Capitolo 8: Una vita bruciata

C'era poca gente attorno al corpo bendato di Marianne: pochi familiari, qualche amico, mentre altre persone si affacciavano dalle finestre per assistere al povero funerale che un fabbro poteva permettersi.

Danker aveva deciso di svolgere il rito funebre vicino le macerie della casa, senza avere mai il coraggio di sollevare il lenzuolo che il sacerdote di Colle della Luce aveva gettato addosso al corpo ustionato di Marianne. Ancora una volta il fuoco si era portato via qualcuno che amava. I pochi rimasti dopo il rito funebre cercavano di consolarlo con vane parole, e lui sorrideva triste sapendo che nulla, da quel momento, avrebbe potuto farlo stare meglio e rimpiazzare il vuoto enorme che la scomparsa di Marianne aveva procurato in lui.

Si guardò intorno osservando coloro che erano ancora lì con gli occhi di chi ormai aveva pianto tutte le sue lacrime, come se avessero potuto lavare via tutta la sofferenza che gli opprimeva il cuore impedendogli di respirare; in fondo lei era stata l'unica donna che aveva veramente amato nella sua vita, l'unica che sapeva comprenderlo e amarlo come nessun altro, e adesso gliel'avevano portata via senza nemmeno una ragione.

Avrebbe voluto che almeno Noor e Enora fossero stati lì con lui per ricordarla assieme, ma non li aveva nemmeno visti quella mattina; li capiva: anche lui avrebbe preferito sparire, ma doveva andare avanti per loro, così si preparò a fare l'unica cosa che non avrebbe voluto.

Danker si trovava davanti lo studio di Etios nella bottega di ceramiche con malcelata ansia: era da tempo che non incontrava suo fratello. Bussò ed entrò senza aspettare, trovandolo seduto su una piccola e fradicia sedia di legno con le gambe appoggiate a una scrivania piena di scartoffie e libri impolverati.

«Ehi, ehi, chi si vede! Il mio caro fratellino» lo accolse Etios con sarcasmo mettendosi seduto. Danker serrò i denti.

«Come mai da queste parti? Credevo mi odiassi» continuò poi ergendosi dinnanzi a lui in tutta la sua mole.

«Non ho cambiato idea su di te, Etios, ma ho bisogno d'aiuto e tu sei l'unico che può darmelo». Danker parlò con tono misto tra disprezzo e orgoglio, senza però osare guardarlo negli occhi.

«E che cosa vuoi che faccia? Deve essere molto importante per te se sei venuto addirittura fin qui».

«Noor ed Enora...»

«Ah, la piccola Enora! La tua figliastra cieca» disse ridendo arrogante.

«Non chiamarla così» gli sibilò in risposta Danker tenendo a stento la rabbia; aveva bisogno di lui e non poteva commettere errori. Il fratello sorrise soddisfatto della reazione che aveva causato, poi gli fece cenno di parlare.

«La casa è bruciata, Marianne è morta e non sappiamo dove andare. Voglio che almeno loro stiano al sicuro, e so che nonostante tutto tu li proteggeresti». Gli costava fatica ammettere che gli serviva proprio il suo aiuto, ma Etios era il fratello maggiore e in qualche modo sapeva che ancora per lui contava qualcosa. Il ribelle si prese qualche secondo per respirare. Quelle notizie lo colpirono come un pugno allo stomaco, ma, paradossalmente, era passato troppo tempo per poter dimenticare.

«Cosa avrei in cambio?». Avrebbe voluto dirgli tante cose, ma scelse quella più vile.

«Non quello che vuoi».

«È proprio per questo che non voglio aiutarti».

Danker sbatté le possenti mani sulla scrivania, sfondandola.

«Senti, farabutto, – disse poi grondante di rabbia – sai che ti detesto e sai che mi è costato parecchio venire da te. Il mio orgoglio non ti basta? Adesso non si parla più di noi, ci sono due ragazzi in ballo e non possiamo più giocare a farci la guerra».

Etios prese a osservare i pezzi di scrivania sul pavimento, senza riuscire a continuare a fingere una rabbia che non provava più da tempo.

«Rimarrò poco in città, resteranno con il mio aiutante. È un bravo ragazzo e staranno bene».

Danker sorrise e annuì, poi si girò e andò via: sapeva che sarebbero stati al sicuro.

Noor ed Enora camminarono spediti in mezzo al bosco fuori dalle mura della città.
Noor non sapeva perché aveva deciso di dirigersi lì ma era stato il primo posto che gli era venuto in mente. Teneva stretto il polso di sua sorella che quasi faceva fatica a seguirlo ma non protestava, né chiedeva dove si stessero dirigendo o perché non fossero al funerale della madre; ed era meglio così: non avrebbe saputo spiegarle il motivo di quella destinazione.

Il Colle della Luce si trovava alla fine del bosco, chiamato così perché dall'alba al tramonto era baciato dal sole, e sulla sua cima sorgeva un tempio; e proprio lì, secondo Noor, avrebbero trovato l'aiuto che cercavano.

I due si ritrovarono presto davanti all'enorme e povero cancello del santuario ed entrarono cominciando a cercare un sacerdote.

La struttura era a pianta quadrata e si ergeva su più piani con al centro uno spiazzale in cui gli uomini devoti alla Dea erano soliti pregare; il primo piano era interamente dedicato alla mensa, negli altri vi erano solo i dormitori scanditi da piccole porte di legno tutte uguali, mentre dall'altro lato delle grandi finestre biforate lasciavano entrare una luce costante. Era il posto più adatto per pregare Mysa, la Dea della Luce. Accanto alla struttura sorgeva una piccola cappella, semplice e spoglia, utilizzata solo dai sacerdoti e da qualche fedele abituale.

«Finalmente ti abbiamo trovato. – disse Noor sollevato – Abbiamo bisogno del tuo aiuto, Kalir».

Il cugino si fece serio e gli fece cenno di parlare.

«In privato».

Il sacerdote annuì e condusse i due fratelli in fondo alla cappella. Lasciarono Enora seduta in una panca poco lontana, nonostante le sue proteste, mentre loro si diressero in un'area più sicura. In realtà Noor avrebbe potuto parlare liberamente con Kalir, ma non voleva ancora che Enora sapesse quello che aveva in mente.

Gli raccontò ciò che aveva detto a sua sorella poco prima di trovare la casa in fiamme, e gli riferì anche quello che non aveva ancora detto a nessuno: il suo obbligo di partire ed entrare nel gruppo di Resistenza.

«Mio padre ed Enora voglio tenerli fuori, ma ho bisogno del tuo aiuto».

«È stato un periodo orribile per la tua famiglia e mi duole non esservi stato accanto, quindi farò tutto ciò che è in mio potere per aiutarvi».

Noor abbassò il capo.

«Io dovrò abbandonarli e mi sento un verme a farlo proprio ora, ma voglio che siano al sicuro. Volevo chiederti se potevate prendervi cura di loro qui: mio padre lavora e mia sorella dovrebbe stare sola tutto il giorno, ma non abbiamo più una casa e non voglio costringerla all'officina di mio padre».

Kalir annuì.

«Hai un'anima pura, non devi sentirti in colpa per quello che stai facendo. È per un bene superiore». I due si guardarono per un istante, e poi si diressero verso la ragazza.

«Possiamo andare, adesso. Abbiamo un'altra persona da incontrare» le disse semplicemente Noor. Enora capì, e fu un po' restia a seguirlo.

«Fidati di me» la rassicurò, e lei si fece convincere.

«Sapevo che sareste venuti». L'uomo era ai piedi della grande quercia, proprio come aveva detto loro il giorno prima, e gli parlava con ancora il cappuccio calato a coprirgli il volto.

«Voglio che Enora rimanga fuori».

«No! Lei deve esserci». La figura si alzò di scatto con un solo movimento e si diresse verso di loro, ma Noor scansò la sorella frapponendosi tra i due e lo fronteggiò. La figura mise una mano dentro il piccolo sacco che aveva sempre legato alla cintola e ne estrasse una collana, avvicinandola al ragazzo. Noor la guardò con aria perplessa.

«Falla indossare a tua sorella».

«Volete comprarci?»

«Fagliela indossare, ho detto».

Noor lo fissò immobile, titubante.

«Vi avrei già ucciso se solo lo avessi voluto. Sono in grado di fare cose che neanche immagini».

Noor tese lentamente la mano e prese il gioiello osservandone con attenzione ogni minimo dettaglio. Aveva ventiquattro piccole perle di colore azzurro e sembrava emanare una strana luce. Non era un oggetto che un semplice vagabondo poteva permettersi, tuttavia decise che una collana non poteva certo essere pericolosa, così fece spostare i capelli della sorella e gliela fece indossare.

«Perché questo regalo?» chiese voltandosi nuovamente verso di lui, e l'uomo scoprì i denti in quello che doveva essere un sorriso.

«Consideralo un prestito».

Nel momento in cui Noor affibbiò la collana al collo della sorella, lei si coprì gli occhi e cominciò a urlare. La figura sorrideva soddisfatta mentre Enora, rannicchiata sulle foglie del terreno, iniziava a dimenarsi.

«Che avete fatto! Ditemi cosa le avete fatto!». Noor stava per scagliarsi contro quell'uomo quando Enora si zittì all'improvviso e si alzò tremante in piedi.

Toccò le palpebre dopo la dolorosa fitta che le aveva colpite e tentò di aprirle, ma presero a bruciarle nuovamente. Era un bruciore strano, come qualcosa che le premesse forte sugli occhi, e solo allora si rese conto che c'era qualcosa che si stagliava confuso tra le tenebre che l'avevano sempre avvolta. Si costrinse ad aprire completamente gli occhi nonostante il dolore e la luce intensa, e all'iniziò non capì cosa le stesse succedendo.

Il buio attorno a lei si dipanò lentamente, lasciandole scorgere prima i contorni e poi i tutti i dettagli di ciò che aveva imparato essere un albero. Ebbe un attimo di panico, solo uno, poi spalancò gli occhi abbagliati dalla luce e si voltò verso Noor cercando invano di dire qualcosa. Il suo volto era un misto di stupore e terrore, bagnato da lacrime che adesso riusciva a vedere.

«Ci vedo» riuscì a sussurrare, infine. Dirlo a voce alta lo rese vero, ed Enora cominciò a ridere e a piangere insieme. Si mosse lentamente, colpita dalla quantità di cose che aveva intorno, poi si diresse verso Noor e lo abbracciò così forte da togliergli il respiro. Lui rimase immobile per un istante prima di ricambiare, senza capire cosa fosse successo esattamente, ma contagiato dalla felicità che sembrava emanare sua sorella.

«Sei la prima persona che vedo, Noor» disse lei toccandogli piano il viso, riuscendo finalmente a dare una forma e un colore a ciò che stava toccando. Gli rivolse il sorriso più grande che avesse mai fatto nella sua vita e girò più volte su sé stessa, riempiendosi gli occhi di tutto ciò che vedeva.

Vedeva.

«Ci vedo! Ci vedo!» urlò ancora lei, liberando i polmoni di tutta l'aria, e riempiendoli di un'aria completamente nuova con un altro sapore, di un'aria che non poteva descrivere.

«Vedo le mie mani, Noor, guarda come sono belle! E i miei vestiti, e i miei piedi! Oh, riesco a vederli, adesso!». Allargò le braccia e si guardò intorno beandosi.

«Vedo il cielo e le nuvole, vedo gli alberi e le loro foglie, vedo i fiori! Noor, non mi avevi detto che erano così belli. E quella lì è una roccia, e questa è la nostra quercia!». Enora si inginocchiò e strinse nelle mani delle foglie e la terra ai piedi del loro albero, come se avessero un valore inestimabile.

«Posso andare in città e vedere le persone, il mercato, la fontana, la statua, posso andare a casa e...». Il peso di ciò che era accaduto le cadde addosso improvvisamente, spegnendole il sorriso e schiacciandola sotto la sua enorme mole. Suo fratello la raggiunse e l'abbracciò.

«La mamma sarebbe così felice di tutto questo».

Enora annuì e sorrise triste, poi si voltò per la prima volta verso quell'uomo che era rimasto in silenzio per tutto il tempo.

«Non farò mai abbastanza per ringraziarvi: non mi avete donato solo la vista, mi avete concesso anche un'altra vita».

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