Capitolo 50: Con tutta l'anima

Enora si rialzò aiutandosi con l'impugnatura della spada e fissò il corpo di Alec che giaceva ai suoi piedi, martoriato. I primi raggi del sole colpirono le gemme incastonate nel trono, riempiendo la sala con i colori dell'arcobaleno; gli lanciò un ultimo sguardo, poi si incamminò verso la regale porta d'entrata. Diede un calcio a una perla insanguinata che trovò sul suo cammino, facendola rotolare di lato, e proseguì lentamente, con il volto inespressivo e una nuova luce negli occhi.

Con una mano sfiorò una delle due cicatrici, ai lati degli occhi e nella mente si affollarono tutti i ricordi della sua infanzia e dell'adolescenza passate nell'oscurità, le si accalcarono le immagini degli ultimi anni passati a combattere e uccidere.

Uscire da lì l'avrebbe liberata da ogni peso: Isidora era stata vendicata, Fabian era stato vendicato, Noor... suo fratello era stato vendicato. Adesso, l'unica cosa che le importava era raggiungere Nayél e usare ogni strumento in suo possesso per salvarlo.

Quando varcò la soglia della Sala del Trono venne travolta dalle grida dei soldati che continuavano a lottare nell'androne del palazzo. Le Armature Nere erano in netta inferiorità numerica, eppure non accennavano ad arrendersi. Incrociò Stenphield mentre continuava ad avanzare lungo il corridoio, e lo vide sorridere mentre gli si avvicinava. Raggiunse il parapetto che dava sull'ingresso del Real Castello, si sporse un po' oltre la balconata, alzò la spada e la gettò di sotto.

«Questo è il sangue del re. Non siete più obbligati a combattere».

Lo spazio fu invaso dal rumore metallico della lama che cozzava contro il pavimento. Tutti si voltarono a guardarla nel più totale silenzio, e i combattimenti cessarono di colpo. I soldati delle Armate Nere, increduli, si arresero gettando le armi a terra, mentre dagli Elyse e dagli eserciti del Pesce, del Leone e del Toro, si levò presto un boato di gioia.

La Grande Guerra era finita.

Danker e Christopher salirono rapidi le scale e raggiunsero loro figlia, che si aggrappò a entrambi, stravolta, ma contenta di rivederli vivi.

«Dov'è Nayél?» chiese, stringendosi a Danker.

«Uno di noi lo ha già portato da Mylene. Enora, io non so se...»

Lei si staccò con i muscoli tesi dalla stanchezza e dall'apprensione, e si rivolse verso Stenphield.

«Portatemi da lui».

L'elfo afferrò la sua mano e, un attimo dopo, si dipanò davanti a loro l'accampamento innevato.

Gli stregoni della Resistenza continuavano a fare avanti e indietro tra la tenda dei feriti e il Real Castello, materializzando al cospetto di Mylene e degli altri guaritori tutti coloro che ne avevano bisogno. Entro quella sera, sarebbero stati in centinaia.

Enora si tolse di dosso la presa dell'elfo e cominciò a inerpicare nella neve, puntando gli occhi sulla tenda bianco sporco in cui, sicuramente, si trovava Nayél. Lo avrebbe trovato tra i feriti, ne era certa, non poteva essere altrimenti.

«Non è qui» l'avvisò Mylene non appena la vide apparire pallida sulla soglia. La ribelle rimase immobile per qualche secondo, muovendo gli occhi su tutti i giacigli già occupati, come se non volesse credere alle parole della sacerdotessa.

«È in una delle tende rosse. Enora... non si è ancora svegliato».

Lei la fissò per un breve istante, poi si voltò e andò via, rifiutando le richieste per farsi medicare le ferite.

Aveva varcato un'infinità di tende rosse, quelle in cui venivano sistemati i feriti più gravi, quando si ritrovò Christopher sulla sua strada.

«Elisea...» cominciò lui, ma Enora non aveva la minima intenzione di parlare.

«Non adesso».

«Sto andando via, volevo solo salutarti».

Lei si fermò per guardarlo bene negli occhi. Erano lucidi, incredibilmente simili ai suoi.

«Adesso che la missione è finita, non avete motivo di restare» rispose, più fredda della neve che aveva iniziato a fioccare.

«Non sei la mia missione, Elisea, sei mia figlia. E lo sarai sempre, anche se mi odi».

«Ho già un padre, Christopher, non me ne serve un altro. Ai miei occhi siete solo un estraneo che mi ha spiato per tutta la vita senza mai avvicinarsi, un estraneo di cui non sapevo nulla fino a un mese fa e che pretende da me un affetto che non sono in grado di dargli».

Christopher incassò il colpo senza mutare la sua espressione, sebbene dentro sentì le viscere attorcigliarsi. Era un dolore diverso da quello che era abituato a provare nei campi di battaglia, persino diverso dalla sofferenza dettata dall'addio a Isidora.

«Lo so, figlia mia. Hai avuto una famiglia che ti ha voluto bene e che ti ha cresciuta mentre io non c'ero. Probabilmente ho sbagliato tutto con te, non mi sarei mai dovuto allontanare così tanto: avrei dovuto lottare di più per far parte della tua vita, avrei dovuto lottare per tenerti con me. – pronunciò a voce bassa, rotta dall'emozione – Ma ho avuto paura, Elisea. Tanta, tantissima paura».

Enora sapeva che avrebbe dovuto provare qualcosa in quel momento, qualunque cosa che non fosse la più completa indifferenza. Non conosceva l'uomo che gli stava davanti, non le suscitava nessuna emozione. Forse era la rabbia ad averla resa insensibile a quelle parole così commosse, forse era stato il dolore ad annichilire ogni parvenza di sentimento.

«Avete agito senza considerare per un solo attimo come mi sarei potuta sentire, mi avete ingannata per compiere una missione che neppure sapevo mi appartenesse, mi avete costretto a uccidere solo per vendicare i vostri torti. Non riesco a perdonarvi, ma non vi odio, se è questo che temete. Ho avuto una bella vita con la mia famiglia, due genitori che mi hanno amata e un fratello che... Noor è stato un fratello meraviglioso». Ricacciò indietro le lacrime guardando verso il cielo, accolse sul viso qualche fiocco di neve e poi orientò nuovamente la sua attenzione su Christopher. Sembrava tranquillo, nonostante gli avesse rivolto quelle parole senza curarsi di quanto avrebbero potuto fargli male.

«Ti abbiamo ferita, lo so, nonostante fosse l'ultima cosa che avremmo voluto farti. Per questo ho deciso di andare via: perché so che, almeno adesso, non c'è spazio per me nella tua vita, e non voglio forzarti. Ma ti prometto, Elis... Enora, che non mi arrenderò con te, mai». La raggiunse in poche falcate e la strinse a sé con tutta la delicatezza di cui era capace, nonostante dentro urlasse. Si stupì quando lei ricambiò la stretta.

«Arrivederci, allora» gli disse, con il viso affondato sulla sua spalla e le braccia rigide in una sorta di abbraccio.

Christopher le diede un bacio sulla testa bruna e si allontanò da lì senza voltarsi indietro. Non voleva che sua figlia lo vedesse piangere.

"Arrivederci, padre", pensò la ribelle mentre guardava la sua schiena allontanarsi per andare chissà dove.

Una folata di vento gelido le fece rizzare la pelle dietro la nuca e si riscosse da quel momento di torpore, ricordandosi il motivo per cui si trovava lì. Si guardò intorno in cerca della prossima tenda in cui controllare e, una volta dentro, lo vide.

Era disteso in un ammasso di paglia e lana, coperto da un leggero lenzuolo bianco fino al torace. Lo raggiunse in fretta, incurante del dolore che le procurava ogni passo, e gli strappò via di dosso quella coperta in cui venivano avvolti i defunti.

Nayél era immobile, privo di sensi, con il petto che si alzava e abbassava lentamente. Troppo lentamente.

Gli si sedette a fianco e lo osservò per interi minuti, con le mani strette sulle sue e gli occhi fissi sullo squarcio che gli lacerava l'addome.

Provò a guarirlo con la magia, ma la ferita non si risanava. Creò un piccolo globo di luce e glielo infuse nel torace, così come aveva fatto Angus mentre lei stava per morire. Stenphield, nei mesi passati, le aveva insegnato il modo in cui potersi privare della propria energia per trasferirla agli altri, e lei era pronta a donargliela tutta.

«Forza, Nayél, non lasciarmi così».

Nessuna risposta.

Provò con un globo ancora più grande, ma il risultato fu lo stesso. Poi con un altro e un altro ancora. Era stremata, stravolta dalla stanchezza e dal dolore, ma non si sarebbe arresa, non lo avrebbe perso.

«Nayél, ti prego, torna da me...» lo supplicò, con gli occhi brucianti di lacrime e impotenza.

Sfregò i palmi tra loro, si concentrò con tutta sé stessa ed evocò una sfera di luce diversa dalle precedenti. Conteneva la sua energia vitale, ed era azzurra. La guardò per un istante come se rivedesse un vecchio amico e non riuscì a trattenere un singhiozzo.

Lei era davvero azzurra, proprio come le aveva detto Noor quando erano piccoli. Azzurra come il cielo.

Avvicinò il piccolo globo al petto di Nayél, le energie le venivano meno ma si costrinse a tenere gli occhi aperti mentre lasciava che penetrasse la ferita del suo amato. Non sapeva quanta gliene rimanesse, forse non abbastanza per sopravvivere, ma sperava che almeno sarebbe bastata per lui. Si distese al suo fianco, poggiò la testa sulla sua spalla e si concentrò sul suo respiro basso e irregolare.

«Sei arrivato all'improvviso. – gli disse con voce flebile, conscia che non poteva sentirla – Non ti aspettavo, ma tu sei stato paziente con me. Mi sei rimasto al fianco per tutto il tempo, mi hai accettata nonostante tutto e mi hai supportata sempre. Grazie. Grazie per i ricordi che abbiamo costruito insieme, per avermi fatta ridere quando avrei solo voluto piangere, per aver rimesso insieme ogni piccolo pezzetto in cui mi ero frantumata. Grazie e... ti amo. Ti amo, Nayél, e vorrei avere la possibilità di dirtelo guardandoti negli occhi. Non andare via, per favore, torna da me». Non ebbe più la forza di continuare, abbracciò il suo uomo e chiuse gli occhi accogliendo il buio.

Arkara era rimasta all'accampamento per tutto il tempo, tormentandosi le mani nell'attesa insopportabile. Era stato difficile vedere andare via tutti i suoi amici e compagni a combattere una guerra a cui lei non poteva prendere parte ma, soprattutto, era stato difficile salutare Flynn. Aveva paura di perderlo, come aveva perso Breit, suo fratello e i suoi genitori. Quella guerra le aveva fatto pagare un prezzo troppo alto e spesso di notte non riusciva a dormire, tra gli incubi e il dolore alla gamba.

Attese infinite ore senza mai alzarsi dalla sedia mobile che le aveva costruito il soldato del Toro: stava diventando indispensabile, ma non sapeva dire se era perché ne avesse davvero bisogno o perché le ricordava lui.

Aveva ingannato l'attesa con sua madre, cercando di recuperare tutto il tempo ormai perduto. Ingrid le aveva raccontato ogni cosa di Yler e di Kimav, condividendo con lei quei ricordi lontani che erano ormai diventati l'unico legame con il marito e il figlio. Erano state interrotte dai soldati della Terra del Leone che trasportavano il corpo senza vita di Minerva, e le urla di Hemelya le avevano fatto venire i brividi, prima di perdersi nel gelo di quel pomeriggio che volgeva al termine. Nessuno aveva avuto il coraggio di avvicinarsi e staccarla dal corpo della madre, su cui si era gettata piangendo tutte le sue lacrime.

«Povera ragazza, che dolore terribile» aveva commentato tristemente Ingrid. Arkara non le aveva risposto, persa nei suoi pensieri. Poteva comprendere benissimo cosa stava passando Hemelya. Anche se la donna accanto a lei era effettivamente sua madre, lei era cresciuta con le cure e l'amore di Angelin, e ora l'aveva persa. Le lacrime erano arrivate puntuali a pungerle gli occhi, e lei le aveva lasciate cadere, stringendosi alla madre che stava imparando a conoscere.

Si formò una piccola folla attorno a lei: un altro gruppo di soldati aveva varcato le mura di Olok, e li attendevano tutti col fiato sospeso. Arkara, seduta sulla sua sedia a rotelle, cercava di sporgersi più in alto che poteva nel tentativo di scorgere i volti di chi tornava dal campo di battaglia. Aveva freneticamente cercato quello di Flynn tra i feriti e adesso aspettava impaziente di vederlo arrivare tra i sopravvissuti.

Lui marciava con il piccolo esercito della Terra del Toro reggendo l'elmo con un braccio, mentre la spada era saldamente tenuta alla cintola.

Arkara sventolò un braccio nella sua direzione per attirarne l'attenzione, e il soldato corse da lei con un enorme sorriso stampato in viso. Poggiò un ginocchio a terra così da poter sostenere il suo sguardo, mentre lei invece cercava di sollevarsi.

«Ferma, così ti fai male». Sarebbe dovuto essere una sorta di rimprovero, ma non poté fare a meno di sorridere nel rivederla.

«Non voglio che mi vedi così» gli disse, distogliendo lo sguardo per cercare di nascondere l'imbarazzo nella sua voce, senza riuscirci.

Il soldato la guardò e la trovò bellissima. Gli occhi verdi riflettevano la luce del sole che stava sorgendo e i capelli rossi un po' arruffati le incorniciavano il viso. Le prese una mano e, con delicatezza, la portò al suo volto. Lì, su quella parte che si era tremendamente vergognato di mostrarle.

Arkara venne a contatto con i segni delle bruciature, ma non ritrasse la mano. Sfiorò le cicatrici lasciate dall'esplosione della barriera magica e cominciò a seguirne i solchi.

«Vedi? A te non importa dei miei segni, anche se ho provato a nasconderli, e a me non interessa se stai in piedi o seduta su questa sedia. Vorrei solo che tu stessi con me, sempre». Non era mai stato bravo con le parole, soprattutto se doveva esprimere dei sentimenti. Gli costò molto formulare quella frase, e sperò che lei capisse senza bisogno di ulteriori spiegazioni.

La ragazza dai capelli rossi non disse nulla, portò la mano libera sull'altro lato del viso e poggio la fronte sulla sua. Flynn alzò il volto e si guardarono per un solo istante, leggendo nell'altro gli stessi sentimenti che erano cresciuti in loro così in fretta, poi entrambi chiusero gli occhi e si baciarono con estrema delicatezza, come se avessero paura che qualcosa potesse interrompere quel momento perfetto.

Klethus aumentò il passo per raggiungere Kamal, in testa alle Armate Rosse del Pesce.
«Vostra Maestà, dovreste esultare per questa vittoria».

Il sovrano si voltò appena nella sua direzione, come se il suono gli fosse giunto da chissà dove. Quella vittoria per lui non significava niente.

Non aveva ucciso Alec, né Razor. Non era stato lui a vendicare la morte di suo padre, né quella di Gebediah, né la distruzione di Sansea. Era un re, e non aveva fatto niente.

«Non è la mia vittoria, consigliere».

«È vostra quanto mia, invece. È di tutti coloro che hanno imbracciato un'arma, di ogni uomo e di ogni donna che sono morti e di tutti i sopravvissuti. Oserei dire che è la vittoria dell'intera Holtre».

Kamal sorrise, trasportato dall'enorme entusiasmo di Klethus. Dopotutto, il suo esercito era il più numeroso tra le fila dei ribelli, e lui aveva salvato Hemelya.

Poggiò una mano sullo spallaccio dell'armatura verde del consigliere del Leone, si passò l'altra tra i corti capelli biondissimi e gli rivolse uno sguardo fiero.

«La vostra felicità è contagiosa» gli disse, gonfiando il petto d'orgoglio e buon umore.

Klethus gli batté il palmo sull'avambraccio metallico, producendo un tonfo cupo, e camminarono così per qualche minuto fino a quando non oltrepassarono le porte distrutte di Olok, completamente dimentichi della stanchezza e del dolore, guidati dall'euforia e dall'adrenalina della vittoria.

«Tornate dal vostro re, Klethus, non fatelo attendere oltre» mormorò il re non appena arrivarono davanti all'accampamento. Il tono era leggero, pacato, e il consigliere non poté che allargare le labbra in un ampio sorriso, pieno di riconoscenza.

«Siete un brav'uomo, Sire». Gli rivolse un ultimo sguardo e poi corse in direzione del suo amato.

Lo raggiunse nella sua tenda che era ancora sporco di sangue e sudore, con l'armatura addosso. Non pensava di trovarlo da solo, ma fu felice di potersi avvicinare a lui senza il contegno che doveva mostrare in presenza di altri.

«Alec è morto, abbiamo vinto».

Il sovrano gli rivolse un gran sorriso, prese un panno dal baule e, con passo claudicante, si affrettò verso il suo consigliere e glielo passò sul viso. Klethus lo lasciò fare, beandosi della sua vicinanza e di quel contatto che gli era mancato come l'aria.

«Finalmente torneremo a palazzo, e quando arriveremo proclamerò un giorno di festa... ma che dico, una settimana! Questa vittoria va celebrata. – Seamus lo baciò velocemente, poi continuò – E spero che vogliate festeggiare insieme a me, consigliere. Ho un invito speciale per voi, nelle mie stanze».

«È sconveniente, Maestà. – osservò, sorridendo di sottecchi – Cosa penserebbe la corte di un tale comportamento?».

Il sovrano prese a sistemargli i capelli scompigliati.

«E noi non lo faremo sapere alla corte».

Si guardarono e risero, insieme. In quel momento non c'era spazio per l'angoscia o la paura, non c'era spazio per la dura realtà che avrebbero dovuto affrontare. C'erano solo loro due e la voglia di amarsi, di mandare via quei mesi di morte e di sangue.

Kamal, non appena Klethus si allontanò, si diresse immediatamente dall'unica persona che aveva voglia di vedere. Irruppe nella tenda di Hemelya come una furia e la vide seduta su un mucchio di coperte accatastate sul terreno, le ginocchia portate al petto e il viso nascosto tra di esse. La nuova regina di Shagos e della Terra dello Scorpione alzò il viso e gli sorrise tra le lacrime.

Era vivo. Sporco e sanguinante, ma vivo.

Si sollevò incerta sulle gambe, con il cuore che aveva ripreso a batterle dopo ore di inattività, e il re le venne incontro. Gettò di lato l'elmo che reggeva tra le braccia e azzerò in poche falcate la distanza che li separava; le afferrò il viso con entrambe le mani e la baciò con veemenza.

Nulla aveva più senso in quel momento. Né le buone maniere, né gli sguardi attoniti di coloro che assistevano alla scena. Le uniche cose importanti erano le dita tremanti che la regina gli pose prima sul collo, poi sulle spalle, scendendo sempre di più fino a cingergli la vita.

Kamal le accarezzò il volto, spostando delicatamente le mani dietro la nuca e sulla schiena, per premerla contro di sé quasi con foga, nella speranza che anche per lei quella fusione servisse a rimettere insieme tutti i frammenti della propria anima. E rimasero così stretti per secoli, finalmente interi tra le braccia dell'altro.

Nahil venne investito da un turbinio di capelli biondi che lo avvolsero completamente in un abbraccio dai mille significati, e lui ricambiò la stretta, sebbene fosse ben lontano dal provare il suo stesso entusiasmo. Allontanò da sé Korinna con delicatezza, asciugandole con la mano sinistra le lacrime che le rigavano le guance.

«La guerra è finita... dopo più di vent'anni, ho concluso ciò che io e tuo padre abbiamo iniziato insieme. Non potevo sperare in niente di meglio per vendicare la sua morte».

«La nostra missione non è ancora finita. – gli disse con uno strano luccichio negli occhi di ghiaccio – Olok è distrutta, i cittadini sono allo sbaraglio e non possiamo smettere di lottare fino a quando non riporteremo questa città ai suoi splendori. Credo che gli Elyse debbano rimanere qui per ricostruire la città; io, almeno, resterò».

Nahil le sorrise come un padre e le diede un bacio sulla fronte.

«Sei proprio come lui, Korinna. Ares sarebbe estremamente fiero di te, come lo sono io adesso. Tutti i ribelli che vorranno restare saranno liberi di farlo, e sono certo che Olok sarà più bella di prima, sotto la tua guida».

La ribelle gli sorrise e si allontanò per andare a dare la buona notizia ai compagni feriti che non avevano assistito alla vittoria. Non appena varcò la soglia della tenda, Nahil cancellò dal viso il sorriso tirato che aveva tenuto disegnato per tutto il tempo.

Si guardò il moncherino e provò uno strano dolore all'arto mancante, come se avesse ancora la mano destra attaccata al polso. Aveva parlato con tutti gli stregoni del campo, persino con Stenphield, ma nessuno di loro era in grado di ridargliela. Gli avevano spiegato che anche se la magia può creare dal nulla, non era possibile rigenerare la complessità del corpo umano. Poco importava; del resto, aveva preso la sua decisione molto prima di perdere la mano, e non sarebbe cambiato nulla.

Si allontanò dai suoi ribelli e camminò sulla neve affondandovi il piede per intero. Erano settimane che nevicava quasi continuamente, e l'aria gelida gli aveva graffiato il viso. Sollevò gli occhi verso il cielo del colore dell'alba e camminò fino a lasciarsi l'accampamento alle spalle.

Erano davvero passati più di vent'anni da quando aveva cominciato quella vita nomade per Holtre, addestrando giovani reclute e combattendo i soldati di Alec. Aveva passato metà dei suoi anni spinto da un obiettivo ben preciso e, adesso che era stato raggiunto, non sapeva più cosa fare. Ora che Ares era morto, lui non sapeva dove andare. Non aveva una casa a cui fare ritorno, né uno scopo per cui continuare a lottare. Forse, pensò, sedendosi ai piedi di un albero, era proprio la paura di rimanere senza un obiettivo ad averlo frenato negli ultimi mesi. Forse era proprio la consapevolezza del baratro che lo attendeva, del vuoto che lo avrebbe circondato, ad averlo spinto a rallentare l'avanzata degli Elyse.

Si tolse di dosso tutte le armi che era abituato a portare e si sentì stranamente leggero. Posò la spada a due mani che teneva legata alla schiena e che non avrebbe più potuto usare; prese lo stiletto che era appeso proprio sopra il cuore, e lo lasciò sprofondare nella neve; girò tra le mani il pugnale che nascondeva nello stivale e ne osservò le rifiniture erose dagli anni passati. Risaliva ai tempi in cui combatteva per Olok, per lo stesso re che gli aveva portato via ogni cosa ma che, allo stesso tempo, gli aveva dato un motivo per vivere.

Sollevò il capo e prese a fissare i rami nudi e appuntiti dell'albero su cui era appoggiato, poi abbassò gli occhi scuri sulla piccola lama che teneva in grembo.

Lo aveva già deciso. Non avrebbe più continuato a vagare per Holtre senza una meta, senza un obiettivo. Non avrebbe lasciato tempo alla solitudine di divorare tutto ciò che di buono c'era in lui, non avrebbe permesso che il dolore annichilisse l'uomo che era stato, non avrebbe concesso alla vita un altro giorno per continuare a tormentarsi per tutto ciò che non aveva fatto. Per non aver salvato suo fratello, per non aver guidato gli Elyse come lui avrebbe voluto, per non aver combattuto l'ultima battaglia, per non aver ucciso Alec con le sue stesse mani.

Afferrò l'elsa del pugnale con serenità, guardando la lama come una vecchia amica, poi la puntò contro il proprio petto. Volse gli occhi verso le tende dell'accampamento che si scorgevano in lontananza e riuscì a immaginare le grida di esultanza che lo riempivano da cima a fondo, e sorrise.

Andava bene così, era giusto così.

Prese l'ultimo respiro e, con lo sguardo ai suoi ribelli, si trafisse all'altezza del cuore. Solo un rivolo di sangue arrivò a macchiare la neve candida, mentre la mano che ancora reggeva l'arma vi sprofondava di qualche centimetro.

In quell'istante, in cui tutto sembra perdere valore di fronte all'ineluttabilità della morte, Nahil realizzò che aveva avuto una bella vita.

Aveva costruito la Resistenza dal nulla, aveva conosciuto uomini e donne di estremo valore, aveva riso di gusto, pianto di gioia e vissuto a pieno ogni giorno, con la consapevolezza di essere sempre dalla parte giusta. Aveva dato un posto da chiamare casa a molti ragazzi, gli aveva dato un motivo per lottare, gli aveva dato speranza. Aveva avuto speranza. E questo era molto più di ciò che avrebbe mai potuto immaginare.

E sorrise.

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