2. Enfant terrible




2.


Enfant terrible



02:57


era l'orario che segnava lo schermo touch della sua BMW Coupé Serie 8. Non trovò la forza di partire subito. Si accasciò con le mani e la fronte sul volante, preso da un'improvvisa stanchezza, quella che non aveva provato per più di una settimana e che decise di palesarsi tutta di colpo in quell'esatto momento. Il pensiero di doversi svegliare alle sette, l'indomani, gli apparve devastante e insensato come mai prima d'ora.

A diciannove anni, a uno come lui l'idea di andare a scuola cominciava a sembrare quantomeno obsoleta. Avrebbe potuto decidere di assentarsi senza grandi problemi, ma da quando suo padre era tornato a casa dall'ultimo viaggio di lavoro – Copenhagen o Malmö, ormai aveva smesso di memorizzare gli itinerari della sua agenda – aveva ripreso ad assillarlo un curioso senso di responsabilità.

Chissà cosa avrebbe detto, se avesse saputo quanti flûte di Dom Pérignon si era scolato quella sera al Mirage, l'ultimo per il brindisi di auguri a Marco Paolini, diciotto anni appena compiuti, nel privé prenotato per una cerchia di quindici persone. Se gli avessero somministrato l'alcol test sulla strada del ritorno, avrebbe comunque trovato il modo per scamparsela, ma era l'opinione che il padre avrebbe avuto di lui a turbarlo. Non era uno che prendeva tanto alla leggera le bravate. Aveva una così alta considerazione di Damiano che una caduta di stile come quella avrebbe potuto soltanto causargli un'enorme delusione e modificare l'immagine che aveva di lui.

Si fidava di Damiano proprio perché era maturo. Entro qualche anno, glielo diceva spesso con una stretta alla spalla, l'avrebbe fatto diventare un suo socio. Magari anche l'anno successivo. Non gli interessava molto se avesse deciso di iscriversi all'università, che avrebbe persino potuto frequentare come mero passatempo, con l'intelligenza e il nome che si ritrovava: lo voleva con sé a dirigere il suo impero, perché infine potesse ereditarlo.

Da un Vicari magnate della finanza a un altro.

Rialzò la testa, un macigno sul collo, e guardò dal parabrezza l'orizzonte nero al di là del campo che faceva da parcheggio al locale. Scrutò le poche stelle che pulsavano in quella notte di fine marzo, poi sospirò tra sé in preda al disappunto. Non era il periodo giusto, e in ogni caso l'inquinamento luminoso era troppo anche in quella zona dislocata della città. C'era un solo posto in cui potesse stare davvero a contatto con il cielo senza barriere. L'unico di cui gli importava.

E lui sta per portarmelo via per sempre.

L'amarezza che si era instillata in lui dall'inizio della serata si fece più acuta. Si rese conto di essersi comportato da stronzo asociale per tutta la festa, cosa che i ragazzi avevano rispettato con deferenza senza battere ciglio, ma la verità era che non vedeva l'ora di tornare a casa e mettersi a letto. 

Forse finalmente Achille l'avrebbe fatto dormire.

Inserì la retromarcia e uscì dal parcheggio con un cenno di saluto al nuovo custode. Gli lasciò una mancia di venti euro, e lui lo ringraziò chiamandolo «signor Vicari». Quindi sapeva chi era anche se non si era presentato. Doveva averglielo riferito il padre di Marco prima che arrivasse, insieme al modello della sua auto.

Quando svoltò a sinistra per imboccare la strada a senso unico, si accorse di un volto familiare nel deserto notturno. Poco distante dal locale, un ragazzo vestito con un cappotto nero lungo fino ai piedi e acquistato di certo in un negozio vintage a prezzo stracciato, stava parlando chiassosamente al telefono con una donna, a vivavoce e in un'altra lingua. Camminava avanti e indietro e gesticolava al vuoto come se la sua interlocutrice potesse vederlo, ma si bloccò nel notare la macchina di Damiano.

Damiano accostò e abbassò il finestrino.

La serata stava per diventare inaspettatamente interessante.

Il ragazzo borbottò un'ultima cosa alla donna all'altro capo e riattaccò senza attendere risposta.

«Igor» disse Damiano.

«Iggy» lo corresse lui, un po' stizzito ma anche compiaciuto, chinandosi per stare alla sua altezza con un gomito appoggiato al tetto dell'auto. «Mi pareva di avertelo detto, Damiano Vicari, che nemmeno mia madre mi chiama più così.»

Damiano l'aveva chiamato Igor apposta. «Non ti avevo mai visto al Mirage.»

«Che? No, ero a fare serata con degli amici in un posto più avanti.»

«E ti hanno lasciato a piedi all'ultimo?» indagò, guardandolo dritto negli occhi, che un po' nascondeva sotto quella frangia sfilzata anni Settanta. Gli sembrava che fosse già molto più lunga rispetto a quando l'aveva conosciuto al funerale, una settimana prima. «O avevi già previsto di fare l'autostop al ritorno?»

Iggy si irrigidì per una frazione di secondo, come se fosse stato scoperto a fare qualcosa di ben più grave di un autostop. A Damiano venne in mente la possibilità che quel nuovo incontro tra loro non fosse stato affatto casuale. Bastava approfondire un minimo le sue abitudini per scoprire che era un assiduo frequentatore del Mirage. Le sue membra, in ogni caso, tornarono sciolte all'istante, come quelle di chi ha bevuto abbastanza ma non abbastanza da perdere cognizione del proprio corpo. Era magro e allampanato, Iggy, poco più basso di lui.

«Stavo per chiamare qualcuno in mio soccorso, ma questo ha proprio l'aria di essere un invito galante.»

Damiano si lasciò sfuggire l'ombra di una smorfia divertita e gli fece cenno di salire in macchina.

Iggy arrivò alla portiera del passeggero in una corsetta che gli fece svolazzare il cappotto intorno ai fianchi. Una volta seduto accanto a lui, si guardò intorno smanioso, tastò il sedile rivestito di pelle bordeaux, abbassò l'aletta parasole per dare una controllata ai denti nello specchietto, cambiò un paio di volte la posizione delle gambe, ché dritte proprio non ci stavano, smanettò con la cintura di sicurezza dopo essersi accorto che Damiano la indossava. Era evidente, pensò Damiano, che non era mai salito su un'auto di lusso. Che era a disagio, o forse eccitato. E anche che voleva evitare il suo sguardo.

Ma Damiano lo stava osservando e Iggy non poté impedirsi di arrendersi e guardarlo in faccia, dopo qualche attimo di silenzio.

«Beh, allora? Partiamo?»

Damiano afferrò il volante con una sola mano, staccò il piede dalla frizione e premette con delicatezza sull'acceleratore. Bastava una pressione appena più decisa per far scattare quella macchina come una bestia sull'asfalto. «Come sei impaziente» commentò, stavolta con gli occhi puntati sulla strada.

Iggy ridacchiò, incredulo del tono che aveva usato. «Il ragazzino di buona famiglia non deve andare a scuola, domani? Non ha fretta?»

Quella provocazione non lo toccò. «Il ragazzo che scrocca i passaggi non si è diplomato appena l'anno scorso?»

«Con cinquantanove e un calcio in culo. Ma sono comunque più grande.»

«E io quello che ti sta accompagnando a casa.»

Iggy alzò le mani in segno di resa. Poi gli riferì l'indirizzo di casa e Damiano lo impostò sullo schermo. Il navigatore diceva che ci avrebbero impiegato trentadue minuti per arrivare a destinazione, una zona di provincia in cui non aveva mai messo piede.

Damiano si avvilì per un istante. Di quel passo, non avrebbe visto il letto prima delle quattro. Almeno Iggy l'avrebbe tenuto sveglio, ed entrambi avrebbero fatto fruttare quel tempo per cavare qualcosa l'uno dall'altro.

Iggy gli lanciò un'occhiata di sottecchi. «Guarda che puoi anche andare più veloce. Non mi metto mica paura se corri un po'.»

«Stavo per chiedertelo. Avevi l'aria di uno che si caga sotto.»

«Io? Dillo che stai temporeggiando solo perché vuoi stare in mia compagnia.»

Damiano fece un sorriso storto. Non sapeva perché, ma era sicuro che avrebbe detto qualcosa del genere. «Impaziente» ribadì. Aveva notato che quel tono aveva un effetto su di lui, come se stesse parlando a un bambino cattivo a cui piace essere sgridato. «Molto, molto impaziente.»

Accelerò in un rombo.

Iggy parve ancora più in fermento. Abbassò il finestrino senza chiederglielo, facendo entrare in un'unica onda l'aria pungente della notte, e sporse la testa al di là, troppo in là – si affacciò con metà del busto per lasciare che il vento gli sbattesse addosso, come in una sfida a una forza cosmica più grande di lui a cui intendeva opporsi. I capelli, ora una nube in tempesta intorno al cranio, gli picchiarono la faccia.

Damiano tese le braccia sul volante, concentrato, con la schiena spinta contro il sedile dalla forza d'inerzia, consapevole di tutta la forza che aveva tra le mani e perfettamente in grado di domarla, e accelerò ancora.

Iggy lanciò un urlo di adrenalina alla strada vuota. Stavano percorrendo una statale semi-immersa nel buio, con poche case e alberi a costeggiarla, e campi coltivati sullo sfondo. Avevano superato abbondantemente il limite di velocità e a Damiano tornò di nuovo in mente suo padre, con cui non aveva guidato neanche una volta. Ad avergli insegnato a guidare era stato suo cugino Michelangelo, prima che si rompesse la gamba. Gli venne un'improvvisa voglia di telefonargli. Non lo sentiva da quando gli aveva detto del suicidio di Achille. Non era nemmeno passato al funerale.

Realizzò che non aveva la minima idea di quale fosse la sua opinione in merito. In compenso, conosceva benissimo quella di Angelica.

Quando arrivarono sotto il palazzo di Iggy, una normalissima palazzina abusiva di periferia di tre piani che sembrava uscita da un documentario di denuncia sociale, a ridosso di un ponte dell'autostrada e di un motel fatiscente con un'insegna kitsch, quasi si dispiacque di doverlo lasciare andare. Con le sue chiacchiere, era il primo ad essere riuscito a distrarlo dopo quella settimana di angoscia.

Sostò accanto al marciapiede, ma non sbloccò la sicura della portiera. Iggy, adesso, aveva un'aria appagata; se ne stava con la testa reclinata sul sedile e gli occhi socchiusi, sorrideva tra sé come se l'avesse divertito più del necessario passare del tempo con una persona che era, in fondo, sua nemica. Le luci dei lampioni, per quanto calde, gli lambivano il profilo conferendogli un aspetto un po' cadaverico. Doveva avere a che fare con il suo colorito, pallido e pieno d'ombre sotto gli zigomi alti.

Iggy girò il volto con indolenza, il giusto per tornare a guardarlo non direttamente ma attraverso lo specchietto centrale. Damiano incontrò di nuovo lì i suoi occhi. Si rese conto così, nel silenzio, di quanto fosse intima quella scena. Iggy allungò una mano e gliela posò sulla coscia.

Nel momento stesso in cui lo sfiorò, parve consapevole di aver commesso un errore. Eppure attese la sua reazione prima di darsi per vinto. Damiano aveva osservato già altre volte, nei ragazzi gay, quella sconsideratezza un po' ingenua – e in fin dei conti invidiabile – in fatto di approcci. Nella maggior parte dei casi, erano costretti a imparare ad essere coraggiosi.

Damiano non si mosse, le dita ancora aggrappate al volante. «Sinceramente non capisco cosa ci trovasse Achille in te» disse con tutta la calma del mondo.

Il tendine nel polso di Iggy ebbe un guizzo. Ritrasse la mano lentamente, spiazzato. «Wow» ribatté, indeciso se essere offeso o... incuriosito dalla cosa, di quella curiosità che uccise il gatto. Forse perché Damiano l'aveva pronunciata più come un'affermazione casuale che come una cattiveria, in un modo così naturale da farla apparire perfettamente ragionevole e persino condivisibile. Il fatto era che aveva l'abilità di non far mai sembrare nulla un insulto, lasciando l'interlocutore confuso a rimuginare su cosa avesse voluto dire, o peggio, come dopo il trucco di un prestigiatore, a dubitare della propria percezione della realtà. Forse in quel caso aveva soltanto voluto dire che Iggy e Achille erano molto diversi e che era strano pensare che fossero stati insieme. «E comunque non sai niente di me, cosa pretendi?»

«So bene chi sei. So più di quanto credi.» Si voltò con il busto verso di lui. Attaccare in piena tranquillità era ciò che gli riusciva meglio. Suo padre apprezzava moltissimo questo suo lato, era convinto che l'avrebbe sempre aiutato ad affermarsi come una persona vincente nella vita. Se avesse reso Iggy abbastanza vulnerabile, senza nemmeno che se ne accorgesse, anche lui si sarebbe sbilanciato e avrebbe commesso il passo falso di rivelare ciò che sapeva sul suo conto. Proseguì. «Siete stati insieme un anno, vi siete lasciati prima della scorsa estate, ma sei rimasto uno dei suoi più cari confidenti. Sei nato in Romania, ma non hai mai conosciuto tuo padre perché tua madre è scappata ed è venuta a stare in Italia con te che avevi pochi mesi. Adesso lavora in una ditta di pulizie. Hai frequentato l'istituto alberghiero e ti sei diplomato l'anno scorso, dopo essere stato bocciato una volta per cattiva condotta e problemi psichiatrici. Ami i film slasher, e il tuo serial killer preferito è Freddy Krueger.»

Iggy sbatté le palpebre. «Te le ha dette lui, queste cose?»

Damiano si rendeva conto che tutto ciò significava sbattergli in faccia senza pietà il legame che aveva avuto con Achille. Anche se Achille e Iggy erano rimasti in ottimi rapporti, ed era il motivo per cui Damiano avrebbe dovuto indagare di più, Damiano si era irrimediabilmente intromesso tra loro.

E dire che quando si era avvicinato ad Achille neppure aveva idea dell'esistenza di Iggy. Ma adesso era diventato lui l'incognita di quella storia. Finora aveva avuto una certa consapevolezza della sua presenza nella vita di Achille, ma era stata la sua morte a metterli davvero l'uno di fronte all'altro per la prima volta.

«Sì.»

Quanto devi odiarmi...?

«Nemmeno io so cosa ci trovasse Achille in te» disse Iggy, sbuffando e incrociando le braccia, ma era chiaramente una bugia.

«Io lo so benissimo, invece.» Per un attimo tenne d'occhio un uomo di mezza età che stava attraversando la strada in quel momento squadrando con interesse la Coupé. «In ogni caso, eravamo soltanto amici. Non credo che Achille ti abbia detto qualcosa di diverso.»

Iggy emise un verso di scherno. «No, infatti, anche lui me l'ha detto. Solo che non ci credo. Dovevi sentire il modo in cui parlava di te. Gli brillavano gli occhi, cazzo, Damiano questo, Damiano quest'altro, secondo Damiano dovrei fare così, oh, mi è appena arrivato un messaggio di Damiano. Mi nascondeva sempre lo schermo del telefono, quando apriva la tua chat.»

Damiano lo guardò serio. «Non nego che Achille potesse avere un'infatuazione per me. Ma devi fidarti della sua parola. Non prendertela con me se ti ha lasciato.»

Iggy s'incupì e voltò lo sguardo verso il finestrino, per osservare un punto lontano e inesistente oltre i palazzi. «Non ci siamo lasciati per te, è stata una decisione comune e non è assolutamente questo il mio problema. Il mio problema è che gli volevo bene ed è morto e non riesco a capire perché sia successo.»

Calò di nuovo il silenzio.

Anche il gatto randagio appostato sul muretto lì accanto smise di miagolare, come per ascoltarli.

–è morto dopo quella tua vacanza del cazzo in cui gli hai fottuto il cervello, sembrava la frase che Iggy avrebbe voluto pronunciare realmente, che rimase lì sospesa tra loro, accusatoria, o forse fu solo quella che emerse dalla coscienza di Damiano. Ma tutto sommato la sua risposta era la conferma di cui Damiano aveva bisogno. Non riesco a capire perché sia successo. Achille non gli aveva raccontato niente, era stato discreto come gli aveva suggerito, e Iggy provava semplicemente una profonda invidia per Damiano perché nell'ultimo periodo era stato molto più vicino di lui a una delle persone che aveva amato di più in assoluto. A differenza sua, e forse era questo a fare più male, poteva persino conoscere il motivo per cui si era ammazzato.

Damiano si massaggiò la radice del naso con un sospiro.

Negli ultimi mesi, aveva visto peggiorare giorno dopo giorno quella luce aliena nel suo sguardo. Era vero, gli occhi celesti di Achille brillavano sempre quando parlava con lui, così tanto che era quasi difficile da sopportare senza farsi prendere dalla tenerezza o da uno strappo in pancia.

Era così evidente la venerazione che provava per Damiano. A scuola riusciva a nasconderla a stento. Ludovico una volta gli aveva detto: «Se non gli dici di darsi una calmata penseranno tutti che sei frocio.»

Damiano si era indispettito – Ludovico era più che a conoscenza del suo rapporto con Achille, cosa su cui si era ben guardato dal fare commenti – ma sapeva che aveva ragione.

Achille non era mai uscito allo scoperto, ma per qualche motivo tutti al Santa Teresa pensavano di aver già capito tutto sul suo conto. Non poteva rischiare che accadesse anche a lui, per di più così erroneamente.

Da quel momento, quando si incrociavano nei corridoi, Achille aveva imparato a trattenersi in tempo, a scostare le dita dalle sue dita, il braccio dal suo braccio, prima di toccare la sua pelle, prima che fosse troppo tardi. Nonostante questo gli causasse uno struggimento visibile, aveva fatto come gli aveva detto.

A dire il vero aveva fatto tutto quello che gli aveva detto.

«Come stai?»

Damiano glielo domandava nel breve lasso di tempo in cui il corridoio del terzo piano era meno frequentato, tra la terza e la quarta ora, accanto alla finestra che dava sul cortile, dove filtrava sempre una luce sbrilluccicante. Si appoggiava con una spalla al muro, e Achille doveva alzare la testa per guardarlo bene in faccia, in una silenziosa supplica.

«Bene» rispondeva sempre, con un tono troppo acuto e un sorriso affrettato che intendevano l'esatto contrario. «Solo a volte così così – cioè, le solite cose che ti ho raccontato e gli incubi la notte, ma sto imparando a gestirli. Anzi, stanno anche diventando meno frequenti, come mi avevi detto tu.»

Mentiva.

Era chiaro allora ed era chiaro adesso.

Mentiva ogni singola volta per mostrarsi forte dinanzi a lui e dimostrargli che poteva fidarsi, così che Damiano non si stancasse di lui e non lo abbandonasse.

Chissà quante volte aveva mentito anche a Iggy o alla sua famiglia.

Damiano accennava un sorriso di rimando. «Mi fa piacere. L'importante è che tu non dica niente a nessuno. Lo sai... non capirebbero. Non serve fare la figura del pazzo per una cosa che passerà.»

Una sola volta Achille l'aveva chiamato nel bel mezzo della notte, a inizio febbraio. Era stata quella l'unica volta in cui Damiano si era realmente allarmato per la sua incolumità. Aveva risposto alla telefonata ancora stordito dal sonno; Achille singhiozzava e faceva fatica a respirare, Damiano si era messo a sedere sul letto, aveva provato a tranquillizzarlo e si era sforzato con tutto se stesso per comprendere i suoi strascichi di parole.

«Non è reale, Achi, te l'ho detto. Non mi credi? Non è reale.»

Quando finalmente Achille si era calmato, gli aveva detto che il resto della sua famiglia era in vacanza in Marocco e che aveva proprio bisogno che lui andasse a fargli compagnia a casa, quella notte, come quando dormivano insieme a Villa Anthares. Aveva troppa paura, da solo.

Damiano ci aveva riflettuto per qualche secondo, dopodiché gli aveva risposto che non poteva.

Probabilmente Iggy sarebbe scattato in suo soccorso, al posto suo.

Non ricordava più perché non ci fosse andato. Doveva aver pensato che fosse giusto stabilire dei confini con lui, così che smettesse di essergli così attaccato e andasse avanti con la sua vita, sempre mantenendo il silenzio, cosa di cui avrebbe continuato ad assicurarsi personalmente.

In effetti, da quella volta, Achille aveva cominciato a cercarlo molto di meno. Gli mandava uno o due messaggi ogni tanto, a cui Damiano rispondeva con i propri tempi – l'aveva ribadito fino alla noia, ad Achille, che odiava stare al telefono –, oppure scambiavano discorsi fugaci a scuola.

Al suo compleanno gli aveva mandato un messaggio d'auguri, e Damiano aveva ricambiato il 24 febbraio.

«Hai notato che siamo nati esattamente a dieci giorni di distanza?» gli aveva risposto Achille. «Ora che ci penso, nascere a San Valentino è una cosa decisamente da te

Damiano aveva pensato che stesse tornando tutto alla normalità, anche se in quel caso normalità significava tornare a essere poco più che conoscenti.

«Come stai?»

«Come stai, Achille?»

«Come stai oggi?»

Mi hai mentito più di quanto io abbia mai mentito a te.

Poi, un pomeriggio, Ludovico aveva avuto la notizia da un suo amico della 5B e l'aveva riportata a lui. Era accaduto otto o nove giorni prima, eppure sembrava una cosa successa in un tempo lontanissimo e in tanti modi diversi. Damiano ricordava di essere in macchina, o forse stava studiando letteratura italiana in camera per un'interrogazione, oppure aveva appena terminato una partita alla PlayStation sul televisore 80 pollici nel salone al piano terra. In ogni caso, non avrebbe mai saputo qual era stato il momento preciso in cui Achille si era chiuso a chiave in bagno con il rasoio di suo padre, o il momento esatto in cui il suo cuore si era fermato.

«Non lo so perché si è suicidato, se è questo che mi stai chiedendo» disse a Iggy quella notte, le quattro frecce della Coupé che ticchettavano.

Iggy stirò le labbra, niente affatto convinto, ma per quella volta sembrò volergli lasciare il beneficio del dubbio. «Sai cosa? È che non era da lui. Non lo dico tanto per dire, so che è così. Tra noi due sono sempre stato io quello più di là che di qua. Achille era molto amato dalla sua famiglia, no?, una persona serena che non vedeva l'ora di donare tutto il suo amore agli altri. Ultimamente gli avevo chiesto se c'era ancora qualcuno che gli stesse dando fastidio a scuola, ma mi aveva risposto che nessuno lo importunava più da quando era diventato tuo amico. Se non posso darmi nemmeno questa spiegazione... Ne ho bisogno, Damià. Devo capire, per mettermi l'anima in pace.»

Damiano annuì. Scelse, stavolta, il tono più conciliante possibile; non gli sarebbe valso a nulla nutrire i sospetti di Iggy. «Non credere che per me non sia stato uno shock. Sono confuso tanto quanto te, e provo molta rabbia verso me stesso per non essere riuscito a impedirlo.»

«Me lo farai sapere, se dovessi scoprire qualcosa?»

«Va bene. Vale lo stesso per te.»

«Non ho il tuo numero.»

Damiano ridacchiò pacato. «Modo di pessimo gusto per chiedere il numero a una persona.»

Iggy piombò nella difensiva. «No, non è per quello, ti giuro che non c'entra, ti scriverei solo per questa cosa...»

Damiano rivolse il palmo verso l'alto per farsi dare il telefono di Iggy.

«Sto scherzando. Considerati fortunato. Non do mai il mio numero a nessuno.»

Iggy rimase immobile un paio di secondi, poi si precipitò a recuperare il telefono dalla tasca del cappotto, dopo avervi tirato fuori di fretta una busta di tabacco e una di cartine, come se fosse ansioso di non perdere l'occasione; lo sbloccò e lo consegnò a Damiano.

Damiano digitò il suo numero sullo schermo per metà crepato e fece un rapido squillo per salvare quello di Iggy nella propria rubrica.

«Mmh, a ripensarci non stavo scherzando» disse. Un'ultima stoccata, considerò, avrebbe ristabilito i ruoli tra loro. E avrebbe contribuito a dargli un'ulteriore conferma. «Prima ci hai provato spudoratamente con me.»

Iggy affondò di nuovo il telefono in tasca e fece di tutto per sfuggire al suo sguardo. «Lascia perdere. Dimenticatelo.»

«Oh, no. Troppo semplice, così. Hai anche una gran faccia di bronzo: non avevi il mio numero, ma hai trovato lo stesso il modo di rintracciarmi stasera, fuori al Mirage. Con un po' di stalking in più secondo me saresti riuscito a trovarlo il mio numero da qualche parte.»

«Non ti stavo stalkerando!» protestò lui.

«Sei proprio un viscido approfittatore della peggior specie. Dovresti vergognarti» sibilò, con un sorrisetto altezzoso. «Oppure farti dare una bella lezione.»

Le gote di Iggy arrossirono all'istante, evidentemente di piacere. Gli venne da sorridere, ma non trovò nulla con cui ribattere.

Damiano, quindi, ci aveva visto giusto. Ci vedeva sempre giusto, sulle persone. La posizione in cui proprio gli altri lo ergevano gli permetteva, dall'alto, di leggere chiari e limpidi i loro desideri, come se loro stessi glieli stessero servendo in tributo perché lui potesse esaudirli.

In quel momento disattivò la sicura della portiera. Il solo suono fece capire a Iggy che aveva appena decretato la fine della conversazione.

Iggy uscì dall'auto un po' goffamente, facendo scricchiolare le pietruzze sull'asfalto.

Si affacciò dal finestrino ancora aperto. «E va bene. Mi sono fatto trovare fuori al Mirage apposta per incontrarti.»

«Ottimo. Ti ci è voluto poco per confessare.»

«Volevo conoscere meglio questo ragazzino di cui Achille parlava tanto.»

«E adescarlo. Sei piuttosto patetico come stalker, Iggy Teodorescu, penso proprio che non ci vedremo più.»

«Puoi contarci.» Si voltò e si avviò verso la palazzina dondolando nel suo cappotto. Prima che Damiano potesse ripartire, tuttavia, si girò un'ultima volta sulla soglia del portone. «O magari la prossima volta posso portarti io a fare un giro fuori città.»

Damiano gli indirizzò un cenno di saluto con la mano e fece inversione.

Stabilì che era innocuo, con un piccolo margine di riserva.




16:23


Quando chiudeva gli occhi e scivolava in un dormiveglia abbastanza stabile, la prima cosa che vedeva di solito erano dei flussi di plasma che galleggiavano nel nulla e tentavano di avvolgerlo, quasi indistinguibili dal buio. Una volta che l'avevano abbracciato e sollevato, cominciava a delinearsi un sogno.

Di solito qualcuno lo chiamava: una voce né maschile né femminile, così ovattata che sembrava provenire da dietro una spessa parete di fluido denso.

«Monsieur Vicarì?»

Quella volta era accasciato sul ventre rugoso, fragile e bollente di un animale; il suo pelo bianco gli solleticava una guancia. Doveva essere un cane di media taglia, ma odorava di campi e di fieno, e il suo calore era così piacevole che gli veniva da piangere alla sola idea di allontanarsene. L'animale dormiva e respirava profondamente e Damiano pensò che fosse una buona idea addormentarsi lì con lui a fargli da cuscino, a fargli da fratello.

«Monsieur Vicarì...»

Una mano sgraziata gli scosse la spalla. Ma certo. Quella di Giovanni, che era seduto accanto a lui. Era ancora in classe alla lezione pomeridiana di francese.

Alzò la testa dal banco, dove si era abbattuto con le braccia raccolte e la faccia nascosta. Il lato destro del suo viso era così caldo che per un attimo ebbe la sensazione di averlo tenuto appoggiato per davvero sul ventre dell'animale. Un agnello, capì in quel momento, come aveva fatto a non arrivarci? Forse perché non gliene appariva uno in sogno da un bel po'. Sui polpastrelli avvertiva ancora la morbidezza del suo pelo riccioluto.

«Pardonnez-moi, sœur Justine, j'ai mal à la tête» disse senza scomporsi, strofinandosi una palpebra con il palmo della mano. Ebbe comunque lo scrupolo di controllare con la coda dell'occhio la reazione dei suoi compagni, una quindicina, in quel corso facoltativo. Nessuno fiatò o osò fissarlo troppo a lungo, quando probabilmente chiunque altro al posto suo sarebbe stato canzonato con una risata.

Maledì Iggy nella sua testa per la notte precedente, e Marco Paolini per aver organizzato quella festa del cazzo di mercoledì.

La suora madrelingua, la più giovane tra le insegnanti, di etnia mista e una bellezza che aveva fatto tanto scalpore tra i ragazzi della sua classe, gli sorrise comprensiva come se avesse creduto ciecamente alla sua bugia. Poi gli disse: «Vous êtes un vrai enfant terrible, monsieur Vicarì».

Damiano alzò gli occhi al cielo divertito e tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia, eloquente, come invitandola a continuare la spiegazione.

Allora lo immagini, cosa fanno i ragazzi della mia età a tarda sera.

Diede una rapida occhiata al Rolex d'argento che faceva capolino dalla manica della giacca. Perlomeno mancavano meno di dieci minuti alla fine della lezione. Il sole, fuori, era di un giallo così scuro che sembrava voler già tramontare come nei pomeriggi di pieno inverno. Faceva cadere solo qualche ultimo raggio poligonale sui banchi in fondo a sinistra, sul retro dell'aula, dove si erano relegati i ragazzi della 5B.

Da qualche mese aveva cominciato a detestare quel corso. Il francese gli era sempre piaciuto, ma ad oggi si pentiva di essersi caricato di ore di studio aggiuntive. In fondo ne aveva bisogno tanto quanto le decine di corsi inutili che aveva frequentato nell'arco della sua vita sin dall'infanzia, tutti per imparare le basi di qualche abilità da sfoggiare nel suo ambiente o per il piacere di suo padre di esibirlo come un trofeo dopo due figli deludenti. Dei certificati, poi, ne avrebbe potuto fare ampiamente a meno; servivano soltanto a narrare in un modo meno prosaico quanti soldi avesse da spendere.

Ludovico ci aveva visto più lungo di lui, nel caso del francese. Aveva abbandonato la nave dei corsi pomeridiani già dopo il primo anno. Adesso era di sicuro a casa stravaccato sul letto, sazio, a fare sexting con qualche ragazza, mentre Damiano era bloccato lì con suor Justine che spiegava il conditionnel indicando la lavagna con una bacchetta lunga.

Quanto avrebbe voluto avere la sua compagnia per distrarsi, in quel momento. Il resto dei compagni del corso era solo capace di fargli venire ancora più sonno.

Suor Justine assegnò gli esercizi per la settimana successiva un attimo prima della campanella, puntualissima. Lei fu la prima a varcare la porta, interpellata da una sorella in corridoio. Dovevano essere gli ultimi alunni ad andarsene quel giorno; i bambini delle elementari erano usciti alle quattro e per quelli delle medie non erano previste lezioni pomeridiane, il giovedì.

Damiano sistemò le cose nello zaino con assoluta calma. Non gli piaceva dare l'idea di una persona che non vede l'ora di dileguarsi – Ludovico lo rimproverava sempre per questo suo temporeggiare –, e aveva tutta l'intenzione di gustarsi quel silenzio che era calato sulla scuola.

Non era come il silenzio di casa sua. Non dava la sensazione di vuoto o mancanza. Era più un silenzio religioso, che racchiudeva l'ambiente in una bolla di grazia, di meditazione. Doveva dare merito alla presenza delle suore, per quello. Nonostante la rigidità dell'istituto, non gli era mai dispiaciuto frequentare una scuola che a certi orari somigliava in tutto e per tutto a un convento.

Quando ormai non restavano che quattro o cinque persone in aula, notò ai margini del suo campo visivo una figura che gli si era avvicinata emergendo dall'ultima fila.

«Damiano...» lo chiamò, con una voce così stentata che poteva benissimo esserselo immaginato.

Non si voltò, mentre infilava l'ultimo quaderno nello zaino.

«... Damiano» ripeté, un po' più decisa, come in un'implorazione macchiata di una punta di rabbia.

Damiano alzò lo sguardo corrugando le sopracciglia. A pochi metri dal suo banco, non poi così vicina, Virginia Sannazzaro si torceva le mani sulla gonna della divisa evitando di guardarlo direttamente.

Era la prima volta che aveva il coraggio di rivolgergli la parola. Di solito si limitava a osservarlo da lontano, con gli occhi di chi osserva qualcosa che pensa di non poter toccare.

Da che ne aveva memoria, aveva avuto con lei solo uno o due scambi in cinque anni, e solo per questioni riguardanti la scuola. Forse anche in quel momento voleva chiedergli qualcosa a proposito del corso.

«Virginia» disse, sforzandosi di apparire cordiale ma risultando forse un po' scocciato. «Dimmi.»

Virginia abbassò ancora di più lo sguardo. Si portò distrattamente una ciocca dei suoi lunghissimi capelli mossi dietro l'orecchio, cercando le parole giuste, ma la ciocca le rimase piegata per metà sulla clavicola. «Posso...», una nota discendente, come se d'improvviso le stesse venendo a mancare la spavalderia, solo perché lui stava lì ad ascoltarla, «... posso chiederti una cosa?»

«Certo.» Chiuse la zip dello zaino e se lo portò su una spalla.

Qualcosa dentro di lei scattò. «Aspetta!» disse, sollevando di colpo la testa. «Non andartene.»

Damiano corrugò di nuovo la fronte. «Non me ne sto...», ma poi si guardò intorno e capì che Virginia stava semplicemente aspettando che il resto dei compagni uscisse dalla classe.

Voleva restare da sola con lui.

In qualche modo, questo lo incuriosì.

Cosa la spingeva, dopo anni di silenzio? Adesso che ci pensava, prima di quel momento non ricordava neanche bene la sua voce. Era dolce e pulita, non troppo acuta, come quella di un personaggio di una vecchia fiaba.

Si mise semiseduto sul banco con le braccia incrociate. Nel lasso di tempo che seguì, la studiò come non aveva mai fatto prima d'ora. Rimasero zitti l'uno di fronte all'altra nella diagonale dell'aula, nella luce ramata che discendeva sempre più verso il pavimento, tra i banchi ormai vuoti.

Virginia non osò fare un solo passo verso di lui. La sua ombra, però, gli veniva incontro. Era così alta per essere una ragazza. Era un peccato che non fosse affatto agile all'interno di se stessa, che fosse tutta richiusa sul proprio corpo, con le braccia strette al busto e la punta dei piedi rivolta verso l'interno. Aveva la fisionomia di una statua greca, anche se con il baricentro un po' dondolante, come se tentasse con tutta la concentrazione possibile di resistere a un'oscillazione perenne che veniva dall'interno delle sue ossa. Nonostante l'imponenza pareva anche sul punto di inciampare e crollare, tirata giù dal suo tempio.

Non capiva perché a scuola la prendessero in giro – doveva essere per il suo carattere, più che per il suo aspetto. I suoi genitori erano di gran lunga più loquaci di lei. Li aveva visti a un paio di serate di beneficenza organizzate da suo padre l'anno precedente, senza dubbio una splendida coppia, la madre gioviale e civettuola, Cristiano Sannazzaro il perfetto CEO in giacca e cravatta che riusciva a intrattenere tutti con le sue battute.

Virginia era un'altra storia. Ludovico l'aveva soprannominata Giunone dopo che una volta aveva sentito dire dall'insegnante di educazione fisica che aveva un «fisico giunonico». Non aveva idea del perché si fosse fissato tanto con lei, tra tutte le povere vittime che amava punzecchiare. L'aveva sentita nominare più volte da lui che da chiunque altro.

A Damiano, tutto sommato, Virginia non aveva mai detto nulla.

Stava lì, sempre nelle retrovie delle classi, a guardare gli altri con un misto di rigetto e di brama, a pensare chissà cosa di tutti nel suo mondo inaccessibile. Alcuni la trovavano stramba – stramba come se nascondesse qualcosa di preoccupante da cui tenersi alla larga. Doveva pur esserci una ragione, ritenevano, se era così sola.

L'unica volta in cui Damiano aveva provato a indovinare qualcosa di lei, aveva concluso che fosse soltanto una ragazza timida, introversa e insicura come tante altre.

Quel pomeriggio, però, Virginia sembrava volerlo mettere in discussione.

Quando anche l'ultima compagna di corso fu uscita dalla stanza, Virginia ritrovò la determinazione che l'aveva portata da lui, ma anche una certa fatalità, quasi avesse stabilito che ormai non si poteva più tornare indietro. Si aggrappò ai suoi occhi e da quell'istante, come se avesse trovato il suo gancio, non se ne separò più.

«Ci stavo riflettendo da qualche giorno... Ho pensato che dovevo chiedertelo prima della fine della scuola, perché altrimenti non ci saremmo visti più, e non volevo finire il liceo con il rimpianto di non averti mai parlato» riprese, stropicciando una piega della gonna. «Volevo chiederti se... se ti andasse di venire a letto con me.»

Per qualche secondo non si udì alcun suono oltre ai passi dei ragazzi che stavano scendendo le scale in lontananza. Il sole sfiorò i polpacci di Virginia prima di sparire oltre il davanzale della finestra.

Poche volte Damiano era stato così incredulo in vita sua.

«Scusami?»

Virginia insisté. «Vorrei che mi insegnassi com'è. È una proposta seria, non ti sto prendendo in giro.»

Damiano rise, come prima reazione; una risata secca che sapeva di sarcasmo ma anche di stupore. Se c'era una cosa che non si sarebbe mai aspettato da Virginia Sannazzaro era una richiesta del genere. Al contempo sentì accendersi qualcosa, nei propri occhi, sentì il suo sguardo cambiare su di lei.

Si era sbagliato.

Si era sbagliato e la cosa lo faceva incazzare.

Si era sbagliato ed era... interessante.

Lei diventò serissima e riuscì a rivestirsi di una dignità che nessuno avrebbe potuto strapparle, in quel momento. Nonostante tutto, sapeva difendersi. «Per me sarebbe la prima volta, ed è una cosa a cui tengo» spiegò. «So che forse lo pensi, ma non è che non abbia mai avuto occasioni. Fuori dalla scuola qualcuno ci ha provato con me, a volte. Solo che... solo che mi ripugnavano tutti. La maggior parte dei ragazzi mi fa quest'effetto. So che nessuno di loro riuscirebbe a darmi ciò che voglio. Invece tu...» Il suo respiro incespicò.

Damiano tornò in piedi, alto e dritto, lo zaino ora afflosciato sul banco. «Invece io?»

«Tu sei diverso.»

«Diverso» scandì, saggiando quella parola nella propria bocca. «Perché pensi che proprio io possa darti ciò che desideri?»

Era una domanda che avrebbe voluto porre a molte delle persone che aveva conosciuto di recente. Il fatto era che mai nessuno parlava con chiarezza; non era la prima ragazza che sperava di fare sesso con lui, ma nessuna aveva mai formulato la stessa richiesta tanto esplicitamente.

«Da quella volta in palestra. L'ho saputo così» disse lei. «Non so se ti ricordi...»

Se lo ricordava eccome. La volta in cui aveva liquidato il suo istinto con una scrollata di spalle. Ricordava di averla fermata tirandola per un braccio. Era quello a farla eccitare, il diritto che si era arrogato sul suo corpo?

Un'intuizione gli pizzicò le tempie come una scintilla.

«Ovviamente puoi dire di no» si affrettò ad aggiungere Virginia. «Non ti voglio costringere o impietosire. Se non sei d'accordo potremo tornare a ignorarci come prima, non sarebbe un problema.»

Eppure il suo tono la tradiva. Era così lampante. Le avrebbe distrutto l'autostima, se avesse rifiutato.

Damiano sollevò il mento. «Sei così disperata?» le chiese, sinceramente curioso.

Virginia parve risentirsi. «Se vuoi considerarmi una disperata, fa' pure. Ma non vedo perché non possa avere la libertà di farti una proposta del genere. Te l'ho detto, non ti sto costringendo. È solo... un accordo, come ce ne sono tanti.»

«E cosa ti fa pensare che tu mi piaccia in quel senso?»

«Sarebbe così terribile, per te, con tutte le ragazze con cui sei stato?» ribatté lei, incassando le spalle. «E poi spesso per i maschi non ha importanza, no?»

Lo divertì, come risposta. Intendeva dire che gli uomini tendenzialmente si sarebbero fatti chiunque, pur di ottenere una scopata facile o accrescere il numero delle proprie scopate? Doveva avere una considerazione davvero bassa del genere maschile. A lui quelle cose non erano mai interessate. Il body count, una ragazza diversa ogni sera, gli standard di bellezza, tutte le cose che invece ricercava spasmodicamente uno come Ludovico. Con quante ragazze credeva che fosse stato, Virginia? Non era abbastanza chiaro dall'esterno quanto fosse selettivo, nella vita?

Aveva notato che alcuni uomini amavano affermare il proprio potere dimostrando di poter sedurre chiunque; chi un potere ce l'aveva realmente, però, lo dimostrava negandosi agli altri.

Erano poche le persone che riuscivano a catturare la sua attenzione.

Damiano deviò la controdomanda. «Parli di insegnare, poi. Vorresti un rapporto continuativo, quindi?»

«Non per forza» specificò lei, incalzata dal fatto che Damiano le stesse dando corda. «Potrai decidere tu. A me andrà bene.»

C'era così tanto di sottaciuto e preoccupante, in quella conversazione.

Potrai decidere tu.

Era preoccupante, che una sconosciuta si stesse mettendo fino a quel punto nelle sue mani. Una sconosciuta che da chissà quanto tempo nutriva delle fantasie ignote su di lui.

Era destabilizzato dalla sua accondiscendenza. Gli ricordava quella di Achille, anche se Achille non si era prostrato così sin dall'inizio. A dire il vero, viste le conseguenze, avrebbe dovuto evitare in tutti i modi di replicare il rapporto che aveva avuto con lui.

Gli tornò in mente quant'era stato felice quando l'aveva invitato in vacanza l'estate precedente. Erano a casa Miranda, stesi di traverso sul letto, e poteva quasi sentire il cuore di Achille che batteva all'impazzata.

«Ci devo pensare» disse infine a Virginia, con una laconicità che probabilmente la deluse e che suonava già come un saluto.

Eppure sembrava anche soddisfatta che non le avesse detto subito di no. Per qualche motivo, pareva confidare che Damiano non andasse a riportare quell'incontro ai suoi amici. O anche se l'avesse fatto, forse, pensava di non avere più niente da perdere. «Va bene» rispose, distogliendo finalmente lo sguardo – solo allora Damiano si rese conto di quanto fosse stato difficile reggerlo. Non gli capitava mai, con il contatto visivo. Il suo volto a cuore, con le guance tonde e le sopracciglia folte, dopo un po' rivelava qualcosa di arcaico che richiedeva del fegato per essere affrontato.

Staccandosi dai suoi occhi, quasi a mandorla e scuri tanto quanto i suoi capelli, si ritrovò a osservare senza volerlo la striscia di pelle morbida e rosea che emergeva dall'orlo della gonna, risparmiata dalle calze parigine. Le ragazze dell'istituto avevano abbandonato i collant giusto quella settimana, in prospettiva della primavera. Aveva l'esatto colorito di una pesca nel momento perfetto della sua maturazione.

Virginia non disse nient'altro.

Damiano afferrò di nuovo lo zaino e uscì dall'aula prima di lei, con le mani in tasca, immettendosi nel corridoio ormai in penombra. Lungo la parete occidentale erano appesi quadretti di religiosi e immagini tratte dalla vita di Santa Teresa di Lisieux, con brevi didascalie che nessuno aveva mai letto.

Sul sito della scuola dicevano che lo scopo dell'istituto era di «dar vita a un ambiente scolastico permeato dallo spirito evangelico e dai valori cristiani», affinché gli alunni fossero sempre «illuminati dalla fede».

Di certo, il Santa Teresa doveva aver fallito da qualche parte con lui e Virginia Sannazzaro.







Note d'autrice:

Bentornatx a chi ha deciso di avventurarsi in questa storia ♥ 

Questo capitolo è stato per me molto divertente da scrivere: non vedevo l'ora di presentarvi Iggy e parlarvi più approfonditamente di Achille, oltre che mettere su carta la fatidica proposta di Virginia.

Come domanda più importante: cosa pensate che deciderà Damiano? Cosa pensate della sua caratterizzazione in generale, c'è qualcosa che vi ha colpito?

E secondo voi cos'è successo tra lui e Achille, o tra Achille e Iggy?

Avete notato qualcosa di particolare nell'impostazione del capitolo? 👀

Vi saluto e vi do appuntamento alla settimana prossima con il terzo capitolo ♥

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