up ahead in the distance
17 Luglio 1976
Mi ero perso. Per la prima volta nella mia vita, avevo sbagliato strada e mi ero perso.
E, ovviamente, avevo scelto il giorno migliore per sperimentare questa prima volta.
Il giorno dell'incontro con Mr Reed.
Il giorno che avrebbe potuto stravolgere la mia vita, portandomi dallo stato di imprenditore benestante a quello di milionario.
Una stretta di mano con Mr Reed e io e lui saremmo stati soci per la vita, guadagnando dieci, cento, mille volte quello che eravamo abituati a guadagnare.
Ma, per colpa di una stupida strada, mi ero perso. Ed ora ero in ritardo.
La voce di mio padre mi riecheggiò nella testa: la puntualità è il primo requisito di un uomo d'affari, Edward.
Avevo sempre odiato il tono di sufficienza con cui pronunciava il mio secondo nome. Come se non fosse stato lui a scegliere di chiamarmi Harry, come se Harry non fosse nemmeno degno di essere suo figlio.
Mi allungai sul sedile e afferrai le cartine su cui avevo segnato in matita il percorso che avrei dovuto seguire.
Avevo seguito perfettamente la cartina, come avevo fatto a perdermi?
Alzai lo sguardo verso lo specchietto retrovisore e intravidi dei cartelli all'inizio della strada, parecchi metri dietro di me. Dovevo essermeli persi poco fa.
Girai l'auto e tornai indietro, fermandomi esattamente di fronte al palo scrostato che sorreggeva le due indicazioni. Aprii la portiera e scesi dall'auto, sperando che fosse il riflesso della luce dentro l'abitacolo ad impedirmi di leggere ciò che vi era scritto.
Ma, purtroppo per me, anche questa volta mi sbagliavo. Il cartello azzurro, che teoricamente avrebbe dovuto riportare il nome della cittadina in cui ero capitato, era stato quasi totalmente cancellato dalle intemperie e il cartello inferiore, ricoperto di una vernice stinta tendente al marrone riportava una scritta pressochè inutile.
Hotel California.
Scaraventai a terra le cartine, per poi colpire con forza lo pneumatico più vicino. Avevo rovinato tutto.
Riuscivo quasi a sentire la risata di mio padre riecheggiare dalla sua tomba metri e metri sotto la terra battuta.
Risalii in auto, sbattendo con forza la portiera dietro di me e mi accasciai sul sedile, sospirando. Un trillo elettronico segnalò l'ennesimo problema. Avevo quasi finito la benzina.
Qualcuno doveva davvero avercela con me. Io mi ero preparato. Avevo studiato la strada, avevo fatto il pieno prima di partire, ero partito con largo anticipo. E ora mi trovavo solo, con l'auto sul punto di morire, perso nel mezzo del deserto e in ritardo.
Alzai lo sguardo un'ultima volta verso i cartelli. Forse all'hotel mi avrebbero potuto aiutare. Avrei potuto chiamare Mr Reed e posticipare l'incontro, prima che fosse troppo tardi, e magari avrei potuto comprare qualche litro di benzina e chiedere indicazioni per la strada.
Misi in moto l'auto e svoltai a destra, lungo un'infinita strada sterrata nel mezzo del nulla, ripetendo nella mia mente in ordine casuale tutte le imprecazioni che conoscevo.
Non era proprio la mia giornata.
Fortunatamente la benzina fu sufficiente e l'auto si arrestò ad appena cinquecento metri dall'edificio pericolante su cui campeggiava la scritta Hotel C lifornia.
Recuperai la valigetta da lavoro e scesi dall'auto, avanzando lentamente sul terreno polveroso, sotto il sole cocente di Luglio. Passai accanto alla lettera a caduta dall'insegna e appoggiata malamente alla parete esterna dell'edificio e con un sospiro decisi che sarei entrato, malgrado sembrasse disabitato da secoli.
L'Hotel California era piuttosto piccolo. Un edificio a tre piani, stretto e allungato, con l'intonaco scrostato sugli angoli e le insegne arrugginite. Sembrava fosse caduto dal cielo. Un solo edificio nel mezzo del bollente deserto, invecchiato dalla polvere rossa del terreno e dalla luce del sole.
Allungai incerto una mano verso la maniglia arrugginita della porta a vetri, opacizzata dal tempo e probabilmente pulita l'ultima volta cinque o sei anni prima. Avrei fatto una telefonata, pagato per un po' di benzina e me ne sarei andato, più veloce della luce, da quel luogo spettrale e dimenticato da Dio.
Sempre che, effettivamente, ci fosse qualcuno all'interno. Spinsi con forza la porta pesante che si spalancò con un cigolio, bloccandosi a metà, accompagnata dallo scampanellio dei campanelli appesi alla parete.
Mi schiarii la voce, tossicchiando appena per la polvere sollevata dal movimento della porta.
"Buongiorno" provai a dire, senza ricevere alcuna risposta. Come sospettavo, era un edificio abbandonato. D'altronde, chi avrebbe potuto vivere o soggiornare in un luogo simile?
Poggiai la valigetta a terra e mi avvicinai al bancone ricoperto di due dita di polvere. Un briciolo di fortuna non mi avrebbe fatto male, magari il telefono funzionava ancora. Mi allungai oltre la superficie di legno, cercando il telefono in mezzo ad un ammasso di carte scarabocchiate e disordinate.
Una minuscola fonte di colore attirò la mia attenzione. All'interno di un piccolo portapenne grigio, accanto ad un paio di penne masticate era infilato un lecca lecca a forma di cuore rosso, luccicante e per niente impolverato. Doveva essere stato messo lì da poco. Forse qualcuno viveva davvero qui dentro.
Indietreggiai di mezzo passo, schiarendomi nuovamente la voce.
"Buongiorno" ripetei, quasi urlando questa volta, "C'è qualcuno?"
Ascoltai in silenzio, prestando attenzione ad ogni minimo soffio di vento, fino a che non udii una voce leggermente troppo acuta per essere definita piacevole, ma molto più dolce della voce di qualsiasi altra donna con cui avessi mai conversato, mormorare un "Vado io" da una stanza vicina.
Sorrisi involontariamente, ripetendomi nella testa il numero di telefono di Mr Reed, recuperando la mia valigetta da terra.
Seguii con attenzione il rumore leggero di passi che si avvicinavano all'ingresso, voltandomi verso l'arcata in mattoni a destra del bancone, giusto in tempo per veder apparire la figura minuta di un angelo biondo.
Strinsi con più forza il manico della valigetta, squadrando il piccolo corpo della ragazzina che avanzava verso di me con un mezzo sorriso. Le lunghe gambe bianche spuntavano da una gonnellina a pieghe blu, abbastanza corta da coprire a malapena le mutandine di cui si intravedeva l'orlo posteriore ad ogni svolazzamento della gonna.
Sopra la gonna, una sottile fascia di pelle bianca separava i fianchi dalla camicetta a quadri in tinta col resto del completo, abbastanza stretta da fasciare perfettamente le linee morbide del seno sviluppato malgrado l'età. I lunghi capelli biondi le ricadevano dolcemente sulle spalle incorniciando il viso pallido ed infantile su cui spiccavano le labbra soffici rosso ciliegia.
Deglutii sonoramente, osservando rapito il suo incedere leggero fino al bancone, la gonna che si sollevava delicatamente scoprendo parte del suo intimo, mentre si piegava in avanti, allungandosi verso il portapenne metallico e recuperando il lecca lecca a cuore con una mano.
Se lo portò alle labbra e, puntando gli occhi nei miei, leccò dolcemente la superficie luccicante, tingendosi la lingua di rosso.
"Vuoi una stanza?" domandò, mangiandosi le parole a causa del lecca lecca stretto tra le sue labbra. Avanzai di un paio di passi, cercando di non prestare attenzione al modo in cui le sue soffici labbra avvolgevano lo stecco di plastica della caramella.
"Vorrei fare una telefonata" risposi, poggiando nuovamente a terra la valigetta di cuoio. La ragazzina spostò con la lingua il lecca lecca nell'angolo destro della bocca prima di sollevare le labbra in un sorriso divertito.
"Non abbiamo il telefono" mormorò, dondolando sui piedi, poi si spostò dietro il bancone, dandomi nuovamente le spalle. Osservò per qualche minuto i ganci appesi alla parete, poi volse il viso verso di me, senza smettere di sorridere, sfilando il dolce dalla bocca.
"Primo o secondo piano?"
+++
eccoci con il secondo capitolo, spero che la storia vi piaccia anche se per ora è successo ben poco
fatemi sapere che ne pensate, aggiornerò a breve
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