6. Dominatio (2/2)
02:22
Quando Iggy lo lasciò sul vialetto e si dileguò con una sgommata, la prima cosa di cui Damiano si accorse fu di avere un lunghissimo capello scuro attaccato alla giacca. Lo afferrò tra il pollice e l'indice e lo esaminò sotto la luce che illuminava il cancello d'ingresso, mentre una falena gli svolazzava in un'orbita intorno al capo.
L'ultima volta che aveva indossato quella giacca si trovava con Virginia. Doveva avergli appoggiato distrattamente la testa sul petto, oppure era stato lui stesso a tirarle per sbaglio un capello a furia di far scorrere le mani tra le sue ciocche.
Gli sfuggì un sorriso. C'erano diversi modi in cui poteva interpretare quel segno. Da un lato aveva tutta l'aria di essere un cattivo presagio, un monito e un memento – sarebbe potuto uscire con tutte le persone che voleva, diceva, ma senza mai liberarsi del tutto di lei. Eppure Damiano vi percepì una sorta di calore, come se in realtà Virginia avesse voluto proteggerlo o portargli fortuna a distanza.
Non preoccuparti, pensò, sto preparando qualcosa anche per te.
Rientrò in casa con il riverbero della proposta folle che gli aveva fatto appena qualche giorno prima in testa.
All'ingresso si rese conto subito di non essere solo. Anche se era buio, distinse chiaramente il respiro pesante di suo fratello a pochi metri da lui, nell'area salone. Lasciò il mazzo di chiavi nel piatto in vetro di Murano sul mobiletto accanto alla porta, si tolse le scarpe e avanzò nel corridoio fino a immettersi nella luce opaca che pioveva dalla vetrata principale del piano terra, a metà tra il bagliore della luna e quello delle lampade da giardino.
La figura di Davide, nella stessa luce, con i capelli lisci e sciolti sulle scapole, il corpo longilineo e il pigiama bianco, ricordava quella di un'eterea creatura notturna che striscia fuori dalla sua tana una volta tramontato il sole. Se ne stava in piedi dinanzi al divano, al centro della stanza, e aveva il volto sollevato verso l'orologio sulla parete del televisore. La lancetta dei secondi proseguiva il suo giro in un ticchettio quasi inudibile.
«Da'» lo chiamò Damiano.
Davide lo ignorò. Corrucciò solo un po' lo sguardo, come se nella visione di quell'orologio gli stesse sfuggendo qualcosa, come se tra loro ci fosse un enigma o una partita in atto. L'orologio voleva suggerirgli la soluzione, ma Davide continuava a non capire. Era calmo, però per mantenere quella calma doveva aiutarsi respirando profondamente dal naso.
Nulla a cui Damiano non avesse già assistito.
Gli si avvicinò roteando gli occhi. «Sì, Da', sono le due e ventidue. Direi che è ora di andare a dormire.» Per qualche assurda ragione, era fissato con quello e una manciata di altri orari da quand'era ragazzino. Non era la prima volta che lo trovava sveglio di notte a fissare l'orologio. Almeno il neuropsichiatra aveva assicurato a suo padre che non si trattava di un comportamento allarmante. Diceva che fosse un altro dei piccoli rituali nella sua routine, la necessità di controllare il tempo, di aggrapparsi a una forma di concretezza.
Tentò di circondargli le spalle con un braccio per accompagnarlo di sopra, ma a quel punto Davide si scostò riservandogli una faccia seria e infastidita. Damiano, come ogni volta che lo guardava così da vicino, non si capacitò della loro somiglianza. Davide era solo poco più basso di lui. I geni dei loro genitori si erano mescolati in modo così sorprendentemente simile soltanto per produrre due individui che non avevano niente a che fare l'uno con l'altro.
Davide lo precedette lungo le scale. Forse la vera differenza tra loro stava nel modo di camminare: nonostante l'indolenza nelle braccia che li accomunava, la rigidità nella colonna vertebrale di Davide lo faceva sembrare sempre in allerta per pericoli di cui nessuno era a conoscenza.
Al secondo piano, Damiano notò che la porta della camera da letto di Delio era aperta.
«Papà non è ancora tornato?»
Davide scosse la testa.
A quel punto avvertì una leggera stretta al petto. Suo fratello era solo in casa da ore. Non che per lui fosse un problema: neanche quando c'erano Damiano, Delio o Gaia a fargli compagnia apriva bocca o interagiva con loro. Si limitava a leggere, a studiare qualcosa per i suoi corsi online o a suonare un po' la tastiera con le cuffie indosso. In linea di massima, era più che in grado di cavarsela tra le mura domestiche. Il neuropsichiatra aveva parlato di autismo ad alto funzionamento, una volta. Ma forse suo padre aveva fatto troppo affidamento su quella denominazione. Credeva di poterlo trattare come un adulto autonomo e responsabile senza curarsi delle conseguenze, come del resto aveva sempre fatto anche con Damiano.
La prima volta che l'aveva lasciato da solo con Michelangelo e Angelica a Villa Anthares per due o tre giorni, isolato sulle colline e senza linea telefonica, aveva tredici anni. Era proprio da quell'estate che aveva smesso di avere paura di qualsiasi cosa. Non appena Delio era tornato alla villa insieme allo zio Italo, con il sorriso complice e smagliante di quando si calava nei panni del padre amicone, Damiano l'aveva guardato pensando: sono un tuo pari, quindi, adesso. Sono un uomo anch'io. In verità, sentiva di essere diventato uomo in quei due giorni anche per un altro motivo.
Da allora, insieme a Davide, era dovuto scendere a patti con la presenza altalenante di un altro genitore.
Eppure gli occhi di Delio sembravano seguirlo ovunque mettesse piede, come se in realtà tutta quella libertà non fosse altro che una prova. Eppure Delio, a differenza di Erika, trovava sempre il modo per dimostrargli quanto lo amasse e quanto lo avesse desiderato come figlio.
Sbirciò nel buio della camera padronale cercando di ricordare l'ultima volta in cui aveva parlato con sua madre. A pensarci, non era neanche mai stata in quella casa, da quando si erano trasferiti. Quelle pareti avevano visto le sue foto e il suo volto dagli schermi dei dispositivi durante le videochiamate ma mai la donna in carne e ossa. Allo stesso modo, era da un po' che Damiano aveva chiuso con Stoccolma. Persino suo padre era andato a trovarla per il suo quarantacinquesimo compleanno, lo scorso dicembre, ma lui non ne aveva voluto sapere più niente, anzi, era stato proprio sul punto di rinfacciargli «Te l'avevo detto che è tutto inutile» quand'era tornato dall'aeroporto con una faccia scura e un mutismo di tomba, solo perché lei non aveva gradito la sorpresa. Era un illuso se sperava ancora di poterla riconquistare. Le cose non stavano più come quando era un'ingenua modella di diciannove anni e lui un uomo già affermato di trentotto.
Quella storia della separazione senza divorzio aveva sempre reso le cose ambigue per tutti.
In fin dei conti, Damiano non conosceva altro che ambiguità da parte loro. Neanche ricordava il periodo della sua vita in cui i suoi genitori non erano separati. In tutto, quella cazzo di fiaba d'amore grandiosa in cui suo padre credeva ancora non era durata nemmeno dieci anni. Si domandava quando sarebbe arrivato il giorno in cui un'altra delle donne con cui usciva ogni tanto si sarebbe presentata al cancello dicendo: «Ciao ragazzi. Sono la nuova compagna di vostro padre. Da oggi sarò la vostra cattivissima matrigna.»
Davide e Damiano si avviarono ciascuno verso la propria stanza. Le loro porte in successione sulla parete destra, e quella di Gaia in fondo a sinistra, dove Damiano non entrava da mesi – come da bambino, quando aveva paura di varcare la soglia della sua camera per via delle bambole sulle mensole a cui Gaia aveva strappato i capelli e scolorito il trucco dal viso.
Davide si fermò un secondo prima di abbassare la maniglia. Ruotò quasi impercettibilmente verso di lui.
«Comunque prima è passato Michelangelo» disse, con la voce bassa e arrochita dal mutismo.
Damiano si bloccò, anche lui con la mano pronta intorno alla maniglia. Erano passate settimane dall'ultima volta che aveva sentito parlare suo fratello. A metabolizzare la frase che aveva appena ascoltato, gli si serrò di colpo la gola. «Cosa?»
Davide tenne lo sguardo fisso a terra. «Ti stava cercando. Per un po' ha aspettato che tornassi, ma poi se n'è andato.»
«Ha detto di cosa voleva parlarmi?»
Damiano si aspettava una risposta, ma dopo un paio di secondi sospesi nel nulla Davide entrò in camera senza aggiungere altro.
Damiano, stordito, lo imitò. Sapeva che sarebbe stato inutile insistere. Una volta in stanza si appoggiò di schiena alla porta e abbracciò con lo sguardo quell'ambiente impersonale che sentiva appartenergli sempre di meno, man mano che si avvicinava l'estate. Gli nacque una risata dal fondo dei polmoni, come se fossero stati solleticati da una fiammella.
Rise, rise di cuore. S'immaginò Michelangelo seduto sul suo letto, reclinato su un gomito, che lo osservava con quei soliti occhi truci di carbone e le membra impigrite dal fentanyl. Provò a immaginare ogni luogo della casa in cui si era fermato in attesa del suo ritorno, i passi zoppicanti che aveva compiuto e le orme fantasma che aveva lasciato.
Se aveva bisogno di parlargli faccia a faccia, allora Damiano conosceva già benissimo il perché.
Neanche Michelangelo era capace di rinunciare al loro santuario.
10:00
Ogni tassello si era allineato al proprio posto.
Il mercoledì successivo, l'ultimo giorno di scuola, Damiano entrò al Santa Teresa con la sensazione di avere tra le mani il potere di plasmare la realtà a proprio piacimento. Quel giorno sapeva con precisione cosa fare per ottenere ciò che voleva: era talmente semplice che, in un certo senso, sentiva pure di averlo già ottenuto. Per lo più si trattava di una formalità. Ma non per questo si sarebbe divertito di meno.
Stava pregustando da ore lo svolgimento di quella mattinata. Riusciva quasi ad avvertirne il sapore squisito sulla punta delle labbra, come se le avesse bagnate sorseggiando un succo esotico, o proprio gli umori tra le gambe di Virginia.
In quel quadro che aveva creato ad arte, mancava soltanto lei.
La fermò nell'androne al piano terra dopo averla aspettata per una decina di minuti. Salì i gradini all'ingresso un po' di corsa e senza notarlo, con due chiazze rosse spruzzate sulle guance e i ciuffi scombinati sulle tempie; i tacchetti delle scarpe batterono ritmicamente sul pavimento. Aveva fatto più tardi del solito. Intorno a loro, solo qualche bambinetto delle elementari accompagnato all'ultimo minuto dalla mamma e un paio di suore che conversavano con un inserviente.
Cambiò volto, quando lo vide – evento che ormai gli era familiare, i suoi occhi che si allargavano, la bocca che si schiudeva e la pelle che si distendeva nella zona della fronte. Abituata a evitarlo, cercò di passargli davanti senza far trapelare le sue emozioni, ma Damiano la afferrò per un polso e la tirò indietro.
«Virginia» la salutò, enfatizzando il tono cordiale che avrebbe usato con qualsiasi altra compagna di classe.
Virginia lo guardò stupita e indecisa su cosa dire. «D-Damiano...»
«Che coincidenza, siamo arrivati alla stessa ora. Saliamo insieme?»
Mentre raggiungevano il terzo piano, l'uno di fianco all'altra sulle scale come nessuno li aveva mai visti in cinque anni di liceo, anche se sempre un po' distanti, lo spazio di un altro braccio tra le loro braccia, Virginia deglutì. Forse ce l'aveva, una vaga idea di cosa stava per chiederle.
«L'hai portato?» le sussurrò sull'ultimo pianerottolo, inclinandosi di poco verso di lei.
«Sì...»
«Perfetto. Mettitelo poco prima della riunione in cortile.» Le rivolse il sorriso più da schiaffi che potesse stamparsi in faccia e aggiunse: «Vediamo se sei davvero disposta a fare tutto quello che ti dico.»
Virginia scappò in classe con le mani avvinghiate alla tracolla.
Damiano la sentì pronunciare un «Buongiorno» stentato a suor Evelina prima che richiudesse la porta della 5B dietro di sé, con un ultimo sguardo fugace verso di lui. Proseguì per il corridoio in direzione della propria aula pensando e ripensando senza sosta alle implicazioni di quella prova.
Non faceva che rifletterci da quando si era allontanato da casa Sannazzaro quel pomeriggio.
Perché aveva avuto timore di andare a prendersela? Virginia era il soggetto esemplare delle sue ricerche, molto più di Iggy, Achille e di chiunque altro avesse incontrato negli ultimi anni. Lo era così tanto da essere pericolosa. Forse perché mai nessuno aveva rappresentato al cento per cento quell'ideale, ed entrarci in contatto avrebbe comportato far venire alla luce una nuova parte di sé.
A te non piacerebbe sapere cosa si prova dall'altro lato?
Si era arrovellato per giorni su quanto fosse seria quando gli aveva fatto quella proposta, ma allo stesso tempo aveva saputo sin dal primo istante che non l'aveva formulata tanto per dare aria alla bocca. Non restava che darle la possibilità di dimostrarlo, e di assistere comodamente alla performance. In fondo, aveva già accettato il pericolo come male necessario per quell'anno.
Dopo il silenzio del fine settimana, aveva ricontattato Virginia senza più menzionare il discorso. Avevano ricominciato a parlare come se nulla fosse, con Damiano che dirigeva la conversazione a intervalli di ore tra un messaggio e l'altro.
Poi le aveva fatto recapitare un pacco per posta.
Ti ho preso un piccolo regalo. Aprilo quando sei sola, le aveva scritto.
Quel giorno, l'aria era frizzante per tutti. I suoi compagni non facevano che ridere e simulare affetto per un tempo che stava per finire, i professori azzardavano qualche battuta o finivano per ricordare episodi dell'anno appena concluso con un pizzico di nostalgia. La professoressa di fisica disse che erano la migliore classe che avesse mai avuto, un gruppo proprio ben assortito, e che li avrebbe sempre portati nel cuore negli anni a venire. Forse non aveva mai scoperto che erano stati Ludovico, Teo e Guglielmo a rigarle la fiancata della macchina, prima delle vacanze di Natale. Sperò seriamente che Angelica non diventasse come lei in futuro, una volta uscita dalla facoltà, che non fosse costretta a sparare le stesse stronzate dalla bocca.
Damiano partecipò a quella farsa collettiva con grande distacco, come se stesse osservando tutti da dietro un vetro insonorizzato. Persino Ludovico sembrò godersela di più. A lui invece non interessava più nulla di quel mondo, perché stava già dall'altra parte da tempo. Era solo impaziente di ufficializzare il passaggio.
Alle dieci in punto tutte le classi del liceo uscirono in file ordinate nel cortile interno dell'istituto per il consueto discorso di fine anno della preside.
Mentre si sistemavano dinanzi alla pedana allestita per Suor Germana, sotto il sole clemente del mattino, Damiano sentì qualche ragazza parlare della festa che avevano organizzato al Mirage e a cui si sarebbero imbucate anche altre scuole. Dicevano di aver chiamato un rapper famoso ad aprire il dj set. Dicevano che avrebbero indossato abiti più costosi degli abiti da sposa delle loro madri. Avevano fatto le cose in grande. Per i tipi come loro fare le cose in grande era tutto ciò che contava. Guardandosi attorno, Damiano prefigurò la fine che avrebbe fatto ciascuno dei suoi compagni.
Se li vedeva bene a dannarsi per i propri fallimenti, per non aver potuto adempiere alle aspettative che la generazione precedente aveva posto su di loro; qualche fortunato avrebbe raggiunto i propri obiettivi, certo, magari solo con qualche accusa di frode o molestie a carico e un matrimonio in rovina alle spalle, ma la maggior parte si sarebbe incagliata in una vita di illusioni, direttori d'azienda, medici, magistrati, artisti borghesi parenti di altri artisti borghesi, ereditieri destinati ai centri di riabilitazione, amanti e figli illegittimi, alcolizzati e bravi cristiani della domenica. Forse qualcuno si sarebbe addirittura fatto prete. Giovanni Amendola in effetti sembrava sulla buona strada, visto che era uno dei pochi a essersi iscritti al Santa Teresa effettivamente perché era una scuola cattolica.
Se li vedeva bene, tutti loro, in un posto come Villa Anthares quando sarebbe diventata Hotel Anthares. Se suo padre l'avesse pubblicizzato a dovere sarebbe diventato un rifugio molto allettante per una vacanza alternativa: ecco quale levatura di persone avrebbe messo piede nel suo paradiso terrestre.
Probabilmente un giorno sarebbe andato a farsi un giro e avrebbe ritrovato davvero i suoi vecchi compagni di scuola con mogli e prole al seguito, flaccidi e stempiati, stesi sui lettini a bordo piscina o su una canoa al centro del lago – non poteva neanche togliersi lo sfizio di immaginare i loro corpi devastati dagli insetti, perché sapeva che Delio aveva già in programma una disinfestazione generale.
Nel complesso, vedeva bene tutti loro a precipitare in un baratro senza amore e senza felicità, perché dal punto in cui si trovava era a quello somigliava la vita adulta. Anno dopo anno, dritti verso il fondo. Ma forse al di sopra del baratro c'era ancora una finestra aperta da attraversare? O un fiume che scorreva in direzione opposta? Una parte di lui credeva di essere ancora in tempo: per questo avrebbe preso i suoi cinque eletti per mano e li avrebbe condotti al fiume con sé, dove avrebbero potuto salvarsi.
Restò in fondo al cortile, sotto il porticato. Perse Ludovico di vista. Quando tutti si furono posizionati in uno schieramento di bravi soldatini, individuò Virginia nelle retrovie insieme agli studenti più alti e andò a mettersi alle sue spalle.
Non appena si accorse di lui, la sua schiena si tese d'istinto in un unico fascio. Non si voltò, ma Damiano intuì alla perfezione che cosa le stesse passando sulla faccia.
Suor Germana si fece accendere un microfono dal tecnico della sala computer. Si schiarì la voce, generando in reazione un silenzio reverenziale. Lo macchiò soltanto il vociare dei bambini al primo piano, che stavano facendo merenda con le finestre aperte. Per quanto neanche la preside avesse totale controllo sui suoi pupilli, la sua aura suscitava sempre un certo effetto nei momenti solenni. Forse perché non usciva quasi mai dall'ufficio e aleggiava sulle aule più come una minaccia che come una reale presenza. I maschi della sua classe, però, erano stati portati tutti almeno una volta da lei. Una volta Ludovico era finito dalla preside perché aveva i capelli troppo lunghi per gli standard del regolamento; un'altra perché era stato beccato a palpeggiarsi con una ragazza di terza sulle scale antincendio.
Vederla attraversare i corridoi con il suo andamento affaticato, dato dal peso e dalla scoliosi, era sempre stato un evento eccezionale. L'essere mitologico che affiorava dalla sua caverna. L'ultima volta che l'avevano vista per più di qualche minuto era stata al funerale di Achille.
Fu proprio con Achille che Suor Germana decise di introdurre il discorso.
«Cari ragazzi» cominciò, stemperando appena il viso arcigno che si ritrovava, dominato da due sopracciglia folte e nere. Cercò di guardarli uno a uno, mentre anche le altre suore e i professori la ascoltavano, sparpagliati tra gli studenti. «Oggi, come ogni ultimo giorno, ci riuniamo per concludere l'anno scolastico. Questo però è stato un anno molto difficile da affrontare per la nostra scuola. Per la prima volta abbiamo conosciuto una sofferenza che ci ha messi duramente alla prova come persone e come comunità. La scomparsa del nostro caro Achille, avvenuta lo scorso marzo, ci ha segnati tutti nel profondo. Ma il suo sorriso, la sua presenza e tutto ciò che era per ciascuno di noi vivono ancora nei nostri cuori, e per questo noi oggi vogliamo onorarlo ricordando l'affetto che ha saputo donarci.»
Damiano voltò in automatico lo sguardo verso un punto a sinistra. L'anno precedente Achille era stato proprio lì, qualche fila più avanti, e si era girato apposta per rivolgergli una smorfia d'intesa.
«Ciò che possiamo fare qui, insieme» continuò Suor Germana, «è ribadire l'insegnamento di Cristo, che ha promesso la sua presenza nei momenti di smarrimento e di dolore. Il futuro che vi attende, e che attende soprattutto i nostri maturandi di quinta, può sembrare incerto e spaventoso: per questo vi chiedo di seguire sempre la strada indicata dalla fede. Se la seguirete, come avete fatto per tutto il vostro percorso scolastico, non potrete mai sbagliare.»
Il discorso proseguì su quella scia con riferimenti alla «deriva morale» intrapresa dalla società, ai «valori cristiani» che si stavano sempre più smarrendo nel tempo a favore delle «oscenità e le trasgressioni», al dovere morale di «estirpare i semi del male che si nascondono in ciascuno di noi», e fu allora che Damiano pensò: ma chi ce li ha messi dentro, questi semi del male? Voi, i nostri genitori o Dio stesso?
Smise di ascoltare.
Dare anche solo un minimo retta al vuoto di quelle parole significava ammettere di essere praticamente l'Anticristo. Ecco quanto era utile il contributo di Suor Germana per la sua chiesa: aveva avuto davanti a sé l'Anticristo per cinque anni e nemmeno se n'era accorta.
Magari non era neanche l'unico. Erano già tutti mele marce, lui e i suoi compagni. Persino Giovanni che annuiva con tanto trasporto avrebbe continuato a compiere il suo spicchio di male fino alla fine dei suoi giorni. I semi avevano già attecchito da tempo.
Si avvicinò di qualche centimetro a Virginia con apparente casualità. In un momento in cui era certo che nessuno li stesse guardando, fece scorrere i polpastrelli della mano destra sotto la sua gonna, un tocco leggerissimo, quasi inconsistente, sul retro della coscia. Le si accapponò la pelle all'istante.
Damiano ritrasse la mano per infilarla nella tasca dei propri pantaloni. Non le avrebbe dato altri segnali. Quello era già stato un atto di misericordia. Dalla stessa tasca, mentre Suor Germana continuava a parlare, fece scivolare il piccolo telecomando ovale in dotazione tanto quanto bastava per premere il primo pulsante.
Virginia trasalì e incespicò in un mezzo passo in avanti.
Allora sei stata di parola, pensò Damiano.
Il ragazzo di quarta accanto a lei le lanciò un'occhiata stranita, ma poi tornò a ignorarla. Per i minuti successivi, entrambi finsero di tornare ad ascoltare Suor Germana – Virginia non smise per un attimo di tenere la testa dritta davanti a sé, eppure Damiano intercettò tutti i minuscoli cambiamenti e movimenti del suo corpo. Un inconfondibile tremolio nella cavità dietro il ginocchio. I piedi che ruotavano verso l'interno provocando un leggero attrito con la pavimentazione di pietra.
Decise che non era abbastanza, e diede un altro input al telecomando desiderando di vederla contorcersi davanti a lui, davanti a tutti.
Virginia inalò forte dal naso. Riuscì a udire uno stridio sommesso nel suo respiro, come quello di un pulcino schiacciato da un masso. Si domandò se ci fosse una soglia oltre la quale avrebbe potuto spezzare la sua resistenza.
Ma lei fu brava, e testarda, e costantemente sul punto di crollare da un momento all'altro. Intraprese una danza immobile di godimento e insofferenza visibile soltanto a lui. La più grande dimostrazione però la diede a quella platea. Una dimostrazione di superiorità. Li stava prendendo in giro tutti, dissimulando con una tale ferocia: gli studenti che l'avevano presa di mira, i frustrati che sarebbero diventati in futuro, i ragazzi che non avrebbero mai sperimentato un piacere così alto, gli insegnanti con la loro patetica accondiscendenza, le suore con le loro idee stantie sul bene e il male e lo spirito e il corpo, i genitori che erano convinti di aver fatto un buon lavoro con tutti loro. Li stava riportando tutti a terra, o forse li stava addirittura seppellendo, mentre lei s'innalzava.
Gli rammentò senza alcun discorso magniloquente che c'era sempre qualcosa di più importante da venerare.
Per un attimo Virginia guardò verso l'alto, verso il quadrato di cielo vivo su di loro, in un moto di disperazione, come se stesse chiedendo di essere trasportata altrove.
Stai pregando? Chi è che invochi, in questi casi?
Si avvicinò di nuovo quanto bastava al suo orecchio per mormorarle in un soffio: «Vai nell'aula vuota accanto all'ufficio della preside. Ti raggiungo tra poco.»
Disattivò il telecomando per darle il tempo di allontanarsi. Se ricordava bene dai discorsi degli anni precedenti e aveva fatto bene i calcoli, tra gli interventi dei professori e del rappresentante d'istituto, avevano un'altra ventina di minuti prima che tornassero tutti al piano di sopra. Virginia si staccò dalla fila e andò a piccoli passi rigidi verso Trimarchi, addossato con una spalla a una colonna del porticato. Gli chiese il permesso di andare in bagno, per un'emergenza o qualcosa del genere.
Aspettò qualche minuto prima di seguirla. Proprio quando fu sul punto di lasciare il cortile, trovò la testa riccioluta di Ludovico a qualche metro di distanza, in mezzo alle teste di altri compagni. Lo stava guardando, e dal suo sguardo sostenuto, quasi sconfitto, Damiano si rese conto che aveva assistito a tutta la scena.
Ricambiò con un'occhiata di indifferenza. Beh, presto o tardi saresti venuto a saperlo comunque. Gli parve quasi di averglielo voluto rinfacciare di proposito. Con la stessa impassibilità voltò i tacchi e raggiunse l'androne senza avvisare alcun insegnante. In ogni caso, nessuno avrebbe fermato il figlio di Delio Vicari. Che vedesse, adesso, Ludovico, che vedesse cosa aveva creato con la sua Virginia sotto il naso di tutti.
Salì i gradini in fretta reggendosi al corrimano. Rallentò solo in cima alle scale, dove ebbe la sensazione che fosse cominciata una caccia, alla ricerca delle sue tracce, dei suoi capelli che oscillavano nel corridoio dopo aver svoltato l'angolo. Inseguì la sua scia immaginaria. Più che di una preda, gli sembrò di essere alle calcagna di uno spirito, come quando coglieva il barlume di una visione nel bosco a Villa Anthares e provava a rincorrerla. Il silenzio del terzo piano gli ronzò nei timpani. Non c'era anima viva a parte loro.
Arrivò davanti all'ufficio della preside. Era chiuso a chiave, ma lì accanto si stagliava un'altra porta un po' rovinata, di un'aula in disuso in cui nessuno entrava mai, a parte i collaboratori e la preside stessa ogni tanto – proprio per quell'eventualità nessuno tra gli studenti l'aveva mai sfruttata per il proprio tornaconto, pur di evitarsi una predica infinita.
In quel caso, Virginia stava rischiando ben più di una predica.
Damiano entrò senza il minimo rumore, infilandosi nello spiraglio della porta. Virginia sussultò, quando lo vide: era appoggiata alla cattedra verde sbiadito che troneggiava al centro della classe, davanti a una misera fila di quattro o cinque banchi difettosi. Dietro i banchi, una serie di vecchie lavagne pieghevoli ancora sporche di gesso, due pile di sedie e altri mobili da ufficio coperti da teli bianchi.
C'era una veneziana blu ad adombrare la finestra. In quell'ala della scuola il sole non batteva mai, al mattino, per questo la luce che riempiva la stanza appariva quasi color indaco su di loro.
«Dov'eri?» gli chiese Virginia con un filo di voce, come se avesse timore che anche le pareti potessero sentirli. Provò ad avvicinarsi a lui, angosciata, ma Damiano la fermò.
«Resta lì» le intimò. «Non ti muovere.»
Virginia tornò semiseduta sulla cattedra. Lo seguì con due occhi lucidi come due biglie mentre avanzava nell'aula e andava a sedersi su uno dei banchi, esattamente di fronte a lei.
Per qualche secondo si fissarono senza dire nulla.
«Cosa... cosa vuoi che faccia?»
Damiano accennò a un sorriso. Ecco perché era stato certo sin dal principio che avrebbe superato la prova. Virginia non aveva nemmeno la percezione di quanto la stesse mettendo nei guai in quel momento. Se li avessero scoperti, avrebbero potuto sospenderla e farle saltare gli esami così che fosse costretta a ripetere l'anno. Dopo mesi di studio, condannata a ricominciare la recita da capo. Dopo mesi, presa in giro ancor più spietatamente da tutta la scuola. E tutto per un piccolo vibratore comandato a distanza tra le cosce. Ammesso che Suor Germana non avesse deciso di espellerla seduta stante.
Estrasse di nuovo il telecomando ovale dalla tasca, al che vide Virginia stringere di riflesso le dita sul bordo della cattedra. «Avevo tante idee per questa giornata, ma alla fine ho deciso di seguire l'ispirazione del momento.» Premette di nuovo il pulsante. «Sai a cosa stavo pensando, prima?»
Virginia allungò i piedi sulle mattonelle del pavimento e scosse la testa mordendosi il labbro.
«Avrei voluto che tutti ti vedessero venire, per una volta» disse. «Avrei potuto farlo. Avevo quasi intenzione di farlo. Ero proprio curioso di sapere come te la saresti cavata, in mezzo a tanta gente. Ma preferisco tenere questa visione per me ancora per un altro po'.»
Virginia, adesso che poteva rispondere al proprio corpo, si lasciò andare reclinandosi sempre di più sulla cattedra, finché non vi si stese del tutto, dondolando di qua e di là dolcemente come per il rollio di una barca.
Un po' alla volta Damiano incalzò l'intensità della vibrazione. Virginia, dopo poco, non fu che un ammasso di affanno e ansiti sordi, di muscoli che tentavano invano di afferrare qualcosa che stava ben oltre lei, perché intralciati dalla loro stessa carne. Il crocifisso ancora appeso alla parete alle sue spalle coronava alla perfezione la scena di quell'anelito impossibile. Era questo, questo ciò che Damiano intendeva quando diceva che avrebbe voluto mostrarlo a tutti – che tutti avrebbero dovuto vivere l'intera vita secondo quell'impulso invece di limitarsi a declinare inesorabilmente.
Si staccò dal banco e la raggiunse in pochi passi. Incastrò le gambe alle sue e premette i palmi sulla superficie della cattedra, accanto ai suoi fianchi bollenti, per abbassarsi un po' su di lei. Virginia tentò di tirarlo a sé per la cravatta, ma Damiano sibilò: «Non toccarmi.»
Stavolta lei non riuscì a soffocare un piagnucolio di protesta.
La ammirò ancora per qualche secondo, sotto di sé, mentre si dimenava come sull'altare del suo sacrificio, con gli occhi gettati all'indietro e circondata dappertutto dalle onde dei suoi capelli. Gli venne voglia di strappare il crocifisso dal muro e ficcarglielo dentro fino a farla piangere davvero.
Sporse di più il viso verso il suo.
«Vieni a Villa Anthares con me» le disse infine con delicatezza, come se stesse parlando con un bambino, o con l'amore della sua vita.
Note d'autrice:
Ecco qui la seconda parte ♥ Aggiornamento dell'1 di notte perché non volevo lasciarvi con il weekend a mani vuote! Spero che il capitolo vi allieti queste giornate fredde.
In generale, rimetto qualsiasi commento a voi. Sono molto curiosa di sapere se avete qualche considerazione sulla famiglia di Damiano (finalmente è comparso Davidino ♥), adesso che siamo praticamente alle porte di Villa/Hotel Anthares, dove verranno svelati un po' dei loro segreti.
Per quanto riguarda Virginia, beh, penso che l'esito dell'invito non fosse difficile da immaginare. È la modalità che è... molto da Damiano. Io stessa sono stata tantissimo tempo a riflettere su cosa si sarebbe potuto inventare ahahaha
Spero di poter scrivere presto il capitolo 7. Da qui in poi inizia il bello 👻
A presto e grazie per avermi fatto compagnia lungo questa prima parte della storia!
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