spero in ogni caso che vi sia piaciuto nonostante la mia prolissaggine (?) e tutto il resto. Fatemi sapere cosa ne pensate dei personaggi, dei luoghi, di tutto, insomma. 

Un infinito ringraziamento va alla mia beta-sorella-tutto  senza la quale non sarei riuscita a fare nulla. Grazie per aver ascoltato i miei scleri *piange*.

E con questo chiudo, a presto con il prossimo aggiornamento (spero, se non muoio prima).

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