Capitolo 48: Parte 1 - Spire di vendetta
Il soldato che avvisò il Sommo Re della fuga di Hemelya e Minerva non vide la luce del giorno seguente.
Avevano fatto avanzare i nemici fino alla terza strada.
Aveva perso gli stregoni.
Erano braccati dentro al castello.
Come aveva fatto a sfuggirgli tutto? Aveva programmato ogni cosa per settimane, e nulla era andato come si era prefigurato. Quel pensiero lo riempì di collera, e strinse convulsamente l'elsa della spada che aveva ricominciato a portare alla cintola dopo gli ultimi sviluppi della guerra.
Uscì dalle proprie stanze come un fulmine, incurante delle occhiate spaventate che gli rivolgevano i servi mentre attraversava il corridoio e scendeva le scale per raggiungere l'avamposto dei soldati dello Scorpione. Quando lo videro arrivare, calò un silenzio innaturale e nessuno si mosse.
Tranne uno.
Kelys si avvicinò al re e fece un mezzo inchino. Era più sollevato da quando aveva appreso la notizia della liberazione della sua regina, ma quella visita non gli piaceva per niente.
«Sommo Re» lo accolse con un finto tono reverenziale.
«Vorrei parlavi senza il pericolo di orecchie indiscrete».
Il generale di Minerva annuì brevemente e lo scortò fino alla propria tenda, montata più a nord rispetto agli alloggi dei militari di Olok.
Nel breve tragitto che li separava dalla meta, l'uomo si ritrovò a pensare a quanto sarebbe stato semplice per lui piantare la spada nello stomaco del re, di come avrebbe potuto agilmente occultarne il corpo, del modo in cui avrebbe potuto porre fine alla guerra. Ma non poteva, non erano quelli gli ordini della sua regina. Entrarono, e il generale fece accomodare il sovrano in una vecchia e sbilenca panca di legno.
«Ho pensato molto a come fermare i nostri nemici, e ho ideato un'offensiva» cominciò il re senza ulteriori indugi.
Kelys si fece attento, nella testa iniziarono a risuonare le parole di Minerva, prima che tornasse a palazzo e venisse imprigionata: "Qualunque cosa succeda, dovrete portare a termine il vostro compito. Quando la Resistenza arriverà nei pressi del castello, disertate le Armate Nere e combattete con loro".
«Voi e i vostri uomini prenderete i civili che sono rinchiusi nelle segrete e li porterete nel campo di battaglia. In prima fila».
L'uomo strabuzzò i piccoli e attenti occhi scuri per la sorpresa. Quella era l'ultima cosa avrebbe potuto immaginare.
«Ma, Sire... cosa dovrebbero fare in mezzo ai soldati? Non possiamo farli combattere».
Le sottili labbra di Alec si allargarono in un sorriso poco rassicurante.
«Oh no, li metterete in prima fila così che si rendano conto dei mostri che il loro Sommo Re è stato costretto ad affrontare. La Resistenza dovrà ucciderli tutti se vorrà davvero arrivare al castello».
Il generale cercò di nascondere in ogni modo il sentimento di disgusto che stava provando, e rimase banalmente in piedi sull'attenti a fissare la follia disumana che brillava negli occhi di Alec. Neppure la durezza della guerra era paragonabile a ciò che aveva di fronte.
«Manderò un manipolo di miei uomini a prendere i civili» disse poi con la bocca asciutta.
Il re parve crederci e lo raggiunse azzerando la distanza che vi era tra loro, guardandolo da un punto leggermente più in basso rispetto alla linea degli occhi del suo interlocutore.
«Portatemi la testa della vostra falsa regina. È un ordine» lo ammonì prima di uscire. Kelys si inginocchiò battendo il pugno sul cuore.
Hemelya teneva le palpebre chiuse, le ultime ore erano state piene di avvenimenti inaspettati e lei si sentiva tremendamente stanca e dolorante. Kamal era venuto a salvarla rischiando tutto, rischiando la guerra. Ricordò il momento in cui aveva alzato lo sguardo e aveva incontrato i suoi occhi blu che, nella penombra delle segrete, le erano parsi brillare come torce nella notte. Il cuore prese a batterle più velocemente, non più mosso da paura e angoscia ma da un sentimento che le cresceva dentro ogni attimo di più.
Poteva dire di amarlo? Aveva provato qualcosa che aveva creduto fosse amore in passato, ma quel ricordo impallidiva di fronte all'impeto che sembrava spingerla verso il re della Terra del Pesce sin da quando aveva lasciato Lasion insieme a lui.
Si stava lentamente riprendendo dalle botte ricevute, le ferite del corpo guarivano in fretta grazie all'aiuto degli stregoni, ma erano quelle invisibili a farla soffrire maggiormente. Le capitava a volte di svegliarsi nella notte con la sensazione di essere ancora colpita dalle mani ruvide di Razor, e spesso sussultava credendo di scorgerlo tra i soldati, con gli occhi pieni di tutto quell'odio che l'aveva quasi uccisa.
«Tesoro, come stai?». Minerva la raggiunse dopo che i sacerdoti si erano presi cura di lei, e si avvicinò alla figlia quasi in punta di piedi per paura di urtarla in qualche modo. Quando sentì la sua voce, la principessa si girò e finalmente aprì gli occhi scuri e gonfi sforzandosi di sorriderle, quantomeno nel tentativo di alleviare la colpa che sapeva sua madre stava provando.
«Andrà meglio».
Sembrava una bambina indifesa, con la voce sull'orlo del pianto e l'espressione spaventata. Minerva ricordò con il cuore stretto in una morsa quante volte le aveva sentito pronunciare quelle parole. Era sempre stata vivace, e inciampava spesso durante i suoi giochi in giardino a palazzo, ma adesso però non erano tra le mura sicure di Shagos, e quelle non erano semplici ginocchia sbucciate. Si trovavano lontane da casa, in mezzo a una guerra sanguinosa, e lei non poteva più guarire le sue ferite tenendola semplicemente stretta a sé, mentre la rimproverava amorevolmente.
«Lo so che fa male, tesoro, ma tu sei forte». Cercò di trasmetterle un po' di speranza accarezzando i capelli che la figlia teneva sciolti per coprire i lividi, poi però la mano le si irrigidì di colpo riconoscendo la voce boriosa che si udiva al di fuori della tenda.
«Madre, ti prego. Lui mi fa sentire felice» tentò la ragazza, intuendo il motivo dell'espressione torva che le aveva segnato il viso. La regina ritrasse il braccio e prese a massaggiarsi le tempie. Aveva ancora dei rancori in sospeso con la Terra del Pesce, e non riusciva a sopportare che il figlio dell'uomo che le aveva portato via ogni cosa potesse essere così vicino alla sua famiglia.
«Se tu avessi conosciuto suo padre, capiresti».
La principessa si mise a sedere con fatica in modo da poter guardare la madre dritta negli occhi.
«Kamal non è Teodor. Quella storia è finita tanto tempo fa, ed è ora che superi tutto l'odio che ti sei trascinata dietro da allora. Kamal era pronto a morire per salvarci! Lui mi ama, e... e anch'io provo lo stesso».
La risposta di Minerva venne interrotta dall'ingresso del re, che raggiunse la principessa ignorando completamente la regina, spostandola bruscamente di lato.
«Hemelya, come state?» le chiese accorato, senza nemmeno sfiorarla per paura di farle male.
«Siete estremamente simile a vostro padre» ribatté la sovrana a denti stretti; l'antipatia che provava per lui non era stata minimamente intaccata dal salvataggio. Il re la guardò come se la vedesse per la prima volta.
«Sono lieto di costatare che almeno voi siate illesa».
Minerva serrò la mascella per evitare di sbraitargli contro. Era la bionda copia esatta di quel farabutto di suo padre.
«Riposati, ne riparleremo» disse piano rivolta alla figlia, e si allontanò da lì con il collo e il petto chiazzati di rabbia.
Kamal rimase ancora qualche istante prima di andare via, non riusciva ad allontanarsi da lei adesso che l'aveva ritrovata, ma l'indomani lo aspettava la guerra e aveva bisogno di riposare. Era ancora un po' dolorante dopo lo scontro feroce con le guardie del castello di Alec, aveva rifiutato qualsiasi intervento magico e i lividi sullo zigomo e sulle spalle stavano lentamente esaurendo il loro percorso passando da un intenso blu al viola, per terminare con un malsano giallo-verde.
Aveva insistito molto con i suoi generali, che lo avevano atteso poco lontano dalla tenda in cui si era risvegliato, ma era riuscito a convincerli che lui era pronto per combattere, che ce l'avrebbe fatta. A guidarlo in quella guerra sarebbe stato l'odio atavico che provava nei confronti di Razor, l'uomo che gli aveva portato via un fratello e che aveva osato fare del male alla sua Hemelya. Da quando aveva finalmente saputo il nome del verme che le aveva messo le mani addosso aveva rivissuto la morte di Gebediah in un incubo continuo, sentendo la collera crescergli in petto come un demone. Lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani.
Raggiunse il piccolo alloggio di stoffa rossa che lo avrebbe ospitato quella notte, e portò le braccia dietro la testa sullo scomodo giaciglio poggiato sopra la neve: l'umidità lo aveva impregnato quasi totalmente e il re sapeva che gli sarebbe rimasta poco più di un'ora prima che si inzuppasse completamente e gli bagnasse i vestiti.
Aveva gettato l'armatura in un angolo, i suoi servitori si erano affaccendati nel pulirla per proteggerla dalle infiltrazioni e dalla ruggine, ma senza il velo di sangue e fango di cui era stata incrostata, riusciva a vedere tutti i tagli e le ammaccature che la costellavano. Si voltò dall'altro lato, dando le spalle a quell'ammasso di ferro che gli ricordava quanto fosse stato vicino alla morte, e si ritrovò invece a sorridere: Hemelya era al sicuro, era questo ciò che contava, e lui l'avrebbe presto portata a vedere il mare come le aveva promesso.
Un piccolo bagliore catturò l'attenzione della regina: veniva da una tenda malmessa che conosceva bene ed entrò senza formalità.
Nahil se ne stava curvo su dei fogli di pergamena scritti a mano da una grafia stretta e sottile, e fissava immobile diverse mappe. Quella più grande rappresentava l'intera Olok, su cui il comandante aveva apposto dei segni per rimarcare la loro zona di conquista e ciò che restava da attaccare. Alzò la testa non appena sentì il fruscio della stoffa nella speranza che fosse Christopher, ma era ormai un giorno intero che non lo vedeva e iniziava a temere che avesse realmente abbandonato gli Elyse e che lo avesse lasciato solo. Come poterlo biasimare, del resto: lui aveva tentato di sabotare i suoi stessi uomini!
«Non avete ancora incontrato il nuovo generale?»
Il comandante scosse la testa e respirò profondamente alzando il viso verso il tetto. Non avrebbe potuto farcela senza di lui, non aveva più la forza di dare un senso e un significato alle carte che gli stavano davanti. Non era più in grado di essere il capo che suo fratello avrebbe voluto che fosse, e si sentì inutile e vigliacco.
«Temo che non verrà, e io non riesco nemmeno a essere in collera con lui. Non mi aspettavo che le cose sarebbero precipitate così in fretta, e adesso mi ritrovo da solo di fronte a una guerra per cui non mi sento ancora pronto»
«Era questo che intendevo quando vi ho avvisato quel giorno dopo gli scontri a Naos. Vi avevo detto che dovevamo prepararci, e adesso è arrivato il momento di porre fine alla Grande Guerra» gli disse risoluta.
«Non possiamo resistere ancora per molto in queste condizioni. Temo le prossime mosse di Alec, e almeno finché il vostro esercito non si svelerà, sarà tremendamente difficile» rispose lui passandosi la mano sul viso.
La regina lisciò l'umile gonna marrone mossa dal vento gelido che entrava dai lembi di stoffa aperti. Gliel'avevano fatta indossare al suo ritorno dal Real Castello al posto della sottoveste lacera che si ritrovava, e adesso nulla sembrava distinguerla dalla contadina che per tutta la vita si era ostinata a non essere.
«Kelys conosce i miei ordini. Vinceremo questa guerra». La sicurezza della sua voce non tradiva affatto l'ansia che le cresceva in petto. Aveva paura che Alec avesse scoperto i suoi piani, aveva paura di perdere la guerra, e aveva paura di lasciarsi sfuggire ancora una volta tutto ciò che si era faticosamente ricostruita dopo il Concilio di molti anni prima.
Era ormai notte avanzata quando si congedò dal comandante degli Elyse, ma quasi nessuno dormiva. Del grande focolare non restava che qualche fiamma e il solito tanfo di morte che si porta dietro la guerra.
Enora era rimasta lì ferma per un tempo indefinito nel vano tentativo di mettere a tacere la collera che provava verso Alec, verso suo padre e verso sé stessa. Guardava le ultime fiamme che andavano spegnendosi, la brezza fredda di inizio inverno le solleticava la nuca mentre era immersa nei suoi pensieri. Qualcosa la distrasse: da una tenda sentì lo stridio di due lame che si incontravano. Sapeva dove andare.
Arrivò alla tenda del nuovo generale nella silenziosa speranza di trovarlo lì, scostò leggermente un lembo di tenda per vederne l'interno e lo vide mentre affilava la spada. Stava per andarsene quando la sua voce autorevole la sorprese.
«Puoi entrare». Christopher non era mai andato via. Aveva realmente raccolto tutte le sue cose dopo la discussione con Nahil, non riusciva a perdonare il modo in cui aveva deciso di mandare tutto all'aria, ma sua figlia era lì, e il re ancora al suo posto. Così si era fermato a pochi passi dall'ultima tenda dell'accampamento, aveva osservato tutti i ragazzi e i soldati che si erano affidati a lui e, alla fine, aveva ripercorso a ritroso la strada verso quella che ormai definiva casa.
Enora entrò, si sedette sul suo scomodo giaciglio di paglia e lana, e per qualche minuto lo osservò lavorare. Lui smise dopo un po', non voleva interrompere quei rari momenti in cui non litigavano, e si girò verso lei passandosi un panno sulla fronte.
«Vuoi dirmi qualcosa?»
La ragazza lo osservò immobile ancora per qualche istante, poi rispose.
«Il comandante non ci ha ancora comunicato la strategia da adottare, mi chiedevo se ci avessi parlato».
«Sai qual è il mio pensiero al riguardo» la interruppe bruscamente.
«Sì, che lo so! Nahil mi ha detto tutto, ma so anche che se non avessi preso tu il suo posto nessuno ne sarebbe stato in grado. Hai accettato di farlo, non puoi lasciarci allo sbaraglio solo perché sei arrabbiato con lui». Tutti sapevano che cosa era successo, ma quello non era un buon motivo per abbandonare il lavoro di una vita.
Il generale ascoltava attentamente, si rendeva conto che aveva ragione ed era combattuto sul da farsi, a metà tra l'orgoglio di rimanere dov'era e la voglia di riuscire insieme a distruggere quel farabutto di un re che aveva portato via così tanto a ognuno di loro. Enora capì cosa stava pensando, e prese lei la decisione anche per lui.
«Molto bene, è la scelta migliore. ̶ disse sorridendo soddisfatta ̶ Aspettami, torno tra un attimo» aggiunse, e poi uscì di fretta immergendosi nella gelida aria invernale. Respirò lasciandosi carezzare dalla brezza della notte e cominciò a camminare.
Raggiunse la tenda di Nahil e lo trovò intento a ragionare sulle carte della città, la regina Minerva era appena andata via.
«Olok non cambierà se continui a fissarla, conosci a memoria questo posto».
Lui la guardò senza dire nulla.
«Dobbiamo andare dal nuovo generale: ha deciso di aiutarci» continuò lei.
«Era ora! Pensavo volesse farci morire tutti». Prese le carte e la seguì fuori, gli occhi scuri segnati da profonde occhiaie.
Entrarono senza aspettare un invito e si sedettero di fronte a Christopher. Il comandante gli porse le pergamene riempite di fitte righe scritte in fretta e scarabocchi.
«Che vuoi fare con queste?» domandò accigliato. Si era aspettato che Nahil avesse pensato a qualcosa durante la sua assenza, e invece si presentava da lui con quel mucchio di carta straccia come se potesse controllare l'evolversi della guerra con dei ridicoli fogli scritti da un ragazzino. Evidentemente, era davvero il guscio di ciò che era stato un tempo.
«Voglio ideare una strategia. Con le informazioni di Whyle magari possiamo inventare qualcosa di nuovo che possa cogliere Alec alla sprovvista» gli rispose come se fosse abbastanza ovvio.
«Ma sei impazzito? ̶ urlò l'altro scattando in piedi ̶ Non c'è tempo per studiarne una esistente, figurati idearne una tutta nuova!»
«Ho cercato di pensare a qualcosa che ci impedisca di morire tutti, Christopher. Non mi importa vincere o perdere, voglio solo far sopravvivere quante più persone possibili, anche a costo di ritirarci».
«Hai idea di quanto sia importante questa battaglia?» mormorò piano l'uomo dagli occhi verdi, le spalle basse per la stanchezza di sentirlo sempre più spesso parlare in quei termini.
«Lo è per tutti. Non hai perso qualcuno solo tu».
«Sì, ma io sono andato avanti» replicò il nuovo generale andando via. Aveva sbagliato a tornare, quello che aveva di fronte era un uomo che aveva smesso di vivere molti mesi prima. La morte di suo fratello lo aveva devastato e lo aveva trasformato in un uomo vuoto.
Enora si alzò a sua volta.
«Dopo la morte di Ares sembra che non ti importi più di nulla, nemmeno della tua stessa vita. Adesso che possiamo finire tutto questo non puoi arrenderti così o sperare che qualcuno assolva i tuoi doveri».
Lo lasciò solo con le sue carte, il comandante si passò nuovamente una mano sul viso e respirò forte. Doveva reagire.
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