there she stood in the doorway
Finii di fumare la sigaretta in silenzio, la sua testa ancora appoggiata a me e i capelli biondissimi che coprivano una parte della mia schiena.
Avevo rovinato tutto con Reed. Solo Dio sapeva cosa avrei dovuto fare per ottenere un altro incontro con lui. Me l'avrebbe fatto sudare e, probabilmente, poi mi avrebbe anche rifiutato.
La sua fama lo precedeva e, tra le altre cose, si parlava spesso della sua poca pazienza.
Avevo lavorato sodo per anni per ottenere una simile possibilità ed ero stato capace di giocarmela in un modo così stupido.
E ciò che più mi infastidiva era che ancora non riuscivo a capire come avessi potuto perdermi. Avevo segnato il percorso, avevo studiato centimetro per centimetro quella stupida cartina, non mi ero mai distratto.
Forse era destino che io mi perdessi. Che capitassi in questo angolo di mondo dimenticato da Dio e conoscessi questa strana ragazzina. Destino? Nemmeno sapevo che significasse questa parola. Davvero avrei scelto di credere che un'indefinita forza superiore mi avesse trascinato in questo posto solo perchè io conoscessi questa biondina? Non mi ero mai lasciato abbindolare da questo genere di sciocchezze e di certo una semplice coincidenza non mi avrebbe portato a credervi ciecamente.
Mi alzai dal letto, dirigendomi verso le finestre per poi aprirne una. C'era bisogno di cambiare aria lì dentro. L'ultima boccata di fumo fuoriuscì rapidamente dalla finestra in una nuvola grigiastra, sotto il sole cocente del deserto.
Cercai di schermare il riflesso intenso con una mano, allungando lo sguardo il più lontano possibile. Continuavo a non vedere assolutamente nulla. Una sola strada, stretta ed accidentata, che sembrava non finire mai, estendendosi lungo il paesaggio lunare.
Dove ero finito? E soprattutto, come avrei fatto ad andarmene?
Mi voltai verso la ragazzina, appoggiando la schiena al bordo della finestra. Si era portata nuovamente il lecca lecca alle labbra e con lentezza estenuante ne stava percorrendo il contorno con la lingua, colorandola di rosso ciliegia. Mi passai la lingua sulle labbra, senza trovare il coraggio di distogliere lo sguardo.
I suoi occhi mi scrutavano curiosi. Sembrava che mi vedesse come una qualche specie animale sconosciuta, da analizzare e catalogare. Dovevano essere passati anni dall'ultima volta che aveva visto qualcuno.
"Come ti chiami?" domandò, arricciando le labbra in un sorriso malizioso. Avevo un approccio particolare verso le altre persone. Essendo uno scrittore nel mio tempo libero, ero abituato a catalogare immediatamente ogni persona, a darle un'età, un carattere, a volte perfino una storia.
Dopo un semplice incontro, anche solo dopo una stretta di mano, la mia mente cominciava a vagare nello spazio e nel tempo, cercando di ricostruire ogni istante della vita di quella persona che magari nemmeno conoscevo, basandosi solo sulle sensazioni, sulle impressioni che una misera stretta di mano poteva aver suscitato in me.
Non ero uno psichiatra. Non credevo nemmeno nella psicologia o nella psichiatria, in tutti quei modi di guadagnare soldi sfruttando le debolezze delle altre persone a proprio vantaggio. Ma avevo l'impostazione curiosa di uno scrittore e non riuscivo a impedire alla mia fantasia di costruire castelli di carta su ogni minuscolo evento della mia vita.
Con lei era stato diverso. Non ero riuscito a ricostruire nulla. Era sola in questo hotel fantasma? O ci viveva col padre? E il padre dov'era? La madre era morta o magari se ne era solo andata?
Più la guardavo e più restava misteriosa ai miei occhi. Qualcosa che nemmeno io ero in grado di capire e, soprattutto, su cui non avrei nemmeno potuto fantasticare o a cui avrei potuto attribuire un passato fittizio. No. Con lei era impossibile. C'era qualcosa dentro di lei che mi metteva estremamente a disagio. Una sorta di presagio funesto, che forse avrei fatto meglio ad ascoltare.
Anche solo l'idea di inventarmi una storia per lei mi sembrava scorretta. Racchiudere quella ragazzina in una storia fittizia creata da me sarebbe stato sbagliato. Le avrei tarpato le ali.
E io non volevo assolutamente trattenerla. Più le stavo accanto e più cresceva in me il desiderio di osservarla, analizzarla, capirla. Avrei voluto scrivere la sua storia. Ma non inventarla, avrei voluto leggerla, esattamente come la vedevo davanti a me.
Incrociai il suo sguardo in attesa di una risposta, i suoi grandi occhi chiari spalancati per la curiosità.
"Harry Styles" risposi, infilando una mano nella tasca dei jeans. Faceva decisamente troppo caldo in quella stanza. Sfilai la giacca, appoggiandola sullo schienale della sedia.
La ragazzina portò il lecca lecca vicino al mento, fingendo di utilizzarlo come un microfono. "Harry Styles" borbottò, cercando di assumere uno sguardo serio e un tono di voce più grave, "Harry Styles"
Emise una risatina, lasciandosi ricadere sui cuscini, la gonna sollevata che lasciava intravedere perfettamente le mutandine bianche. Distolsi lo sguardo, autoconvincendomi che fosse solo una ragazzina. "Harry" mormorò, "è il diminutivo di qualcosa?" La voce le salì di un'ottava, "Harold' Harnold?"
Scossi il capo, arricciando appena le labbra in un mezzo sorriso. "Solo Harry" risposi con tono pacato.
Il suo sguardo si spense appena. "Non ti si addice" mormorò, incrociando le braccia davanti al petto.
Corrugai le sopracciglia, ridacchiando. "Non mi si addice?" ripetei, infilando anche l'altra mano nella tasca dei jeans.
"Io ti avrei dato un nome più serio. Sei così.." ci pensò un attimo, rotolando il lecca lecca tra le dita "distaccato" disse alla fine. Alzai gli occhi al cielo, scuotendo il capo. "Non sono distaccato" risposi, appoggiandomi meglio al davanzale dietro di me.
Mi ero sempre ritenuto una persona spigliata, divertente. Non ero un tipo di quelli che pensavano solo al lavoro, alla famiglia, ai soldi. Mi piaceva uscire, divertirmi, facevo battute, ridevo spesso. Come poteva considerarmi distaccato?
"Non sono distaccato" mi fece il verso, cercando di simulare una voce maschile e gonfiando il petto. Scese dal letto, abbandonando il lecca lecca nel bicchiere e saltellando fino alla parete opposta alla mia.
Si passò i capelli dietro le spalle, aggiustandosi la gonna che le era risalita lungo le cosce, poi si appoggiò con la schiena alla parete esattamente di fronte a me. Infilò entrambe le mani nell'orlo della gonna, facendola scendere di qualche centimetro sui fianchi. Era talmente corta che per coprire l'orlo inferiore dell'intimo doveva necessariamente rivelare quello superiore e viceversa.
Poi fece sparire immediatamente il sorriso dalle labbra, assumendo un'aria leggermente altezzosa, allungandosi sulle punte e guardandomi dall'alto al basso, per quanto le fosse possibile.
"Non sono distaccato" ripetè, sollevando le sopracciglia e sbuffando appena. Non riuscii a trattenere una risata. Mi stava prendendo in giro, esattamente come avrebbe fatto una bambina.
Al momento, darle un'età precisa diventava ancora più difficile. La collocavo ad un punto indistinto tra i dodici e in diciott'anni. Esteticamente poteva anche sembrare maggiorenne, ma quell'aria innocente e angelica, con una punta di ingenua malizia, quel suo comportarsi da ragazzina senza un minimo di contegno o pudore abbassava sensibilmente la soglia.
"Harry Styles" mormorò nuovamente, qualche secondo dop, "Signor Harry Styles", riprese il lecca lecca, "Signor Styles", fece stridere i denti pronunciando quell'ultima s, per poi riaccogliere il lecca lecca tra le labbra. "Signor Styles ti si addice di più" concluse alla fine, "è più professionale, più adulto."
Scrollai le spalle, ricacciando in profondità l'amaro che mi aveva pervaso la bocca dopo che l'avevo sentita pronunciare quelle ultime due parole. Più adulto. Quasi che il fatto che mi considerasse più adulto aumentasse la distanza tra noi. Quasi che io non volessi che ci fosse quella distanza a separarci.
Cercai di ignorare quella strana sensazione. Probabilmente mi ero eccitato troppo vedendola leccare incessantemente quel dolciume o intravedendo più volte il suo candido intimo, ma non potevo essere attratto da una ragazzina. Era sbagliato.
"Il mio nome non lo vuoi sapere?" mormorò, tornando a sedersi sul letto ed incrociando le gambe davanti a sè. Effettivamente ancora non sapevo nemmeno come si chiamasse, ma i nomi non mi erano mai piaciuti particolarmente. Certo, rendono le cose più facili, ma le rendono anche molto più limitate. In fin dei conti, non eravamo noi a sceglierci il nome. E non veniva nemmeno scelto in base al carattere, all'aspetto a qualsiasi altra caratteristica. Arrivava prima di noi, come un presagio, una premonizione. E così chi nasceva Chiara non poteva essere tetra, oscura, chi nasceva Maria era indissolubilmente legata alla spiritualità, chi addirittura portava il nome di qualche eroe, o peggio, di qualche tiranno, non poteva evitare di vivere un'intera esistenza all'ombra di qualcuno che magari era anche già morto e sepolto.
Un nome non diceva nulla. E io non avrei voluto limitare così tanto quella ragazzina. Quella piccola bionda che, per quanto ne sapevo io, sarebbe anche potuta essere un angioletto, la cui unica ancora a terra era proprio quell'umanità data da una semplice parola scritta su un pezzo di carta.
Lo scorrere dei miei pensieri fu interrotto dalla sua voce squillante. "Prova a indovinare" ridacchiò, "Che nome mi daresti?"
Sospirai, passandomi una mano tra i capelli.
"Emily?" provai, bofonchiando il primo nome che mi era passato per la testa. La ragazzina scosse il capo. "Inizia per C" mi ammiccò, tamburellando con le dita sulle ginocchia scoperte.
"Charlotte?" riprovai, ricevendo un altro no deciso. Mi grattai il mento, fingendo di concentrarmi, quando in realtà stavo solo dando voce ad ogni nome che mi passava per la mente.
"Claire? Cloe? Caitlin?" domandai. La bionda sorrise, appoggiandosi allo schienale del letto.
"Cassandra" sussurrò, scandendo perfettamente ogni sillaba. Scese dal letto, saltellando attraverso la stanza. Si avvicinò a me e sollevatasi sulle punte mi stampò un bacio umido sulla guancia, all'angolo delle labbra.
Poi si voltò e continuando a saltellare si diresse verso la porta. Sfilò per un istante il lecca lecca dalle labbra, facendo una mezza piroetta su sè stessa così che la gonna si gonfiasse e rivelasse un'ultima volta ciò che vi era sotto.
"Nessuno l'ha mai fatto" sussurrò, "ma se vuoi puoi chiamarmi Cassie"
Completò la piroetta e uscì dalla stanza, mormorando un "Ciao, Signor Styles" e abbandonandomi impietrito, la schiena ancora appoggiata alla finestra e un calore non ben definito che si irradiava lungo il mio corpo.
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scusate, mi ero ripromessa di essere più veloce ma non ci sono riuscita
comunque spero che il capitolo vi piaccia, tra poco le cose inizieranno a farsi più interessanti
a presto, un bacio
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