4. Settimana Santa



4.


Settimana Santa



17:28


Quando bussò alla porta di casa Miranda, il pomeriggio del Venerdì Santo, stava ancora pensando alla lunga scopata che si era fatto con Virginia Sannazzaro l'ultimo giorno prima delle vacanze.

Non era da lui stare a rimuginare sul sesso occasionale, e la cosa lo turbava. Per quanto fosse stato soddisfacente, si era detto che non sarebbe più ricapitato: non aveva alcuna intenzione di illuderla o di iniziare un qualsiasi tipo di rapporto con lei, non con il rischio che Virginia gli si appiccicasse addosso e cominciasse a intralciarlo. L'aveva accontentata per mera curiosità, perché aveva intravisto nel suo desiderio qualcosa che andava oltre il desiderio delle persone comuni, e a lui divertiva molto avere il potere di esaudire i desideri altrui – in un certo senso, era tutto ciò per cui viveva –, ma solo delle persone che lo stuzzicavano abbastanza da meritarselo.

Il problema era che quella curiosità non era affatto diminuita. Anzi. Adesso che aveva delle conferme su di lei, la curiosità aveva innescato mille nuovi scenari luccicanti nella sua immaginazione. Stava ogni tanto a pizzicarlo in un punto sull'osso occipitale, dietro la testa, a ricordargli che non aveva esplorato neanche la metà del potenziale di Virginia, o peggio, a ricordargli la sensazione della sua carne morbida al tatto che aveva potuto impastare a suo piacimento.

Quella notte l'aveva sognata. Anche se non era sicuro che fosse lei. Stavano entrambi distesi sul suo letto, Virginia gli dava le spalle, nuda e avvolta in un lenzuolo trasparente che frusciava come acqua o forse proprio fatto d'acqua, i suoi capelli sontuosi sparsi intorno. Damiano ricordava di essersi sollevato su un gomito per poterla osservare meglio. Sì, era proprio come una statua accasciata in un laghetto, la sentiva respirare a stento, e lui aveva provato un certo timore reverenziale prima di toccarla; non era Venere né Ozymandias, ma qualcosa di più grande, a lui fin troppo familiare. Di nuovo? Sei di nuovo tu? Quando l'aveva fatta voltare per una spalla, aveva scoperto che non aveva la faccia. Il viso composto di sola pelle, sembrava che gli stesse sorridendo a modo suo, muovendo i tratti della bocca come un piccolo rettile che si agita sotto un telo. Con la solita voce distorta, né maschile né femminile e proveniente da chissà dove, gli aveva detto: «Questo è il mio corpo.»

Ludovico, accanto a lui sui gradini dinanzi alla porta bianca, il profilo reso scultoreo dal naso alla greca e le mani infilate nelle tasche del bomber Emporio Armani, sospirò. «Era proprio necessario?»

«Non vuoi passare per il ragazzo educato che va a trovare una famiglia a lutto?» ribatté lui.

In realtà apprezzava che Ludovico l'avesse accompagnato lì senza fare domande. Doveva aver colto le sue vere intenzioni solo in parte, eppure aveva preso la macchina ed era passato a prenderlo intorno alle cinque senza la minima protesta, come gli aveva chiesto. Il villino dei Miranda si trovava nella zona nordorientale della città, in un parco residenziale costruito da appena qualche anno insieme a tutti gli altri parchi residenziali del quartiere. Nel complesso, per quanto borghese, sembrava un luogo finto messo in piedi in fretta e furia come una di quelle cittadine americane sorte dal nulla intorno a un'azienda o a un terreno fertile. Si domandò se il sottosuolo non nascondesse anche lì qualche tesoro fortunato.

L'istante successivo, la porta si aprì rivelando la figura del padre di Achille, un uomo imberbe sulla quarantina che aveva ancora nel viso un'aria da adolescente. «Ragazzi!» Li accolse con un sorriso imbarazzato che ce la mise tutta per apparire cordiale.

«Buonasera, Gerardo» disse Damiano. Aveva avvisato qualche ora prima tramite suo padre che sarebbe arrivato. Delio non ci aveva messo nulla a trovare un genitore dell'istituto che avesse il suo numero. Si era complimentato con lui, fierissimo, per l'idea di fare visita ai Miranda.

«Venite, entrate.»

Gerardo Miranda li scortò lungo il corridoio del piano terra, verso il salotto. L'ultima volta che Damiano era stato in quella casa, verso novembre, Achille aveva sbuffato sonoramente proprio perché si era messo a parlare per un'infinità di tempo con suo padre dei successi della sua startup green e di energie rinnovabili, dopodiché l'aveva trascinato al piano di sopra per vedere un film con lui su Netflix. Stava già male, a quel tempo, ma era ancora bravissimo a tenere tutto in piedi. Quando si trattava di incontrare Damiano al di fuori della scuola, poi, la felicità non era neanche una finzione.

«Tesoro, sono arrivati gli amici di Achille» disse Gerardo alla moglie, seduta sul divano più grande a ricamare a maglia.

La donna – da cui entrambi i figli avevano preso la criniera di capelli rossi e la spruzzata di lentiggini sul naso – alzò a malapena lo sguardo dalla sciarpa a cui stava lavorando. Dalla lentezza con cui muoveva le dita, sembrava avesse imparato da poco. Non pronunciò neanche un saluto e tornò subito a maneggiare i ferri col capo chino.

Gerardo gli si accostò, sullo stipite della porta, passandosi nervosamente una mano sulla fronte. «Dovete scusarla. Non si è ancora ripresa.»

«Si figuri, capiamo benissimo» disse Ludovico.

«Anzi, se siamo di troppo andiamo via» aggiunse Damiano.

«Oh, no no, non preoccupatevi. Mi fa molto piacere che siate qui. Non è da tutti, alla vostra età.» Si schiarì la voce. «Ma dov'è Alice? Santo cielo, la perdo di vista ogni tre secondi. Alice?»

La bambina comparve dalla cucina trotterellando, con una bambola sottobraccio, un barattolo aperto di Nutella tra le mani e la bocca sporca di cioccolata.

«Alice!»

Alice si nascose dietro le gambe del padre, alla vista dei due ospiti. Ma la loro presenza le diede subito un nuovo brio. Prima che Gerardo potesse afferrare il barattolo di Nutella, Alice corse verso Damiano e glielo consegnò.

«Grazie» le disse Damiano con un sorriso, sedendosi sui talloni per stare alla sua altezza. «Ti ricordi di me?»

Alice annuì con eccessiva enfasi. «Posa tu» gli disse poi, e scappò in salotto accanto alla madre per tornare a giocare con le sue bambole.

Damiano consegnò il barattolo a Gerardo. «È cresciuta tantissimo, in questi mesi.»

Gerardo annuì con un'amarezza che raffreddò l'aria tutt'intorno a loro. Cominciò a parlare d'altro. Li portò in cucina, offrì loro da bere e dei biscotti. Chiese dei loro padri, della compagnia navale dei Cardinale, scambiò qualche commento con Damiano sul mercato delle azioni e sulle criptovalute, come se Damiano facesse parte di quel mondo già da anni o come se suo padre avesse infuso il suo genio in lui direttamente per via genetica, rendendolo il suo alterego. Damiano, dal canto suo, non si fece trovare impreparato. Gli adulti adoravano coinvolgerlo nelle conversazioni perché ormai riusciva a passare alla perfezione per uno di loro.

Ludovico li ascoltò sorseggiando un bicchiere di Coca Cola. Nella sua impazienza riusciva ad apparire piuttosto paziente. Rischiò quasi di farlo ridere, per l'atteggiamento falsissimo che aveva – non era così evidente dall'esterno, era bravo a muoversi in società quasi quanto lui, solo che Damiano lo conosceva troppo bene per non fare caso al modo fondamentalmente sarcastico in cui annuiva o inclinava la testa di lato per mostrare interesse. Era, senza alcun dubbio, la persona più menefreghista che avesse mai incontrato. Proprio per questo lo apprezzava: gli ricordava quanto talvolta potesse concedersi di essere senza scrupoli, la gente come loro.

A un certo punto, Damiano chiese a Gerardo Miranda di vedere la camera di Achille un'ultima volta prima di andarsene.

«Ma certo» disse subito lui, come se ci avesse già pensato. «Vi porto di sopra.»

Tornarono in corridoio e si fermarono accanto a un mobiletto in noce pieno di foto incorniciate prima di imboccare le scale. Per gran parte, i soggetti ritratti negli scatti erano Achille e Alice. Achille a sei o sette anni senza due dentini, Achille poco più grande che teneva in braccio un gatto tigrato, Achille che portava un'Alice minuscola sulle spalle – si ricordò che uno dei primi giorni a Villa Anthares se l'era preso sulla schiena e l'aveva portato in giro nella parte più vicina del bosco, tra i ginepri, facendolo ridere a voce alta. «Mi sembra di essere Bella in Twilight» aveva detto. Era così leggero che avrebbe potuto continuare a camminare per chilometri, con le sue gambe avvolte intorno alla vita.

Gli si attorcigliò lo stomaco. Quasi non sentì Gerardo che diceva, indicando la foto di un uomo anziano che reggeva un vassoio di dolci: «Questo è mio padre, nonno Achille, da cui Achille ha preso il nome. Qui ci era venuto a trovare dalla Sicilia.»

Salirono al piano di sopra in silenzio, Ludovico che chiudeva la fila infestando l'aria con la sua colonia da novecento euro. La stanza di Achille era la prima a destra.

Prima che Gerardo aprisse la porta, Damiano pensò di trovarla identica all'ultima volta in cui l'aveva vista: eppure, nonostante non fosse cambiata di una virgola e nonostante la luce calda che trapelava dalle tende, la percepì del tutto estranea. Probabilmente sua madre non aveva spostato neanche un quaderno dal giorno della sua morte, forse avrebbe potuto trovare anche dei suoi capelli sparsi in giro se si fosse messo a cercare, ma senza Achille quella stanza sembrava non avere più ragione di esistere. Era lui ad aver animato quei colori, le trapunte verdi, le lucine che pendevano dalle pareti sui poster dei film dello Studio Ghibli. Da soli, tutti quei dettagli non erano in grado di ricostruire la sua presenza. Nemmeno la libreria da cui strabordava la sua collezione di manga: i nomi JoJo, Soul Eater, Fullmetal Alchemist, Black Butler e Pandora Hearts, dopo che li aveva associati a lui per mesi, adesso non gli dicevano più niente.

Sondò in pochi secondi la stanza facendo vagare le pupille da un punto all'altro come sul ripiano di un flipper, mentre Gerardo continuava a parlare con Ludovico, la voce un po' più traballante dopo aver messo piede in quell'area della casa. Individuò subito qualcosa che attirò la sua attenzione.

Si avvicinò alla scrivania muovendo qualche passo lì attorno con apparente flemma.

«Verrete alla messa di Pasqua, domenica?» chiese Gerardo.

«Certo» disse Damiano.

«Credo che Padre Costantino dedicherà qualche altra parola ad Achille. Ci è stato davvero vicino nell'ultimo periodo. Anzi, è stato anche gentilissimo a rivolgergli quella bella omelia al funerale. Non tutti i preti l'avrebbero fatto con... con quello che è successo.»

Damiano non riuscì a distogliere lo sguardo dalla scrivania. Un po' in disparte in mezzo alle piantine, i portapenne, il Macbook e un foglio A3 in cui stava cominciando a segnare con un pennarello i kanji per imparare il giapponese, c'era un quadernetto un po' malandato, aperto su una pagina strappata.

Concentrò tutte le sue energie mentali su quel particolare. Sulla pagina mancante. Stava proprio cercando di capire se Achille avesse lasciato qualche traccia di quanto era accaduto a Villa Anthares, così da poterla occultare. Poteva dire di essersi recato lì con quell'unico scopo. Ripulirsi la coscienza a modo suo. Non ci dormiva la notte, al pensiero che i genitori potessero trovare qualcosa di compromettente per la sua reputazione, un'arma da usare contro di lui per chiedere vendetta: ecco di chi è la colpa. Possiamo smettere di arrovellarci. Abbiamo qui il responsabile.

Achille doveva aver dissimulato con grande convinzione per mesi, davanti a loro. Al momento Gerardo pareva non sospettare minimamente di lui e della vacanza che avevano trascorso insieme l'anno precedente. Era ancora costretto a brancolare nel buio senza risposte, ma Damiano temeva che parte delle risposte avrebbe potuto trovarsi proprio in quella stanza.

Una pagina strappata di per sé non significava nulla; non poterne conoscere il contenuto, però, mentre era alla ricerca di indizi, la trasformava all'istante in un enigma. Nulla gli permetteva di escludere che l'avesse strappata Achille stesso settimane addietro – poteva trattarsi di un testo di qualsiasi argomento, di un numero di telefono appuntato, di uno scarabocchio o di una macchia di inchiostro.

Il vero problema era che come intestazione della pagina precedente, semicancellata da un tratto di penna, c'era una scritta in corsivo che recitava: Caro Damiano.

Un guanto di aculei gli sfiorò la nuca.

Sembrava l'inizio di una lettera. Doveva aver cambiato idea subito dopo aver cominciato a scriverla, ma poteva anche aver deciso di scriverla in un secondo momento sulla pagina adiacente.

Nel giro di un attimo si rese conto che avrebbe dovuto trovare una scusa per mettersi a scavare in camera di Achille. Il foglio poteva essere ancora nel cestino, o in un cassetto, o tra i libri nella sua tracolla. Fu invaso da un fuoco che gli bruciò il petto in una vampata di calore. Achille gli aveva scritto un messaggio d'addio.

Stava giusto elaborando qualche scusa da rifilare al padre o una motivazione per tornare nei giorni seguenti, quando un richiamo di Alice risuonò per le scale.

«Papi

La schiena di Gerardo si irrigidì. Si udì un tonfo e poi un piagnucolio lamentoso.

«Alice!» la chiamò, sfigurato dall'ansia. Perdere un figlio probabilmente significava anche quello: cominciare a vedere ovunque pericoli in agguato per chi era sopravvissuto. «Scusate, ragazzi, torno subito.»

Scese le scale a passi svelti, e Damiano pensò che la provvidenza doveva essere dalla sua parte.

Si fiondò sul quadernetto. Lo sfogliò velocemente facendo scorrere le pagine tra le dita, ma vi trovò soltanto dei disegni, nella maggior parte dei casi cigni fluttuanti sul pelo dell'acqua oppure in volo, di diverse dimensioni. Il fuoco arse con più intensità iniettandosi anche nei suoi occhi. Il cigno era l'animale che gli si era manifestato più spesso a Villa Anthares, da quando aveva assaggiato i fiori di stramonio. Un paio di volte li avevano visti anche assieme, uno stormo placido che solcava il lago in assoluto silenzio, mentre loro erano stesi sull'erba a riva.

Su qualche altra pagina vide di sfuggita la sagoma di una donna dai capelli lunghissimi e neri che tendeva le braccia verso l'osservatore.

Richiuse il quaderno di scatto e si mise ad aprire i cassetti della scrivania uno a uno cercando di non fare rumore. Frugò brevemente in ciascuno di essi, per poi passare al successivo. Non aveva molto tempo.

«Che stai facendo?» gli chiese Ludovico a bassa voce, perplesso.

«Sto cercando una lettera indirizzata a me» disse Damiano. «Aiutami.»

Ludovico non se lo fece ripetere due volte. Afferrò qualche volume dalla libreria a casaccio dove avrebbe potuto tenerla ripiegata, mentre lui passava ai cassetti del comodino. Vi trovò delle compresse di melatonina, dei prodotti per la pelle, un caricabatterie, dei portachiavi dimenticati. Passò alla tracolla e si inginocchiò sul pavimento per svuotarla in fretta, ma fu subito chiaro che la lettera non si trovava nemmeno lì. Rimise tutto al proprio posto e controllò al volo tra le cartacce nel cestino sotto la scrivania prima che Gerardo Miranda salisse nuovamente le scale. Alice aveva già smesso di piangere.

Quando i suoi passi furono vicini, Ludovico e Damiano si ricomposero.

Gerardo riapparve sotto la porta con la bambina in braccio, il moccio che le colava dal nasino arrossato e un ginocchio sbucciato sotto la gonnella di velluto. «Voleva salire per venire a farci compagnia ma è caduta» disse, rivolgendole uno sguardo intenerito. «Non le piace stare da sola.»

«Deve mancarle tanto, Achille» osò Damiano con un sorriso debole.

«Tantissimo.» Gerardo fece una pausa per guardarsi attorno. «Non credo che cambieremo qualcosa, in questa stanza. Achille non ce lo perdonerebbe mai. Soprattutto se dessimo via i suoi fumetti.»

«Assolutamente no. Dovete tenerli. Magari tra qualche anno anche Alice si appassionerà ai manga e sarà felicissima di leggere quelli di suo fratello.»

«Avevamo pensato di darli a un suo amico che passa spesso a trovarci, ma anche lui ci ha detto la stessa cosa. Davvero, Achille è stato molto fortunato a incontrare persone come voi. Quando ci siamo trasferiti ricordo che non si trovava molto bene a scuola, ma poi...»

Damiano non finì neanche di ascoltare il resto del discorso. Un presentimento gli aveva annebbiato il cervello. «Iggy?» chiese, aggrottando la fronte.

«Cosa?»

«Sta parlando di Iggy?»

«Ah, lo conoscete?»

«Ci siamo conosciuti al funerale. Achille mi aveva parlato di lui qualche volta.»

«Sì, erano molto legati» disse Gerardo, con il tono di chi sapeva benissimo di essere stato tenuto all'oscuro di qualcosa, forse incolpando un po' se stesso e deducendo che qualche suo atteggiamento doveva pur aver fatto pensare ad Achille che non potesse aprirsi del tutto con lui. «L'ultima volta è passato proprio ieri» aggiunse.

Damiano fissò il vuoto con un leggero tremore alla palpebra. Sentì il sangue fluire dritto verso il cervello.

L'immagine di Iggy che strappava la lettera dal quaderno di Achille, per ricattarlo o fargli un dispetto, gli apparve come un lampo accecante tra i pensieri.

Riuscì a stento a mettere insieme qualche parola per congedarsi. Ludovico, che continuava a guardarlo di sottecchi, si accorse immediatamente che qualcosa non andava. Lo seguì fuori dalla stanza senza togliergli gli occhi di dosso.

Lo sguardo di Damiano, invece, puntò senza volerlo sulla porta del bagno di fronte la camera di Achille. Il bagno con la vasca. Lo possedé una rabbia gelida e tagliente.

Mi spieghi perché sei stato così debole?

Perché hai dovuto far finire le cose così?

Eri perfettamente in grado di reggere tutto questo.

Perché noi siamo andati avanti e tu hai ceduto come un vigliacco?

Allo stesso tempo, in coda alla rabbia, si fece largo nella sua mente una scena che non aveva mai immaginato prima d'ora: immaginò di essere lui a trovare Achille in quel bagno con le braccia a penzoloni e in un mare di sangue, di avvicinarsi in un balzo tra i rigagnoli d'acqua rosea che colava sulle piastrelle del pavimento, di sollevarlo e di correre in ospedale con il suo corpo in braccio – per chilometri e chilometri senza sosta, sì, ecco quanto era leggero. Se l'avesse trovato lui, si sarebbe salvato. I medici l'avrebbero ricucito con cura e lo avrebbero riempito di sangue nuovo proveniente da un donatore anonimo del suo stesso gruppo sanguigno. Se fosse stato il suo ragazzo, gli avrebbe tenuto la mano in ospedale per i giorni a venire e l'avrebbe riaccompagnato a casa con la Coupé mentre lui riposava sul sedile del passeggero, con i raggi del sole a fargli brillare le ciglia. Se fosse stato il suo ragazzo, avrebbe dormito con lui ogni notte per proteggerlo dagli incubi e baciargli le cicatrici al risveglio.

Al piano di sotto, la madre di Achille li stava aspettando vicino alle scale. Se ne stava dritta e inespressiva nel suo cardigan di lana, con le braccia conserte, piccolina e minuta come una delle bambole di sua figlia, ma anche piena di un dolore antico che la faceva apparire molto più anziana della sua età. Non disse nulla. Li guardò scendere e guardò Damiano negli occhi, quasi come se volesse assicurarsi di fargli sapere: So cos'hai fatto.

«Arrivederci» dissero in coro Damiano e Ludovico, voltandosi un ultimo istante verso i tre membri superstiti della famiglia.

Gerardo e Alice ricambiarono sventolando una mano. «A presto.»

La prima cosa che Damiano fece, una volta all'esterno, fu sfilare il telefono dalla tasca e mandare un messaggio a Iggy, mentre percorreva a una velocità bestiale il lastricato che conduceva al cancello del parco.

Ludovico tenne il passo senza fiatare per qualche minuto. Quando furono di nuovo in strada e abbastanza lontani dalla casa, però, gli diede uno spintone con entrambe le mani. «Oh, ma ti ripigli?»

Damiano si fermò. «Ma che problemi hai?»

«Tu che problemi hai?» ripeté lui con una mezza risata fredda, allargando le braccia. «Senti, io ti ho accompagnato e tutto, oggi. Ti ho assecondato solo perché pensavo che così ti saresti tranquillizzato, ma ti vedo più agitato di prima. Ti devi stare calmo, Damià, ok? Non è successo niente.»

Damiano distolse lo sguardo e riprese a camminare, stavolta con un incedere più naturale. «Hai presente quella lettera? Potrebbe esserci scritto qualsiasi cosa, e al novantanove percento Iggy Teodorescu se l'è fottuta.»

Ludovico gli si affiancò. «Beh e allora? Pensi che potrebbero incastrarti per la morte di Achille? E come? Cosa potrebbero dire, che l'hai manipolato e istigato al suicidio? E con quali prove? Ti stai facendo troppe paranoie.»

«Se Achille avesse raccontato quello che abbiamo fatto a Villa Anthares e le conseguenze psicologiche che ha dovuto subire...»

Ludovico fece un verso beffardo. «Ma per favore. Vuoi dirmi che tuo padre non ha un buon avvocato? Onestamente noi altri stiamo tutti benissimo e potremmo tranquillamente testimoniare a tuo favore. Non mi pare tu l'abbia costretto a fare alcunché. Pure i fiori ha scelto di assaggiarli lui. Non è colpa tua se 'sto ragazzetto era mentalmente fragile ed è uscito di testa. Non è colpa di nessuno. Magari aveva anche altri problemi di cui non eravamo a conoscenza. A saperlo avremmo solo dovuto portare qualcuno di più adatto. L'hai rischiata troppo grossa, con uno così, solo perché volevi provare qualcosa di nuovo.»

Damiano non rispose. Restò a rimuginare sulle sue parole per un po'.

Solo perché volevi provare qualcosa di nuovo.

Era vero: Achille aveva avuto libero arbitrio sin dal primo istante in cui aveva messo piede a Villa Anthares. Tutto ciò che aveva fatto, al massimo, l'aveva fatto per conquistarsi il suo affetto. Se analizzava la situazione sotto quest'ottica si sentiva quasi in dovere di assolversi, così come Ludovico si era già autoassolto da tempo per molte cose. Per questo aveva bisogno di tenerselo stretto. Uno come Ludovico gli dava modo di ragionare cinicamente come un perfetto membro del loro ceto, con la concretezza di chi ha il terreno ben solido sotto i piedi e il mondo nelle proprie mani. Non sempre l'idealismo di Michelangelo e Angelica portava a qualcosa. A volte nella vita si presentava la necessità di procedere dritti per la propria strada senza guardare in faccia a nessuno.

Mentre avanzavano lungo il tragitto per arrivare al parcheggio, tra oleandri e aiuole indorate dal tramonto, Damiano fece un respiro profondo inalando forte dal naso. Si rese conto di aver reagito in maniera eccessiva. Adesso, l'aria fresca e l'odore pungente dell'erba lo stavano aiutando a tornare lucido. Rivedere casa di Achille lo aveva intossicato.

«Angelica non la pensa esattamente come te» disse a Ludovico.

«Ci avrei scommesso. È una moralista del cazzo, quando ci si mette. L'hai più sentita?»

«No, dalla morte di Achille. Mi ha urlato addosso per tutta la telefonata, te l'ho detto, no? Secondo lei è proprio colpa nostra. Dice che da tempo giocavamo con il fuoco e che prima o poi qualcuno ci avrebbe sul serio perso la testa.»

«Mi viene da ridere, guarda» disse Ludovico, effettivamente divertito. «Non mi pare che fosse così contraria quando si è fatta scopare in tutti i buchi da noi tre, quella volta. O per tutte le altre cose. Non ascoltarla, per cortesia. L'hai sempre ascoltata troppo, per i miei gusti.»

Damiano si rigirò tra le dita una pallina di carta che non ricordava di avere nella tasca dei pantaloni. Il pensiero di aver litigato seriamente con Angelica dopo anni di assoluta sintonia, in verità, lo dilaniava. Aveva già resistito due volte all'impulso di chiamarla, ma non era sicuro che fosse stata la scelta giusta. Non avere più accanto a sé da un momento all'altro una delle due persone di cui si fidava di più al mondo lo faceva sentire dimezzato.

«E Michelangelo che ne pensa?» gli chiese Ludovico.

Forse entrambe le persone di cui si fidava di più al mondo.

«Non ho più sentito neanche lui. Non credo sia della sua stessa opinione, ma sta di sicuro dalla sua parte.»

«Bel cugino, cazzo.»

Damiano mandò giù un bolo di rancore. L'assenza di Michelangelo lo feriva ancora di più dell'assenza di Angelica. Forse non riusciva a liberarsi di quel senso di colpa perché avvertiva costantemente i suoi occhi neri e giudicanti sulla nuca – non come il giudizio di un padre, ma quello di un suo pari. Non un cugino ma un fratello. Più di un fratello. Il loro sangue mentiva da qualche parte: in un'altra vita sarebbero di sicuro stati gemelli siamesi, e Damiano gli avrebbe impedito con il proprio corpo e i propri legamenti di allontanarsi da lui.

«Da quando si è rotto la gamba non lo capisco più» si convinse a dire.

«E da quando Angelica vive in pianta stabile a casa sua.»

«Angelica non c'entra» ribatté infastidito. Non sopportava il modo in cui Ludovico parlava di loro. Nonostante fosse entrato a far parte del loro gruppo già da un po', non si era mai sforzato di capire davvero il rapporto che li univa. Si fermava alla superficie: erano un trio inseparabile da quando avevano quattro o cinque anni. Ma non si trattava soltanto di quello. Non c'erano mai state gelosie, tra loro tre. «Lo sai che Michelangelo ha un carattere ostico e che non è facile averci a che fare. Devo solo trovare la quadra per capire cosa gli passa per la testa questa volta.»

«Beh, buona fortuna» disse Ludovico, con un sorrisetto sarcastico. «Mi sa che quest'anno salta tutto, senza di loro. La situazione non mi sembra delle migliori.»

Damiano si rabbuiò ancora di più. «Sono ancora in tempo per convincerli. È l'ultimo anno. Non posso sprecarlo sapendo che non potrò mai più rivedere Villa Anthares.»

Ludovico divenne d'improvviso più cauto. Sapeva quanto quel discorso fosse delicato per lui. «Non sei riuscito a far cambiare idea a tuo padre?»

«No. È già tutto pronto. I lavori inizieranno a settembre.»

«Merda, è stato proprio irremovibile allora. Però... dai, non è che non potrai tornarci mai più.»

«Certo che potrò tornarci» disse Damiano. «Tornerò in un bellissimo resort immerso nella natura, nuovo di zecca, con hotel, piscine, spa e campi da gioco pieno di gente estranea che insozza ogni cosa e non sa assolutamente un cazzo di quanto quel luogo abbia significato per me.»

L'unico che sarebbe dovuto essere mio per sempre.

Ludovico tacque per un po'. Arrivarono al parcheggio all'aperto in cui avevano lasciato la macchina, il parcheggio di un centro commerciale inaugurato da poco. Il cielo si era tinto di un vivo arancione che s'intonava con le bucce dei mandarini sugli alberi. Camminarono tra le auto parcheggiate e qualche piccione che beccava a terra finché non raggiunsero la Mercedes Roadster grigio opaco di Ludovico, un regalo del padre per i suoi diciotto anni.

Prima di salire, però, si accesero una sigaretta dal pacco di Marlboro di Ludovico e si fermarono a fumarla appoggiati al fianco della macchina. Un gruppetto di ragazze della loro età, appena uscite dalle porte girevoli con decine di buste di marchi fast fashion, passò loro davanti sull'asfalto lanciando occhiate e risatine. Ludovico ricambiò il sorriso ammiccante alla più piacente di loro. Si domandò cosa avrebbero pensato, quelle ragazze, se lo avessero incontrato nella sua veste più animalesca a Villa Anthares, tutto ringhi e grugniti e deltoidi rilucenti di sudore. Ormai si poteva dire che Damiano l'avesse visto nudo più volte di sua madre. Il modo in cui scopava gli piaceva: aveva notato quanto, a dispetto della dominanza che ostentava, in lui dimorasse un istinto di essere schiacciato da una forza superiore, che tentava invano di contrastare con il proprio corpo. Un patetismo. Una ribellione che in realtà era obbedienza.

Ciò che non gli piaceva era il modo in cui Ludovico interpretava quello che facevano a Villa Anthares. Da come ne parlava, era evidente che la vedesse come una dimensione del tutto diversa, separata dalla loro vita vera, di cui dimenticarsi per il resto dell'anno, un grande gioco proibito ed eccitante che lo elevava rispetto agli altri, ma pur sempre con un inizio e una fine. Per Damiano i confini erano molto più sfumati. L'esistenza che viveva a Villa Anthares era la sua aspirazione costante, l'esistenza a cui avrebbe puntato per indole se nessuno l'avesse fermato – era sì diversa dalla dimensione quotidiana, ma sovrapposta, come un cerchio su un altro cerchio; sapeva poi, al contrario di Ludovico, che Villa Anthares non era affatto una parentesi, bensì il luogo in cui venivano a galla le loro persone reali.

«Ma quindi... se riuscissi a organizzare la vacanza quest'anno chi ti porteresti appresso?» gli chiese lui quando le ragazze si furono allontanate.

Damiano rilasciò uno sbuffo di fumo. «Al momento non saprei proprio.»

«Dai, spara qualche nome.»

Ci pensò su. «Giovanni Amendola.»

Ludovico colse l'ironia. «Perché non suo nonno, invece? La voglia di divertirsi è la stessa.»

«Marco Paolini.»

«Femmine, Damià, femmine.»

«Suor Justine.»

«Ti devo dire...»

«Nicole De Benedetti.»

«Chi cazzo è?»

Si prese un secondo. Con la stessa casualità disse, dopo un altro tiro di sigaretta: «Virginia Sannazzaro.»

Ludovico scoppiò a ridere di una risata sguaiata. «Ti prego. Sarebbe uno spasso. Quella si bagna solo all'idea.»

Damiano si voltò a guardarlo negli occhi per studiare la sua reazione, inarcando un sopracciglio. Ignorò il suo ultimo commento. «Cosa pensi davvero di lei? Non te l'ho mai chiesto.»

«Ma sei scemo?» fece Ludovico. «È una sfigata con problemi mentali, cosa vuoi che pensi? È come sparare sulla crocerossa.»

«Perché non la lasci mai in pace, allora?»

Ludovico assottigliò lo sguardo e calpestò il mozzicone della sigaretta appena consumata con una scarpa. «Io l'ho detto che l'influenza di quei due ti fa male. Non farmi la morale, mo'. Anche tu fai lo stronzo con la stragrande maggioranza delle persone, ma io ti copro sempre.»

Ecco che tornava il cinismo che riportava Damiano con i piedi per terra. O meglio, che lo spingeva a guardarsi allo specchio: a differenza di Michelangelo e Angelica, Ludovico non era un amico di cui aveva stima, non condivideva né i suoi interessi né la sua mentalità, ma serviva a ricordargli ogni giorno cosa si aspettava la gente da lui, cosa interessava alla gente come lui, quale fosse il suo ruolo nella società normale. Ludovico era un modello di comportamento e, anche se non sempre decideva di seguirlo, essere amico di Ludovico era una scelta strategica.

Senza contare che era una delle poche persone che avrebbero fatto di tutto per lui. Non era quello, del resto, il criterio reale con cui Damiano selezionava le persone di cui circondarsi?

Gli aveva appena detto che avrebbe testimoniato il falso a un processo, per lui. Forse si sarebbe addirittura fatto tagliare un dito, se Damiano gliel'avesse chiesto. Dopotutto nemmeno Ludovico poteva perdere il suo modello. In un certo senso, senza Damiano avrebbe perso la sua stessa identità.

Il fatto era che permetteva solo alle persone con quella predisposizione di mettere piede a Villa Anthares. Non avrebbe svelato i segreti della radura, che erano anche i suoi segreti, al primo che si fosse dimostrato amichevole. La fiducia era il presupposto fondamentale. Un suo invito non era solo un segno di gratitudine, era un atto d'amore. Così come gli invitati si sarebbero messi del tutto a sua disposizione, anche lui avrebbe dato tutto se stesso per loro. Non c'era luogo in cui preferisse di più esaudire i desideri degli altri, i peggiori – lì, a Villa Anthares, sotto le stelle brucianti, dove ci si poteva liberare per una buona volta dell'ipocrisia e delle pressioni.

Ogni anno, da quando era cominciato il liceo, studiava le persone intorno a sé alla ricerca di quelle che potessero rispecchiare i suoi parametri. Fino ai sedici anni aveva avuto soltanto Michelangelo e Angelica. L'estate tra il terzo e il quarto anno si era aggiunto Ludovico. Aveva capito che era la persona giusta quando l'aveva sfidato ad andare a sfondare di botte un compagno di università di Gaia che la stava molestando a una serata di beneficenza. Era stata la sua prova definitiva, anche se non gliel'aveva mai detto. Non l'aveva visto con i suoi occhi, era successo a tarda notte all'esterno del locale, ma il giorno dopo, a scuola, Ludovico era tornato con il volto tumefatto e un dente scheggiato, tutto gongolante e in assoluto contrasto con la divisa pulita. Da allora chiunque aveva saputo che Ludovico era il suo cane da guardia. «Ti assicuro che lui sta messo peggio di me» gli aveva detto.

Achille, invece, era stato invitato l'anno successivo.

Ludovico interruppe il flusso dei suoi pensieri piazzandosi di colpo davanti a lui. «Ma non è che ti stai scopando Virginia Sannazzaro?»

Damiano gettò a sua volta il mozzicone a terra e inclinò la fronte verso di lui per stare ad altezza del suo sguardo. Sapeva che Ludovico non sopportava di essere più basso di lui, o basso in generale. «Ma non è che vorresti scopartela tu?» chiese, affilato.

Ludovico arricciò un angolo della bocca, la tipica espressione di quando era indispettito anche se fingeva di stare al gioco.

«Neanche se venisse a chiedermelo in ginocchio.»

Damiano non riuscì a trattenere un sorriso divertito. Ripensò alle parole che gli aveva rivolto la prima volta Virginia dopo la lezione di francese: la maggior parte dei ragazzi mi fa ribrezzo.

«Che c'è?»

Credi che lei lo chiederebbe a te?

«Niente, avviamoci ché si sta facendo tardi» rispose Damiano. Mentre aggirava l'auto per aprire la portiera del passeggero sentì il cellulare vibrare in tasca. «E comunque ce l'ho una persona che mi divertirebbe molto invitare in vacanza» aggiunse. «Solo che in questo momento è la persona peggiore che possa venirmi in mente.»

Ludovico si mise al volante con un'espressione interrogativa. «Cioè?» domandò, aggiustandosi di sfuggita i riccioli allo specchietto.

Damiano sbloccò lo schermo del telefono.

Al suo: Quindi quando mi porti a fare questo famoso giro in moto?, Iggy aveva appena risposto: E poi lo stalker sarei io. Chi ti ha detto che ho una moto?



12:15


La Settimana Santa era finita con una Pasquetta deludente in riva al mare, a casa di un amico di Ludovico, dove la maggior parte degli invitati, che sembrava solo saper lanciare battute omofobe e misogine travestite da black humour, si era ubriacata e addormentata senza riserbo in giro sui divani dopo il pranzo.

Damiano aveva sorseggiato giusto qualche bicchiere di vino rosso e aveva passato la giornata a cercare di estorcere via messaggio a Iggy informazioni sulla lettera.

Il martedì mattina non ci era ancora riuscito.

Durante la quarta ora, a scuola, Iggy gli inviò una sua foto mentre era mezzo nudo tra le coperte, gli occhi assonnati sotto la frangia e la luce che filtrava bucherellata dalla tapparella ancora abbassata. La didascalia diceva: mi sono appena svegliato. Tu sei già in classe con la maestra e gli altri bimbi?

Damiano spense stizzito lo schermo del telefono e resistette per miracolo alla voglia di scagliarlo sul banco. Si appoggiò allo schienale della sedia con le narici dilatate e le braccia incrociate, del tutto sordo all'interrogazione dei suoi compagni in atto. La sua mente stava sfrecciando da ore alla ricerca di una chiave per quell'enigma.

Dove ti colpisco, Iggy?

Nei messaggi dei giorni precedenti era emerso che entrambi erano stati a casa Miranda per fare visita ai genitori di Achille. Entrambi, dunque, sapevano quale fosse la posta in gioco di quelle conversazioni, ma nessuno dei due si azzardava a menzionarla. Iggy aveva decisamente il coltello dalla parte del manico. Si comportava con un'irritante noncuranza, aspettando senza fretta un suo passo falso. Damiano, d'altro canto, non poteva farlo insospettire troppo – non poteva mostrargli quanto fosse disperato di conoscere il contenuto di quella lettera. Dalle sue reazioni non riusciva a capirne in alcun modo la gravità. Per quanto le parole di Ludovico avessero avuto un effetto su di lui, non si era tolto dalla testa l'idea che Achille avesse voluto dirgli qualcosa di importante prima di ammazzarsi.

Era una questione di principio. Iggy si era appropriato di qualcosa di suo. Delle ultime parole di Achille. Gli era persino venuto in mente che potesse aver lasciato apposta il quaderno aperto dopo aver strappato la pagina per mandargli un segnale, semmai fosse tornato anche lui in quella stanza.

Odiava parlargli via chat. La tecnologia gli rendeva le persone opache. Odiava non vedere in faccia l'interlocutore, non poter analizzare le sue espressioni, i suoi gesti, le risposte spontanee del suo corpo. Perlomeno Iggy aveva accettato di incontrarlo per un aperitivo in settimana; dal vivo avrebbe sicuramente avuto un vantaggio su di lui.

Passò il resto dell'ora a tamburellare un piede sul pavimento.

Non appena suonò la campanella delle dodici e un quarto si fiondò fuori dall'aula per smaltire la tensione e sgranchirsi le gambe. Qualche studente dalle altre classi lo imitò approfittando del cambio degli insegnanti.

Credeva di trovare un po' di pace e, forse, un'illuminazione per il suo problema, ma ad apparirgli davanti fu l'ultima persona che avrebbe voluto incontrare in quel momento.

Svoltò l'angolo del corridoio, e la vide.

Virginia, che veniva verso di lui.

Virginia che sembrò trattenere il fiato solo a incrociare il suo sguardo.

Camminarono l'uno verso l'altra lungo due traiettorie parallele; Virginia rallentò il passo quando fu sul punto di superarlo. Con estrema prudenza, come se temesse di scatenare energie terribili intorno a sé con un solo movimento di troppo o semplicemente di tradirsi davanti agli altri studenti, sollevò il volto cercando nel suo una scintilla, un cenno, qualsiasi cosa, gli occhi così lucidi che Damiano pensò fosse sul punto di piangere. Damiano si soffermò sul ritmo esatto, lento, del suo respiro. Sul suo petto, lì dove due miseri bottoni le coprivano la pelle.

Non le concesse nulla.

Volse di nuovo lo sguardo davanti a sé e proseguì dritto verso i bagni dei ragazzi.

Non la vide subire il colpo, ma seppe con assoluta certezza di aver infranto qualcosa dentro di lei.

Era la terza volta che beccava Virginia in giro da quando si erano salutati quel mercoledì pomeriggio. L'aveva vista alla messa di Pasqua, seduta in fondo alla navata sinistra in mezzo ai suoi genitori, avvolta in un cappotto bordeaux che era stato utile a nascondergli ogni ricordo della sua carne, mentre lui era andato a sedersi in una delle prime file accanto a Davide e suo padre. A ogni preghiera, a ogni invocazione di Padre Costantino davanti all'altare, aveva avuto la sensazione che ci fossero loro due soltanto, in quella chiesa, anche a metri di distanza, anche se non si era mai girato a guardarla, le loro due teste separate da un flusso elettrico. Quando aveva effettivamente incrociato i suoi occhi, alla fine della messa, non aveva nemmeno fatto in tempo a pensare alcunché che era subito stato accerchiato di gente che voleva scambiare due chiacchiere con suo padre.

Ma il suo sguardo gli era rimasto impresso. Lo stesso identico sguardo grondante che gli aveva rivolto adesso, dopo due giorni.

Era stato quella domenica che si era convinto del tutto di dover tagliare i ponti con Virginia. Come per magia, aveva smesso di pensare alla sensazione che aveva provato affondando dentro di lei. Con uno schiocco di dita, era scomparsa la fantasia di fotterla nei bagni di scuola, o la voglia di tirarle di nuovo quei capelli da bambola di un'altra epoca. Forse perché Iggy l'aveva tenuto impegnato giorno e notte con la storia della lettera. Forse perché quel cappotto bordeaux l'aveva graziato.

Quella mattina l'aveva vista di sfuggita all'orario di entrata, mentre varcava il portone del Santa Teresa con un basco nero poggiato in testa.

Ora, in corridoio.

Aveva avuto ragione, nel suo incessante rimuginare: Virginia non l'avrebbe più lasciato andare, se avesse continuato a darle corda. Su quello, le ragazze erano piuttosto prevedibili. Speravano, speravano e speravano all'infinito. Aveva sbagliato ad accettare la sua proposta sin dal principio. D'ora in avanti l'avrebbe ignorata come se non fosse mai esistita nella sua vita, con tutta la cattiveria possibile.

Quando tornò in classe, si accomodò sulla sua sedia senza ascoltare di striscio il rimprovero di suor Evelina. Si era tranquillizzato. Si sentiva di nuovo padrone di se stesso.

Eppure, dopo un po', cominciò a picchiettare la penna sul quaderno.

Se ne accorse solo quando Ludovico gli lanciò un fazzoletto appallottolato sul braccio per farlo smettere.

I minuti trascorsero interminabili. Suor Evelina analizzò un testo in greco dall'Etica Nicomachea di Aristotele che era stato al centro della seconda prova dell'esame di maturità appena qualche anno prima. Interpellò un paio di sue compagne per una traduzione all'impronta, richiamando il resto della classe al silenzio. Con la solita rigidità e le solite mani intrecciate dietro la schiena, passeggiò avanti e indietro seguendo una metrica tutta sua. Nonostante fosse l'insegnante più vecchia dell'istituto, non si sedeva mai.

Damiano fece oscillare un altro paio di volte la penna tra le dita, ma non servì a molto.

Gli ricomparve davanti agli occhi un fotogramma del petto di Virginia. Indelebile, il ritmo con cui si era sollevato e abbassato al suo passaggio.

I bottoni della sua camicetta.

In verità, una parte di lui non aveva mai smesso di pensare a lei, e l'aveva provocato per tutto il tempo: quanti giorni riesci a resistere?

Fanculo, pensò.

Dopo aver controllato se suor Evelina fosse abbastanza distratta, cercò il suo profilo su Instagram e le mandò un messaggio.



14:11


D'altronde, la Settimana Santa era finita.

Quando Virginia salì in auto, un'ora e mezza dopo, lo fece stringendo forte le gambe come se volesse chiudersi in se stessa o rifugiarsi in una zona franca in cui era convinta di non poter essere toccata. Non lo guardò per diversi minuti, appoggiata contro lo schienale. Sembrava ferita dal suo atteggiamento dei giorni precedenti, ma anche sconvolta dal cambiamento repentino che c'era stato. Il petto le si sollevava e abbassava più veloce, adesso, come se non riuscisse ad abituarsi alla sua vicinanza tanto in fretta.

Le aveva detto di aspettare fuori scuola finché non se ne fossero andati tutti, in un'area appartata. Le aveva detto che sarebbe andato a prendere la Coupé a casa e che poi sarebbe tornato da lei.

Era tornato da lei.

«Stavolta non ho casa libera» precisò, mentre partiva. «Dovremo arrangiarci.»

Virginia non fiatò e continuò a tenere gli occhi – un po' sgranati, ancora increduli, ancora lucidi – puntati sul parabrezza. La cosa peggiore era che, nel sedersi, la gonna le era scivolata un po' di lato sul sedile, scoprendole la fascia più morbida della coscia, quella su cui il suo sguardo continuava a cadere. Le braccia di Damiano divennero più tese sul volante.

Imboccarono presto la statale che portava fuori città, tra i campi e le fabbriche della provincia. Solo allora Virginia gli rivolse la parola. «Dove stiamo andando?» chiese, in un sussurro spezzato.

«Nel primo posto che mi è venuto in mente. Non è molto lontano.»

Virginia si zittì di nuovo.

Questo lo eccitò e al contempo lo fece incazzare. In realtà, non aveva ancora sbollito la rabbia che si portava dentro da giorni. Guidò in preda a una specie di furia silente, sfiorando il limite di velocità. Gli pareva di dover trattenere qualcosa con tutta la propria concentrazione per non spaventare Virginia. Più avanzavano verso la meta, meno riusciva a capire se il suo silenzio fosse dovuto al terrore o all'euforia. Per quanto la osservasse, c'era qualcosa di lei che continuava a sfuggirgli. Quando pensava di aver ottenuto un quadro soddisfacente della sua persona, ecco che una nuova intuizione lo faceva di nuovo scivolare via dalla soluzione finale.

Nell'abitacolo l'atmosfera di attesa li tenne sotto scacco per tutto il tragitto. Entrambi avrebbero potuto tentare un movimento verso l'altro, ma rimasero muti e rigidi sui rispettivi sedili con la faccia dritta sulla strada come se stesse per accadere qualcosa di troppo pericoloso per essere pronunciato. Damiano controllò i segnali blu delle uscite uno dopo l'altro, che si susseguivano beffardi sotto il loro esame. Quanto manca?

Dopo un quarto d'ora trovò lo svincolo secondario che stava cercando, a ridosso di un'impresa di impianti elettrici. Scese dalla statale lungo una curva e si immise in una stradina isolata, scoscesa, che costeggiava depositi e scheletri di nuovi palazzi in costruzione. Virginia osservò dal finestrino quel panorama privo di vita finché la stradina non si trasformò in un sentiero sterrato che conduceva verso un campo d'erba incolto. Era stato Ludovico a mostrarglielo, tempo prima. Gli aveva detto di aver scoperto quel posto per caso dopo una serata, e di averci portato una ragazzina della 1A poco dopo aver preso la patente. Dopotutto, Ludovico amava il lusso tanto quanto lo squallore.

Damiano si fermò qualche metro più avanti, vicino a un cavalcavia della stessa statale su cui avevano viaggiato poco prima. Quando spense la macchina, rimase immobile per qualche altro istante, impressionato dal sentimento di violenza che gli stava montando dentro. Da dove veniva? Mai, con nessun altro, aveva provato quello stesso desiderio di sopraffazione. Era lei a suggerirglielo, con il suo candore e la sua cedevolezza? Si voltò verso Virginia, costringendola a guardarlo in un'intimazione silenziosa.

Virginia gli rivolse gli stessi occhi grandi e adoranti e disperati di quella mattina, incorniciati dalla frangetta spaccata a metà. Il resto dei capelli, quasi neri in quella luce ostruita dalle nuvole, le cadeva in disordine dalle spalle fino alla vita, dove la giacca la abbracciava più stretta. Deglutì. «Damiano...»

Damiano le portò una mano sulla gamba e la fece scorrere fino all'orlo della calza. Stringendo i denti, le vene che pulsavano, volle prima scoprire quanto fosse eccitata. Risalì fin sotto la gonna senza distogliere lo sguardo dal suo.

Non puoi mentirmi.

Con questi occhi che hai, non potrai mai, mai, mai mentirmi.

Le si avvicinò con il busto, quando le infilò la mano tra le cosce – lo spazio soffice e levigato in cui strusciavano, in cui dovette farsi largo, era il punto più che preferiva del suo corpo. Il respiro di Virginia si arrestò a poche spanne dal suo, in un risucchio sordo. Le scostò le mutandine e le bastò sfiorarla per accorgersi di quanto fosse già bagnata. Le sue dita riemersero dopo qualche secondo vischiose e scivolose.

Dio.

Aveva creduto che avesse paura.

Invece era di gran lunga più pronta di lui a rispondere ai propri desideri.

«Scendi» le disse in fretta, aprendo a sua volta la portiera per uscire.

Virginia eseguì, ma scese dall'auto tentennando, del tutto fuori posto in quel deserto grigio. «Ma... se ci vede qualcuno...» balbettò, sorreggendosi con una mano al tettuccio della Coupé.

Damiano la raggiunse dall'altro lato e sbatté la portiera da cui era appena uscita. Virginia sobbalzò.

«Non ci vede nessuno» le disse. «E poi in macchina non ci stiamo.»

Un attimo dopo si chinò per baciarla. Virginia, tra il suo corpo e la macchina, non ebbe vie di fuga. La divorò senza pietà, senza nemmeno darle il tempo di ritrovare il fiato, tutta ansiti e singulti. Ma durò soltanto un momento. Quello successivo la fece voltare di scatto sul fianco dell'auto e la schiacciò contro la portiera. Virginia gemette, forse di dolore. Si premette su di lei con tanta forza che sentì le sue anche scricchiolare sul finestrino. Adesso, con la sua erezione ben stesa sulle natiche, poteva rendersi conto anche lei di quanto fosse eccitato.

Quando le sollevò la gonna e le fece scivolare le mutandine a un soffio dal terreno, quando si sbottonò i pantaloni della divisa, ebbe la sensazione di potersi vendicare del mondo intero: di Achille e della sua codardia, di Iggy, di Ludovico che avrebbe voluto Virginia per sé, di Michelangelo e Angelica che gli avevano voltato le spalle. Quando la penetrò, fu con il ritmo di un esecutore che infierisce delle frustate, a ogni colpo lo sguardo sempre più spietato, ad ammirare le conseguenze del potere nelle proprie mani. S'impegnò a rendere ciascuno di essi più drastico del precedente, curioso del risultato: la voce di Virginia che echeggiava sotto il ponte, dove avrebbero potuto davvero sentirla, e il rumore delle sue ossa che sbattevano contro la macchina.

D'altronde, la curiosità era sempre stata la sua unica forza motrice.

Gli tornò in mente la conversazione che aveva avuto con Ludovico dopo la visita ai signori Miranda: ciò di cui aveva più bisogno era qualcuno disposto a fare di tutto per lui.

Sperimentiamo un po', Virginia, va bene?

Fu proprio su quel suono sincopato che si focalizzò. Sull'idea di ammaccarle il bacino a vita. Anche quell'immagine, generatasi non dal cervello ma direttamente dalle sue viscere.

Le premette la testa sul tetto dell'auto.

Mentre le giacche della divisa oscillavano sui fianchi – un po' intralciandoli –, mentre il vento smuoveva l'erba umida e giallognola e qualche macchina di passaggio sfrecciava su di loro, Damiano si accorse che Virginia, sotto il palmo che le calcava la guancia, stava sorridendo. 







Note d'autrice:

Hellooooo ☆ 


Dire che questo capitolo è stato un parto sarebbe un eufemismo. Si è fatto attendere un po', non solo perché ho avuto delle settimane assurde con il lavoro ma anche perché dovuto ripensare la disposizione delle scene in relazione ai prossimi capitoli, ma spero che sia stato soddisfacente. Finalmente ho avuto modo di raccontare un po' di più il rapporto di Damiano con Villa Anthares e il suo storico gruppetto.

A tal proposito, sono curiosissima di sapere se vi incuriosiscono Michelangelo e Angelica e cosa ne pensate di Ludovico, adesso che è emerso meglio 👀


Altre domandine che vi lancio: cosa credete ci sia scritto nella lettera di Achille?

Ammesso che Damiano non abbia costretto Achille a fare nulla di quello che hanno fatto in vacanza (su questo vi lascio il dubbio ma mi incuriosisce molto il dilemma etico), secondo voi ha ragione Ludovico a dirgli che non dovrebbe sentirsi in colpa per la sua morte o ha ragione Angelica che afferma che è colpa loro per averlo coinvolto in qualcosa di pericoloso?


Come potrebbe proseguire il rapporto tra Damiano e Iggy?

E quello tra Damiano e Virginia? Vi aspettavate che Damiano prendesse la situazione in mano in questo modo?


Ci vediamo presto con il quinto capitolo ♥ Vi abbraccio, sono contentissima che la storia vi stia piacendo!

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