Capitolo 7: Un incontro col destino

La notte era finita da poco, il cielo iniziava a tingersi di rosa e la flebile luce del sole cominciava a gettare le prime ombre sul terreno. Un uomo dava le spalle al meraviglioso spettacolo offerto dalla foresta illuminata dall'alba e al dolce suono dei rami mossi delicatamente dalla brezza mattutina.

Scostò dal viso i capelli che il vento gli scompigliava e continuò a camminare per la strada terrosa che lo avrebbe condotto alle porte delle città. Osservò l'enorme cancello in legno e ferro, costruito da mani sapienti e accurate, e ammirò le imponenti mura distendersi fino ad abbracciare l'intera Olok.

L'uomo indossò il cappuccio della povera tunica che portava; non aveva altro con sé, non aveva mai avuto bisogno d'altro, se non del piccolo sacco che custodiva gelosamente il suo contenuto. Si sedette all'ombra delle mura e attese così che il sole fosse abbastanza alto affinché le porte venissero aperte; si alzò quasi svogliatamente dalla posizione comoda, scrollò di dosso il terriccio delle strade sterrate e si diresse a passo lento all'interno della Capitale. Doveva trovare il modo di non dare troppo nell'occhio, doveva passare come un normale mendicante. Nessuno avrebbe dovuto accorgersi di lui; nessuno, tranne coloro che cercava.

Quella mattina Enora si svegliò di buon umore nonostante sentisse ancora forte la mancanza di Arkara, partita da ormai tre settimane per un motivo a lei sconosciuto. Si alzò dal letto con cautela e cominciò a prepararsi per uscire; ripeté i gesti quotidiani che aveva imparato nel corso degli anni, tastava sicura davanti a sé, si muoveva senza indecisione, sapeva dove andare e cosa cercare. Quando fu pronta, si diresse verso la cucina dove sentì suo fratello e sua madre che parlavano, e li salutò entrambi.

«Noor, che ne dici di camminare un po', oggi?» chiese servendosi di una fetta di pane e del formaggio: adorava sentirne il sapore per colazione ed erano anni che sua madre li metteva nello stesso posto, ogni giorno.

Noor accettò di buon grado e i due fratelli uscirono per dirigersi verso le vie più popolose della città. Enora amava sentire le voci del mercato e i profumi che provenivano dalle botteghe. Aveva imparato a conoscere ogni suono, ogni voce, ogni odore, e le persone avevano imparato a conoscere lei non trattandola più come una persona cieca ma, semplicemente, come una delle tante giovani ragazze che popolavano la Capitale. L'aria che si respirava non era più la stessa dopo la morte della regina, si sentiva che qualcosa era cambiato, e Noor sapeva anche il perché.

Doveva trovare il modo per poter andare via, raggiungere Arkara, aiutare Olok.

«Che cosa penseresti se io me ne andassi?» disse all'improvviso. Enora si voltò di scatto e gli sorrise stranita.

«Tu non te ne andresti, non mi lasceresti mai da sola».

Noor le strinse la mano che aveva poggiato sul braccio, ma si voltò dall'altra parte. Cambiò argomento per costringersi a non pensare, e continuarono a camminare per la città con il sole che li scaldava e un fievole vento che agitava i capelli.

«Andiamo al bosco, ti va?» le chiese dopo un po'.

Enora annuì convinta allargando uno dei suoi ampi sorrisi e ripercorsero a ritroso la via principale fino alle porte della capitale. Da lì, una fila di cittadini vestiti a lutto, come ogni giorno a quell'ora, si dirigeva lentamente e in rispettoso silenzio verso il castello per un'altra giornata di veglia alla regina: nonostante fosse passato quasi un mese, il popolo non smetteva di renderle omaggio. Li oltrepassarono in fretta con leggero disagio, passando accanto a un mendicante con il cappuccio sul viso seduto all'ombra che le mura gettavano sul terreno. Quell'uomo li osservò passare seguendoli con lo sguardo, e sorrise portando indietro il capo.

Giusto in tempo.

I due fratelli arrivarono all'ombra del solito albero e si sedettero sotto il fresco delle sue foglie.

«Avevo dimenticato come fosse rilassante». Enora poggiò mollemente la nuca sul tronco della grande quercia, lasciando che il vento le scompigliasse i capelli e la rinfrescasse in quella calda mattina d'estate.

Anche Noor fece lo stesso e chiuse gli occhi vedendo scorrere nella sua memoria le immagini di lunghi pomeriggi passati sotto l'ombra di quelle stesse foglie, e si ritrovò a sorridere.

Pensò che se fosse andato via non avrebbe più avuto la possibilità di rivedere casa, né tanto meno quel luogo. Una morsa gli strinse il petto quasi a fargli male; sentiva quel posto come suo, qualcosa che gli apparteneva e che era in dovere di proteggere ma, mentre sarebbe stato via, chi avrebbe badato a sua sorella? Chi le sarebbe stato accanto per proteggerla? Nonostante il desiderio di combattere e di difendere ciò in cui credeva, non aveva la forza di abbandonare tutto e partire; non ne aveva il coraggio.

Si rannicchiò sotto l'albero fino ad abbracciarsi le ginocchia e vi poggiò sopra il capo, con il volto segnato da una smorfia di sofferenza. Lui era da solo, si ritrovò a pensare, e non avrebbe potuto fare niente per Holtre, ma avrebbe fatto di tutto per proteggere Enora e la sua famiglia lì, a Olok.

Ammirava Arkara per il suo coraggio, l'ammirava davvero. Si lasciò cullare dal fruscio dei rami mossi dal vento e cercò di svuotare completamente la mente.

Enora si voltò nella direzione nella quale sapeva esserci suo fratello e cercò la sua mano tra le foglie del terreno per poi stringerla forte.

«Da piccoli venivamo qua ogni volta che avevi un problema e volevi pensare. Questa volta qual è il motivo?» gli chiese.

Noor rimase immobile limitandosi a ricambiare la stretta. Rimase in silenzio per qualche secondo e poi cominciò a parlare con riluttanza.

«Sono cambiate tante cose da quando eravamo piccoli e adesso i miei pensieri non sono più sciocchezze come allora. Sono cresciuto, e ora sono un uomo che ha delle responsabilità verso di te, verso la nostra famiglia...». Noor si interruppe; non era il caso di continuare. Enora lo esortò a proseguire ma lui non volle più andare avanti.

"Proteggere te o rendere questo posto migliore affinché non ci sia bisogno di proteggerti?" pensò.

«Forse è il momento di tornare a casa; nostra madre si starà chiedendo dove siamo, e la cena sarà pronta a momenti» disse invece Noor. Si alzò con uno scatto di reni e tolse dai suoi indumenti il terriccio e le foglie che vi si erano impigliate, poi prese la mano di sua sorella e la aiutò ad alzarsi. Cominciarono a camminare nella direzione di casa ma si fermarono poco dopo, intralciati da un uomo dalla tunica vecchia e stracciata che gli sbarrava la strada e non accennava a spostarsi.

Noor spostò Enora dietro di sé e si rivolse allo sconosciuto con fare sprezzante.

«Toglietevi di mezzo, vagabondo, non abbiamo nulla per voi».

«Finalmente ci conosciamo» disse la voce di un uomo possente e autoritario da sotto il cappuccio.

Enora si strinse al fratello.

«Noor, che succede?»

«Sta' tranquilla, ci sono io qui per te». Parlò a voce bassa senza distogliere lo sguardo dalla figura, e notò che armeggiava con un piccolo sacco allacciato alla tunica.

Aveva un brutto presentimento.

«Non dovete avere paura; non di me».

«Chi siete?» chiese Enora cercando di nascondere la voce tremante, ma la figura si rivolse verso Noor.

«Io sono colui che può aiutarti a scegliere. Conosco i dubbi che ti attanagliano, e ne capisco l'origine».

«Cosa volete saperne voi, vagabondo, dei dubbi che posso avere!» lo derise spavaldo.

«Arkara è stata in grado di scegliere da sola, ma tu hai molto più da perdere».

La risata gli si smorzò in gola e la sua espressione mutò di colpo.

«Noor, come fa a conoscere Arkara? Di che scelta parla?».

L'uomo non gli diede il tempo di rispondere.

«Gli Elyse vi accoglierebbero a braccia aperte; specialmente te, Enora. In un momento come questo c'è molto bisogno di nuove reclute, di ragazzi pronti a combattere. Ora che Isidora è morta tutti hanno capito che qualcosa non va, ma nessuno ha il coraggio di fare la prima mossa».

Noor sentì un inclinazione triste della voce che subito però si riprese.

«Sembra che conosciate molto bene la situazione: conoscete me, mia sorella e persino Arkara; e allora dovreste sapere che Enora è cieca. Ha bisogno che io rimanga qui».

«Ti sorprenderesti di cosa sarebbe in grado di fare con un piccolo aiuto».

Noor stava perdendo la pazienza, odiava chi parlava per enigmi come lui.

«Scopritevi il volto e spiegate chiaramente le vostre ragioni, o toglietevi dal nostro cammino».

Al contrario di Noor quell'uomo parlò con molta calma, ma non gli disse molto.

«Tutto a tempo debito, Noor, non avere fretta. Pensate di avere molte cose da lasciare, ma vi accorgerete presto che non è così». La figura cominciò a camminare verso i due fratelli e li oltrepassò senza trovare alcuna resistenza.

«Aspettate, cosa volete dire?».

Un baluginio di occhi viola fu tutto ciò che riuscì a vedere prima che quell'uomo gli voltasse le spalle.

«Sarò ai piedi della grande quercia per sette giorni, dopo di che me ne andrò per la mia strada e sarà come se non ci fossimo mai incontrati». Continuò a parlare senza smettere di camminare e sparì tra gli alberi lasciando i due fratelli in mezzo al sentiero.

«Cosa avrà voluto dire?»

«Non lo so, Enora, non lo so». Noor sospirò più perplesso che mai, diede un'ultima occhiata nella direzione in cui era sparita la figura e poi riprese a camminare, mentre Enora al suo fianco non smetteva di fargli domande. Adesso era impossibile tenerle nascosto l'accaduto.

Ripercorsero a ritroso la strada verso casa mentre Noor le raccontava ciò che lui e Arkara avevano origliato al funerale della regina, della decisione di partire e dei dubbi che lo laceravano da quel momento. Il flusso dei suoi pensieri faticava a trasformarsi in parole e la confusione che aveva dentro non gli permetteva di decidere cosa avrebbe potuto dirle per renderle tutto più facile da capire e da accettare.

Enora si fermò di colpo interrompendo il suo soliloquio.

«Perché ti sei fermata?»

«Come fai a non sentire l'odore di bruciato?»

Noor si fece attento e annusò l'aria. Lo sentiva anche lui.

Entrarono in città con passo svelto e continuarono a camminare circospetti finché Noor vide delle fiamme provenire dalla loro strada.

"Pensate di avere tante cose da lasciare, ma vi accorgerete presto che non è così".

Raggiunsero velocemente la propria casa e improvvisamente quelle parole presero forma davanti a Noor, una forma terribile.

«Siamo arrivati a casa, Enora» disse poi con un nodo alla gola. Lei riusciva a sentire distintamente lo scoppiettio del fuoco e le vampate di calore le pervasero il corpo.

«Noor, la casa, la nostra casa sta...»

«...bruciando».

La loro casa era completamente invasa dalle fiamme, il legno cedeva velocemente e ormai era crollato quasi tutto. Un'enorme colonna di fumo nero si elevava al cielo e la strada era coperta dalla cenere. Non c'era nessuno intorno, nessuno che urlava, nessuno che scappava. Erano tutti andati via. Noor sentì qualche grido soffocato in cerca di aiuto dalle case intorno, ma non riusciva a muoversi. La vista delle fiamme che divoravano la casa lo impalò al terreno, facendogli prendere lentamente coscienza che tutti i suoi ricordi erano ormai soltanto fumo nero che si dissolveva implacabile nell'aria. Poi d'un tratto ebbe paura.

«Sta' ferma qui, io vado dentro a controllare». Voleva ostentare sicurezza ma la sua voce stava tremando.

Enora non ebbe il tempo di afferrarlo per un braccio e lo sentì correre verso casa, riuscendo solo a gridargli di stare attento.

Noor dovette presto fermarsi rendendosi conto di non riuscire più a respirare, immerso nella densa cortina di fumo nero. La gola prese a bruciargli violentemente e cominciò a tossire.

"Mamma".

Strappò la manica della povera casacca che indossava e la legò dietro la testa per coprire naso e bocca, poi proseguì la corsa fino ad arrivare dove prima c'era la porta. Cominciò ad aggirarsi frenetico tra gli ambienti cadenti della propria casa mentre le fiamme lambivano ogni cosa; chiamava disperatamente la madre con il cuore in gola ma non rispondeva nessuno. Forse non c'era, forse era riuscita a scappare. Si aggrappò con tutto sé stesso a quella speranza ma senza smettere di cercare.

Dove prima c'era la cucina adesso c'era solo legno che bruciava, le pentole scoppiate, il tetto caduto, il tavolo e le sedie ridotti a pezzi di carbone; anche camminare era diventato praticamente impossibile con le travi che continuavano a cadere. Si diresse verso la stanza in cui dormivano Marianne e Danker e la vide, lì, stesa su un fianco con un braccio sul viso a coprire naso e bocca e una trave che la schiacciava all'altezza del bacino.

"Mamma!".

A fatica riuscì a toglierle il peso di dosso, incurante delle mani scottate e delle fitte di dolore alle spalle ustionate, e la portò tra le braccia camminando per l'ultima volta tra le pareti di casa. Raggiunse Enora e poggiò la madre ai suoi piedi, osservandola adesso per la prima volta. Il vestito che portava era totalmente annerito dalla fuliggine e lasciava scoperte ampie parti del giovane corpo e sprazzi di carne viva. Le gambe e le braccia sembravano martoriate; il capo era a chiazze scure, tumefatto dalla trave che le era caduta addosso, mentre il volto era nero e bruciato donando alla donna l'aspetto di una preda appena divorata.

Noor cominciò a piangere mentre si toglieva dal viso bruciacchiato la manica che aveva legato, e si lasciò cadere incapace di dire qualunque cosa, o anche solo di pensare.

Enora sentì il fratello avvicinarsi e poggiare qualcosa a terra, così si inginocchiò anche lei allungando tremante le braccia davanti a sé per tastare ciò che aveva dinnanzi, senza riconoscerlo: non aveva mai toccato nulla di simile. Sentire i singhiozzi di Noor, però, le diede la conferma di ciò che non aveva osato dire ad alta voce e pianse anche lei, quasi distesa sul corpo morto della madre mentre qualche persona cominciava a radunarsi attorno a loro e degli uomini si occupavano di estinguere le fiamme.

Adesso bisognava avvisare Danker.

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