i thought i heard them say
24 Luglio 1976
Era passata una settimana intera dal mio arrivo all'Hotel California.
Una settimana assurda, assolutamente surreale.
Cassandra non mi aveva più riportato nel rifugio, dopo la prima volta, e io nemmeno le avevo chiesto di farlo.
Volevo fare le cose con calma.
E, appena il giorno successivo, ero stato assalito da un incontrollabile senso di colpa.
Era solo una bambina, dopotutto.
Ero rimasto per l'intera giornata chiuso nella mia stanza a leggere, fissare il soffitto o pensare a tutte le cose più impensabili, disteso a letto.
Cassandra era venuta a bussare un paio di volte, ma l'avevo mandata via malamente.
Non potevo vederla. Avevo bisogno di riflettere, di capire che cosa stavo facendo in quel decrepito edificio.
Ero addirittura arrivato a soppesare l'ipotesi di andarmene.
Di allontanarmi a piedi con le mie cose e cercare un passaggio, un distributore di benzina, qualcosa.
Se fossi rimasto lì, con lei, sarei impazzito.
Ma ogni volta che il suo viso si profilava all'interno dei miei pensieri, che la mia mente ricreava il suo piccolo corpo, le sue labbra pronunciate, il suo fondoschiena perfetto racchiuso a malapena dalle gonnelline a pieghe, mi ritrovavo in un istante a dover gestire il rimorso, la rabbia verso me stesso e una dolorosa erezione.
Se me ne fossi andato, me ne sarei pentito per il resto della mia vita.
Ma, se fossi rimasto, avrei rischiato di soffrire per ben più di un semplice rimorso.
Per un attimo, un breve istante di follia, o forse il mio momento di maggiore lucidità, pensai perfino che fosse tutto un sogno.
Che non esistesse nessun Hotel California, nessuna bambina dal corpo stupefacente, che fosse tutto un sogno.
Ma, risollevando le palpebre, tornando alla realtà, davanti ai miei occhi non compariva nient'altro che la solita impolverata stanza d'hotel.
Oh mia dolce Cassandra, mia, mia e soltanto mia!
Come poteva un simile prodigio essere reale?
Respirare come respiravano le altre ragazze, parlare come parlavano le altre ragazze, invecchiare come facevano le altre ragazze?
E come avrei potuto, io, farmela sfuggire?
Doveva aver toccato un qualche tasto ben nascosto dentro di me. Qualcosa che non sapevo nemmeno di avere.
Una passione animalesca, violenta e sbagliata.
Ero impazzito del tutto, completamente. Ero fuori di me, anche solo per pensare ad una bambina in quel modo.
Meritavo l'ergastolo.
Ma la mia Cassandra.
Oh, la mia innocente Cassandra, quando ero avvolto dalla passione, sembrava valerne la pena.
In quei folli istanti, il mio unico desiderio era alzarmi da quello stupido letto, spalancare la porta e correre verso la sua stanza, dirle che la volevo, spiegarle che volevo da lei ogni cosa, molto più di quanto lei potesse immaginare, molto di più di quanto io avessi mai avuto da una donna.
In quegli istanti credevo di amarla.
E la conoscevo appena.
Ma conoscevo appena anche l'amore. Anzi, forse nemmeno lo conoscevo davvero. E cosa poteva essere quell'esplosione di passione se non amore?
Non l'amore platonico, non l'amore di un marito per la moglie, non quello di una madre per i figli, né quello che nasce all'improvviso tra due anime gemelle.
Dio, non volevo sposarla, non volevo dei figli, non volevo passare la mia vita con lei.
Ma, in qualche stupido, strano e sporco modo, l'amavo.
Forse nell'unico modo in cui il mio cuore malato avrebbe mai potuto amare.
Sapevo che, qualsiasi cosa fosse successa, ovunque me ne fossi andato, che fossi rimasto o che fossi scappato, lei sarebbe rimasta lì, dentro di me, nel mio cuore, nella mia mente, nel mio corpo, per sempre.
A torturarmi tra i rimorsi e i rimpianti.
Chiudevo gli occhi stanchi e la vedevo, distinta in ogni più insignificante particolare.
Ma non vi era nulla di insignificante in lei. Solo perfezione, solo il preciso tocco divino che aveva disegnato ogni centimetro di quella pelle immacolata.
Le gambe affusolate, lunghe e bianche come il latte, i calzini bordati di pizzo che si fermavano pochi centimetri sopra il dolce, piccolo osso sporgente sulla caviglia, le ginocchia magre ricoperte di una leggerissima lucente peluria bionda appena percepibile sotto il riflesso della luce, la gonna sollevata, le cosce spalancate, le mutandine di cotone bianco, un filo di ventre piatto scoperto, il leggero candido top rosa che celava appena le sue forme sinuose, i capelli che ricadevano dolcemente ai lati del viso da bambola.
Avrei passato volentieri il resto della mia vita a baciare quel viso dolce e infantile, se solo avessi potuto congelarlo per sempre.
Evitare che le guance si ispessissero, che piccole rughe si formassero ai lati delle rosse labbra carnose e dei dolci occhi da cerbiatta.
Raccogliere le sue lacrime tra le labbra perché non le rigassero le guance, rovinando quella pelle liscia e vellutata, accarezzare i lunghi capelli perché non perdessero la lucentezza, la morbidezza, posare migliaia di baci su quelle labbra così calde e dolci, perché fossero sempre gonfie dei miei baci.
La verità era che la volevo così com'era.
E l'avrei sempre voluta soltanto così.
Giovane, piccola, immatura, innocente.
Dai fianchi stretti, la camminata infantile, le labbra avvolte intorno al lecca lecca, gli occhi impauriti, le guance soffici e il seno appena, dolcemente, pronunciato che spingeva sulla stoffa trasparente.
Che mi rinchiudessero, che facessero qualsiasi cosa, ma che non mi privassero di quel dolce bocciolo non ancora fiorito che era la mia bimba sfacciata.
Mi alzai dal letto, ascoltando il rumore delle sue nocche leggere che sfioravano per la terza volta la porta di legno della mia stanza.
Sorrisi, immaginando i suoi piedi avvolti nei calzini saltellare impazienti sul pavimento, il lecca lecca che ondeggiava dalle labbra di ciliegia alle dita sottili, il cuore che batteva nel suo minuscolo petto.
Le voci si accavallavano nella mia testa, mi impedivano di ragionare.
Apri quella porta, forza.
Se la fai entrare non te ne libererai più.
Potresti farla tua, anche ora.
Dovresti scappare, finché puoi.
Le misi a tacere, la mano avvolta attorno al pomello freddo.
Aprii la porta con un sussulto, puntando lo sguardo sulla piccola figura impaziente dietro di essa.
"Finalmente" cinguettò Cassandra, spingendomi da parte e fiondandosi sul mio letto ancora disfatto.
"Pensavo non mi volessi più vedere" mormorò afferrando un cuscino tra le braccia e piantandovi un piccolo innocente bacio.
"Mi sei mancato" continuò, guardandosi attorno come se non riconoscesse nemmeno più la mia stanza.
Sollevai le labbra in un mezzo sorriso, avanzando a grandi passi verso il letto.
Anche tu, mi sei mancata così tanto.
Le mie labbra rimasero sigillate, il letto che cedeva appena sotto il mio peso.
"Hai fame?" domandò ancora, allungando un piede avvolto nel calzino bianco sopra la mia spalla, sfiorando il collo della mia camicia.
Il mio corpo che fremeva sotto il suo tocco, i miei occhi che percorrevano la sua figura incessantemente.
Annuii, alzando incerto una mano verso la sua gamba tesa sopra la mia spalla.
La sfiorai con l'indice, dalla caviglia al ginocchio, gli occhi puntati nei suoi.
Cassandra sorrise liberandosi del mio tocco con una risata e saltando giù dal letto, il cuscino che volò in aria e ricadde accanto a me.
Afferrò il mio polso tra le sue esili dita, tirandomi verso di lei e accompagnandomi fuori dalla mia stanza e giù lungo le scale.
Giù, verso l'inferno.
Non riuscivo a capire.
Non riuscivo ad analizzarmi.
Quando lei era con me, sentivo una passione così intensa, così violenta dentro il petto che mi sembrava tutto così naturale, così ovvio, così inevitabile.
Come se desiderare una ragazzina fosse possibile. Come se fosse normale.
Come se non ci fosse nulla di sbagliato.
Ma sapevo che non era così.
Che non era mai stato così per me e che non sarebbe mai dovuto esserlo.
Ma, semplicemente, non potevo immaginare una vita in cui non fossi incappato in questa creaturina, in cui non avessi provato l'ebbrezza di possedere un fiore innocente.
Cassandra mi trascinò in cucina, aprì la credenza e si appollaiò sul ripiano, le ginocchia appena arrossate per aver strisciato contro la superficie ruvida del mobile.
All'interno vi era qualche dozzina di confezioni di carne, legumi e altro cibo inscatolato e riposto in un angolo da almeno un anno.
Aprì anche un altro sportello, dove si trovavano invece cibi più freschi, consegnati probabilmente il mattino prima da qualche corriere.
Già mi aveva detto che una volta alla settimana un camion si fermava e riforniva l'hotel di una modesta quantità di prodotti freschi, secondo un qualche accordo stipulato con il quasi inesistente padre di Cassandra.
Ma mi importava poco o niente del cibo.
Avrei potuto digiunare anche per il resto dei miei giorni, se questo mi avesse permesso di poterla possedere senza pagare alcuna conseguenza.
Afferrò una confezione di uova e della carne essiccata e la poggiò sul ripiano della cucina, richiudendo la credenza e voltandosi verso di me per scendere.
La presi per i fianchi, sollevandola di qualche centimetro per poi posarla a terra, le dita che indugiavano sui suoi fianchi.
"Non dovresti smettere di succhiare quel lecca lecca, ogni tanto?" domandai, lasciandola andare.
Lei sollevò le labbra in un mezzo sorriso, il dolciume ancora fermo dentro la sua bocca.
Alzò le spalle, passandosi una mano sul viso per spostare una ciocca bionda dietro l'orecchio.
"Quando mangio, smetto" cinguettò, passandolo all'altra guancia.
Sospirai, osservandola voltarsi verso il lavello, la gonna leggermente spiegazzata.
Avrebbe presto avuto la bocca troppo impegnata per potersi dedicare a quel lecca lecca.
Mi sedetti su una sedia a pochi passi da lei, lo sguardo fisso sulla sua schiena coperta dalla cascata di capelli biondi.
Lavò in fretta le uova, per poi posarle in un angolo e asciugarsi le mani sulla gonna.
Prese una ciotola e le ruppe all'interno, per poi iniziare a sbatterle con una forchetta.
Percorsi le sue gambe con lo sguardo, soffermandomi sul piede destro che colpiva piano il terreno seguendo il ritmo di un motivo che aveva iniziato a fischiettare.
Accese il fuoco e vi posò una padella, versandoci le uova sbattute.
Fece una piroetta, aprendo un'altra credenza e prendendo due piatti.
Li appoggiò sul tavolo e vi lanciò sopra qualche fetta di carne, riuscendo a centrare entrambi i piatti.
Qualche minuto dopo aggiunse le uova e abbandonò la padella sporca nel lavello.
"Bon appétit" esclamò, in un francese un po' malandato, per poi lasciarsi cadere sulle mie ginocchia, le lunghe gambe sottili a cavallo della mia gamba destra.
Trattenni un gemito, stringendo le dita attorno alla forchetta e avvicinai il mio piatto, cominciando a mangiare.
Non era un granché in cucina, ma apprezzavo comunque lo sforzo.
Mangiò rapidamente metà del suo piatto, il lecca lecca appoggiato sul bordo, accanto alla carne.
"L'acqua" sussurrò ad un certo punto, lasciando cadere la forchetta sul piatto.
Si allungò sopra di me verso il ripiano del lavello su cui erano appoggiati una bottiglia e alcuni bicchieri vuoti.
Piantai i denti nel labbro inferiore, la gonna che le era salita sopra le mutandine, togliendomi il respiro e la schiena sempre più nuda mano a mano che si spingeva in avanti.
Mi passò i bicchieri e poi la bottiglia, prima di tornare a sedersi, costringendomi a spostarmi sulla sedia per coprire la mia erezione.
Sollevai il braccio destro attorno al suo fianco, accarezzando lentamente la sua pelle, mentre versava un bicchiere d'acqua per me ed uno per lei.
Bevve il suo a piccoli sorsi, prima di prendere in mano il mio e voltarsi verso di me, la mano sinistra che si spostava sulla mia gamba per aiutarla a sostenersi.
Presi il bicchiere dalle sue mani e bevvi l'acqua in fretta prima di posarlo accanto al suo, sul tavolo.
Cassandra non si voltò, gli occhi ancora puntati su di me e la mano ferma a pochi centimetri dal cavallo dei miei pantaloni.
Sollevò l'altra mano verso il mio viso, i miei occhi che seguivano rapiti ogni suo movimento, mentre con una precisione estrema le sue dita sfioravano il mio labbro inferiore, asciugandolo dalle goccioline d'acqua.
Piantò i denti nel suo labbro inferiore, continuando ad accarezzare la mia bocca, in silenzio.
Rimasi immobile, ascoltando il battito del suo cuoricino che riempiva la stanza.
"Mi piacciono le tue labbra" mormorò dopo qualche istante, "sono soffici" ridacchiò, sistemandosi meglio sulla mia gamba.
Deglutii sonoramente, attirandola a me, il suo fianco sinistro pressato su di me.
Avvicinai il viso alla sua fronte, stampandovi un bacio leggero.
Lei emise una risatina, mostrando i denti bianchissimi e reclinando appena il capo all'indietro.
Socchiuse le palpebre per un istante, appoggiando entrambe le mani sulle mie guance e accarezzandole appena.
Riaprì dolcemente gli occhi, scrutando i miei con attenzione e pensando ad una domanda che non tardò ad arrivare.
"Ti piacerebbe baciarmi?"
+++
scusate il ritardo, volevo aggiornare stamattina ma poi sono stata sommersa dagli impegni.
spero che il capitolo non faccia schifo, fatemi sapere che ne pensate!
love you❤
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