Capitolo 46 - Parte 2: La diciassettesima strada
Nahil aveva passato la notte precedente ad aiutare i guaritori con i feriti: erano in tanti tra civili e soldati, ma i morti erano di più. I cadaveri che venivano bruciati ogni sera gli davano un senso di oppressione che gli stringeva il petto in una morsa che non lo lasciava andare. Stavano portando al massacro migliaia di giovani, uomini e donne, e lui se ne sentiva responsabile. Non erano pronti a quella guerra, nessuno lo avrebbe convinto del contrario, e vincerla avrebbe richiesto un prezzo altissimo.
Quella mattina uscì dalla tenda in cui era solito ritirarsi, con un motivo ben preciso: voleva salvare quante più vite gli fosse stato possibile, così che almeno qualcuno si salvasse da quello scempio. Era ingiusto che combattessero una guerra che non gli apparteneva e se avesse saputo tutto questo non avrebbe mai acconsentito a creare gli Elyse, gli avrebbe salvato la vita.
Guardò dritto davanti a sé verso i cancelli, dove alcuni soldati erano stati lasciati di guardia per bloccare i nemici in fuga e ucciderli, e realizzò che non avrebbe potuto sopportare un'altra sola morte.
Una forte presa alla spalla lo costrinse a fermare la sua folle camminata.
«Io e Seamus siamo nella direzione opposta».
Nahil era sinceramente stupito di vedere Christopher lì, ma non si sarebbe fatto fermare.
«Andavo verso i cancelli, dalle guardie». Il tono di voce era piatto e non tradiva nessuna emozione.
«E perché? Non avevamo ordini da dargli».
Nahil scrollò la spalla per liberarsi dalla presa, e il generale lo guardò come se avesse davanti a sé un perfetto sconosciuto.
«Voglio salvare la vita a quei ragazzi. Non posso farlo con tutti, lo so, ma almeno loro possono ancora scappare e tornare dalle loro famiglie».
«Ma di che stai parlando? Sono i nostri soldati e tu non gli dirai di scappare!»
«Come fai a essere così egoista? Io adesso ho compreso lo sbaglio che abbiamo fatto. Quando Ares è morto, ho aperto finalmente gli occhi. Dobbiamo salvare questi ragazzi, rinunciare a tutto».
Il generale strinse il pugno, le nocche divennero bianche e si trattenne dal non colpire l'amico in pieno viso.
«Io ho rinunciato alla donna della mia vita. Io ho rinunciato a mia figlia! – gli urlò a un palmo dal naso, tenendolo per il colletto del mantello che si era gettato addosso – Ho accettato questo incarico perché credevo avessi bisogno di me, di qualcuno su cui riporre la tua fiducia per ritrovare un briciolo di rispetto verso te stesso, e tu adesso stai rinnegando tutto».
Il comandante dei ribelli si tolse bruscamente le mani di dosso e recuperò una certa distanza tra loro.
«Mio fratello non avrebbe mai voluto tutti questi sacrifici».
Christopher gli indirizzò il pugno chiuso dritto sul naso, incapace di trattenersi oltre, lasciandolo cadere indietro senza dargli neppure il tempo di difendersi.
«Tuo fratello si vergognerebbe di te, non lo capisci?»
Nahil si alzò da terra massaggiandosi il viso senza nessuna ombra di collera, gli voltò le spalle e proseguì nel suo tentativo di sovvertire gli Elyse.
«Non ho intenzione di restare a guardare mentre ti piangi addosso. Fa' quello che ti pare, ma non contare più sul mio appoggio. Rinuncia pure a questa guerra e rendi vani i sacrifici di Yler, di Isidora, di Ares, di Etios...»
Ogni nome che pronunciava per Nahil era come ricevere un pugno allo stomaco. Quanto dolore si erano lasciati alle spalle per inseguire un'ideale di libertà e giustizia? Eppure, non si erano fermati.
Se la morte di suo fratello aveva avuto un senso, di certo non poteva essere quello di rinnegare tutto il cammino che avevano percorso insieme negli ultimi vent'anni. Christopher aveva ragione. Non poteva arrendersi proprio ora. Si rese conto solo in quel momento della piega che aveva assunto la sua vita dalla sua perdita: si era lasciato andare ma, soprattutto, aveva abbandonato gli Elyse e aveva deluso il progetto che per metà della vita aveva condiviso con Ares. Si fermò, ma l'orgoglio gli impedì di richiamare il generale che era tornato indietro a grandi falcate.
Non era sicuro che lo avrebbe rivisto.
Danker non ne poteva più di fingere. Aveva raccontato il reale svolgersi degli eventi soltanto ai generali degli Elyse e al re Seamus, chiedendo loro di non accennare nulla a Enora fino a quando non fosse stato lui a decidere che fosse il momento giusto. Non aveva avuto il coraggio di raccontarle la verità la sera in cui era tornato dal Real Castello, e non era neppure riuscito a guardarla negli occhi per tutto il giorno seguente. Gli bruciavano nella testa le parole che avrebbe dovuto dire per rivelarle tutto ciò che ancora non sapeva, e si aggirava confuso sul terreno fangoso cercando tra la neve il coraggio che non riusciva a trovare in sé stesso.
La voce di Nahil gli risuonò ancora nella testa. Era stato l'unico a non essere d'accordo con la sua scelta di attendere prima di far sapere a Enora ciò che era successo a suo fratello: gli aveva detto che la notizia l'avrebbe cambiata visceralmente, ma che lei meritava di sapere.
Strofinò tra loro le mani esposte al gelo per recuperare un po' di calore e si diresse verso sua figlia con i battiti accelerati.
Enora, seduta accanto a un piccolo focolare, stava preparando l'ennesimo impasto di menta e altea per il trattamento dei feriti ustionati, e Nayél accanto a lei la aiutava a triturarlo. Mancava ancora qualche ora alla ripresa dei combattimenti e nessuno sembrava in vena di riposare, tenendosi nervosamente impegnato in qualunque cosa non contemplasse la presenza di un'arma.
Le si sedette accanto e per un attimo la osservò senza dire nulla. Si era perso così tante cose di lei, sembrava quasi non conoscere più la donna che gli stava di fianco tanto era diversa dalla ragazzina spaurita che aveva lasciato quel luogo quasi due anni prima.
«Avevi detto che finché saresti rimasto al castello, a Noor non sarebbe capitato nulla».
La voce della figlia gli arrivò da dietro la sua schiena: non si era voltata verso di lui e continuava a pestare le erbe con un vigore non necessario. L'uomo si passò le mani sul viso stanco: quella pantomima era durata fin troppo.
«Credo tu abbia capito cosa sono venuto a dirti».
Nayél fece per andarsene, sapeva perfettamente cosa sarebbe accaduto e voleva lasciargli un momento per parlare, ma lei lo fermò per un polso guardandolo con un'espressione così smarrita che nulla aveva a che fare con la durezza del tono che aveva assunto poco prima. Quegli occhi lo supplicarono di restare, e lui obbedì.
«Voglio sentirlo da te. Voglio che tu mi dica quelle parole» disse lei rivolta al padre.
«Noor è morto. È stato torturato perché il re voleva da lui informazioni sulla Resistenza, ed è stato ucciso perché sono fuggito dal Real Castello per consegnare le strategie militari dell'Esercito Nero».
La pesantezza di quelle frasi tenne inchiodata la ribelle al terreno impedendole di fare qualunque cosa. Interruppe il movimento del pestello con cui aveva triturato ossessivamente le erbe mediche, e alzò lo sguardo verso Nayél mentre delle lacrime silenziose le rigavano il volto, desiderando di annegare nell'azzurro degli occhi che aveva davanti.
«Ti prego, guardami, figlia mia».
Lei asciugò in fretta le guance umide con il dorso della mano e lo guardò per la prima volta.
«Non sono tua figlia» sputò tra i denti, pentendosene immediatamente. Ma la morte di Noor era colpa sua, e lei poteva perdonarglielo: non avrebbe dovuto lasciarlo da solo tra gli artigli del nemico.
Danker incassò il colpo, non le chiese nemmeno come facesse a saperlo o se avesse scoperto chi fossero i suoi genitori, si limitò a rimanere immobile a fissare i movimenti ipnotici del fuoco che aveva davanti.
«Non potevo prevedere che...»
Enora si alzò in piedi e gettò furiosa il pestello che stringeva ancora nella mano, facendolo schiantare contro i tocchi di legno ardenti alla sua sinistra.
«Tu avresti dovuto proteggerlo! Lui si fidava di te, e tu lo hai tradito!»
Quelle parole erano in realtà rivolte più a sé stessa che all'uomo che aveva davanti. Dalla scomparsa di Noor non aveva fatto altro che condannare sé stessa, sentendosi in colpa per ogni singolo momento felice che aveva vissuto da allora. Avrebbe dovuto essere più veloce, più forte, più attenta, avrebbe dovuto correre da lui immediatamente per andare a salvarlo, e forse niente di ciò che era successo sarebbe accaduto. Scoppiò in lacrime senza riuscire più a fermarsi, sorretta dalle forti braccia di Nayél che l'avevano avvolta per darle conforto.
Era colpa sua se suo fratello era morto, era solo colpa sua.
Sarebbe entrata in quel maledetto castello e avrebbe ammazzato Alec con le sue stesse mani, fosse anche l'ultima cosa che avrebbe fatto in tutta la sua vita.
Si disimpegnò dalla stretta del suo ragazzo e si diresse verso l'enorme mole di soldati del Pesce per unirsi alla marcia che dava il via a un nuovo giorno di battaglia, sfoderando la spada che aveva tenuto attaccata alla schiena per tutto il tempo.
Avrebbe combattuto impugnando l'arma, assaporando la crudeltà dello scontro fisico; aveva bisogno di sfogare tutta la rabbia che sentiva dentro e voleva battersi contro un nemico che poteva toccare: voleva sentire la lama trafiggere la carne, il rumore assordante della vita che lascia il corpo, il freddo umido del sangue che copre tutto con il suo colore impenetrabile.
Nayél impugnò arco e frecce e la seguì subito dopo, lanciando solo uno sguardo rapido all'uomo affranto che era ancora seduto di fronte a un fuoco che non riusciva più a scaldarlo. Gli rivolse un laconico "Capirà" e corse verso gli alleati, con la faretra incantata per non rimanere mai più senza munizioni. Cominciò a correre insieme a un manipolo di suoi sottoposti che erano tornati all'accampamento fuori le mura e, raggiunta la linea di conquista all'interno di Olok, si arrampicò con loro sopra i tetti cadenti delle case, per riuscire a ottenere la visuale migliore e scoccare con più precisione.
Un soldato dall'Armatura Nera cercò di colpire Enora alla schiena ma lei si girò in tempo evitando l'affondo e parando il colpo successivo, che la raggiunse con estrema velocità. Spinse con forza verso di lui quando le loro spade si incrociarono, costringendolo a indietreggiare e facendogli perdere l'equilibrio grazie a un piccolo trucchetto che le aveva insegnato l'elfo. Da quella posizione fu facile per lei affondare l'arma già intrisa di morte nello stomaco del nemico, e il sangue imbrattò il terreno ancora una volta, inesorabile.
Un tonfo sordo dall'alto le fece alzare lo sguardo. Non vide nulla inizialmente, poi si accorse di ciò che non aveva notato. L'arco di Nayél era sul tetto di un'abitazione parzialmente distrutta, in bilico, ma del ragazzo nessuna traccia.
Enora si allarmò, il fiato ancora grosso per lo scontro appena terminato; posò l'arma nel supporto legato alla schiena e cominciò a cercarlo spasmodica nella strada che sembrava deserta. Non avrebbe perso anche lui.
Un verso roco la condusse nella direzione giusta, portandola all'interno della casa da cui pendeva l'arma del ribelle, ritrovandolo steso per terra e riverso su un fianco. Immobile.
Corse verso il ragazzo con il panico che le montava in corpo, ma con suo grande sollievo si rese conto che respirava. Lo strattonò delicatamente e lui riaprì gli occhi con estrema fatica, completamente ricoperto di calcinacci.
«Come stai?»
Le parole di Enora gli arrivarono attutite alle orecchie, non riusciva a capire dove si trovasse né ricordare cosa fosse successo. Si guardò intorno con ancora la schiena sul pavimento duro, mentre con le mani si sfiorava la testa nel punto in cui gli doleva. Si guardò la mano, scoprendola macchiata di sangue, e capì di essere svenuto per qualche minuto, poi provò ad alzarsi reggendosi sul braccio e un dolore netto gli riportò alla mente tutto ciò che aveva dimenticato.
Quando era salito sul tetto di quella casa aveva notato subito che non era stabile, ma era il punto più alto che aveva trovato e da lì riusciva ad avere una visuale ampia. Aveva abbattuto subito due arcieri nemici scagliando le frecce velocemente, aveva poi spostato lo sguardo in strada, dove un piccolo gruppo di ribelli combatteva contro un numero superiore di soldati nemici, e ne aveva trafitto qualcuno facilitando lo scontro. Poi ricordò che si era distratto per controllare dove fosse Enora, e mentre stava incoccando una freccia per colpire un soldato nemico, una stretta alla caviglia gli aveva fatto perdere l'equilibrio e il bersaglio. Un soldato dell'Armata Nera aveva cercato di buttarlo giù, ma lui gli aveva puntato l'arco dritto in mezzo agli occhi e aveva scagliato una freccia che gli aveva trapassato il cranio senza nessuna difficoltà. Aveva poi spostato il piede su un appoggio instabile ed era precipitato, riuscendo tuttavia ad attutire il colpo grazie a un appiglio che ne aveva rallentato la caduta. Il prezzo che aveva dovuto pagare per non essersi scaraventato al suolo, però, era l'enorme taglio che gli lacerava il bicipite e una botta in testa per aver colpito il pavimento.
Si alzò con fatica, e solo allora si rese conto del volto preoccupato di Enora. Gli sembrò che lei dicesse qualcosa ma la testa non smetteva di fargli male, i suoni della battaglia sembravano lontani, e rendevano tutto confuso. Doveva mettersi al riparo, non era in grado di combattere e sarebbe andato incontro a morte certa.
«Stai bene?»
Un fischio alle orecchie portò con sé anche tutti gli altri suoni, e la voce di Enora lo raggiunse con tutta la sua intensità. Nayél le rivolse uno dei suoi soliti sorrisi.
«Mi ero stufato di stare lì sopra e volevo fare un giro di ricognizione a terra. Mi sa però che la mia entrata trionfale è stata un fiasco, non credi?»
Enora lo guardò seria, senza però riuscire a nascondere la curva della bocca che tendeva verso l'alto, dettata dal sollievo di vederlo sano e salvo, più o meno. Gli tasto piano il braccio destro per osservare meglio la ferita da cui il sangue aveva smesso di sgorgare e con un rapido gesto della mano fece richiudere i lembi di pelle, poi guardò con aria critica la sua testa rossa, ma lui si allontanò delicatamente.
«Come vedi, non è niente che non possa guarire. Devo riprendere il mio arco».
Roteò il braccio appena ricucito per riacquistare la sensibilità e scacciare via il dolore che ancora lo pervadeva per intero, e si inerpicò agilmente sul tetto della casa recuperando ciò che aveva perduto.
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