Il sorgere del sole illuminò l'accampamento ribelle già in pieno fermento. Dopo il rapimento della principessa nessuno aveva più avuto il coraggio di dormire, in un continuo via vai tra il distaccamento fuori le mura e i presidi conquistati all'interno della città. I ribelli non si erano fermati un attimo nelle ricerche ma non avevano trovato nessuna traccia di Hemelya, confermando l'ipotesi che fosse stata condotta al castello contro la sua volontà.
Fuori dal muro di cinta, a ovest dei cancelli della Capitale, si ergevano sparute delle piccole tende che durante i primi giorni di battaglia erano state invase dai civili in cerca di cure e che adesso, invece, erano utilizzate dai ribelli con le ferite più gravi. Quasi tutti i cittadini erano infatti riusciti a scappare e a trovare rifugio altrove, o almeno questo era ciò che continuava a ripetersi Arkara.
Era stata costretta a non partecipare ai combattimenti e, per evitare di impazzire nell'impotenza e nella rabbia in cui crogiolava dai giorni dell'imboscata, aveva deciso di rendersi utile con i civili. Prima dell'assedio, infatti, Mylene aveva portato avanti con convinzione l'idea di dover proteggere tutte le persone che quel folle di Alec aveva voluto condannare a morte certa, negandogli la possibilità di fuga e costringendoli all'interno delle mura di una città che sarebbe stata assediata di lì a breve. Non aveva trovato opposizioni né nei capi della Resistenza né in Seamus, che aveva appoggiato calorosamente la sua proposta sfruttandola per ingrossare ulteriormente le loro fila di tutti coloro che volevano vendicarsi per il trattamento subito. Erano quindi sorte le piccole tende rosse che si potevano facilmente riconoscere in mezzo alla vegetazione completamente distrutta dall'enorme mole di ribelli che vi alloggiavano, dando il via a un vero e proprio calvario sin dall'apertura dei cancelli.
I primi civili a giungervi erano stati i più sfortunati. Erano appostati dietro le porte in legno della città a urlare di essere liberati quando l'esplosione causata da Stenphield li aveva colpiti in pieno. L'afflusso dei feriti gravi era scemato già dopo i primi giorni, e si erano dovuti occupare di un'ingente mole di persone che, sebbene fossero per lo più fisicamente sane, avevano raccontato vere e proprie atrocità. I soldati di Alec, a quanto sembrava, avevano avuto ordine di non fare scappare nessuno e di falciare chiunque superasse la loro linea di schieramento, tacciandolo come spia e accusandolo di portare informazioni preziose al nemico di Holtre. Neppure i bambini venivano esclusi da questa punizione, e la giovane ribelle dai capelli rossi era rimasta sconvolta dalla quantità di sofferenza che gli uomini potevano infliggere a creature così indifese.
Arkara si dava da fare instancabilmente e, sebbene la sua gamba non le permetteva di rimanere in piedi a lungo, aveva trovato un modo per muoversi agilmente da una parte all'altra dell'accampamento per trasportare medicine e informazioni. Era stato Flynn ad avere l'idea, il soldato della Terra del Toro che l'aveva protetta ai monti del Nord, presentandosi il giorno dopo l'imboscata con una sedia rotta e le ruote rimaste intatte dei carri distrutti. Aveva fatto il falegname insieme a suo padre prima di decidersi ad accettare l'invito del precedente Sovrano Rotghar e arruolarsi nell'esercito reale, e così dopo qualche ora di lavoro le aveva consegnato orgoglioso la sua sedia a rotelle. Era proprio per lui che in quel momento arrancava con le ruote tra la neve cercando di arrivare in fretta da Mylene, la sacerdotessa con doti curative che si occupava dei feriti sin dagli albori degli Elyse.
Il soldato della Terra del Toro, infatti, era rimasto coinvolto nelle esplosioni magiche dell'assedio, e aveva riportato delle ustioni al volto e alle braccia che gli avevano fatto perdere conoscenza per un giorno intero. Lei gli era rimasta accanto, profondamente riconoscente per tutto ciò che quello sconosciuto aveva fatto per lei negli ultimi giorni, sentendosi quasi in dovere di ricambiare adesso che era lui ad averne bisogno. Arkara, però, non aveva la benché minima idea di come potersi rendere utile in quella situazione, e si era quindi limitata ad ascoltare pedissequamente tutti i dettami di Mylene per prendersi cura del ragazzo nel migliore dei modi, percorrendo il campo in lungo e in largo alla ricerca di tutto ciò di cui la sacerdotessa necessitava.
Dopo l'intervento magico della donna, le ferite che ricoprivano quasi per intero il lato destro del viso di Flynn e tutto il suo avambraccio erano straordinariamente migliorate, lasciandosi dietro dei segni sulle zone offese. Quando il ragazzo aveva avuto il coraggio di toccarsi il viso, però, era rimasto visibilmente scosso dalle grinze di pelle che gli erano ancora rimaste e non era riuscito a calmarsi neppure con le parole di Mylene che gli assicuravano una guarigione rapida che avrebbe lasciato solo qualche cicatrice.
«Sono contenta tu stia meglio» gli disse Arkara, arrancando in mezzo ai feriti distesi sulle coperte sopra al terreno bagnato di neve.
In quello spazio angusto non riusciva a entrare con ciò che definiva il suo personale mezzo di trasporto, quindi zoppicò verso il giovane dai capelli bruni. Lo aveva visto finalmente sorridere mentre parlava con uno dei ribelli accanto a lui che, invece, aveva una ferita alla schiena ed era costretto a stare perennemente steso sulla pancia. Non appena Flynn la vide, però, le labbra che fino a quel momento erano state incurvate all'insù si piegarono irrimediabilmente verso il basso e tornò a fissare assorto le bende che aveva alle braccia.
«Ti avevo chiesto di non venire» mormorò stizzito, piegando la testa in modo da nasconderle le cicatrici e le poche lentiggini che avevano resistito all'incidente. Si vergognava del suo aspetto, Arkara lo sapeva, ma il debito di riconoscenza che sentiva nei suoi confronti le impediva di arrendersi.
«Sono riuscita a recuperare le ultime cose rimaste. – dichiarò con il sorriso stampato in volto come se non lo avesse sentito – Dopo l'assedio, in molti hanno avuto bisogno di... questo». Estrasse dalla tasca che aveva cucito nel corpetto un mucchietto di bende pulite e una piccola boccetta che conteneva un unguento fatto di menta e altea, i rimedi maggiormente usati per la cura delle ustioni.
Il ragazzo allungò una mano senza voltarsi verso di lei, afferrando la piccola ampolla come un assetato con un bicchiere d'acqua.
In quel momento, i lembi della tenda rossa in cui si trovavano furono spalancati da una donna con gli occhi sgranati che prese a correre verso Arkara. La ragazza la riconobbe immediatamente e lasciò cadere le bende per cercare qualcosa su cui reggersi, senza però trovarlo. La donna la raggiunse in poche falcate e la strinse forte tra le lacrime.
«Ingrid» bisbigliò la ribelle con voce roca: l'aria improvvisamente non era più sufficiente per farla respirare.
«Mi hanno detto che eri qui, ho capito subito che dovevi essere tu... sei così simile a tuo padre». La dama di compagnia della regina Isidora non accennava a mollare la presa che Arkara non si era sentita di ricambiare, troppo impegnata nella lotta interiore per non cedere alle lacrime.
«Kimav non ce l'ha fatta» la informò, guardando davanti a sé con le braccia stese lungo i fianchi. Non sapeva perché la prima cosa che le fosse venuta in mente da dire alla donna che aveva scoperto essere sua madre fosse stata la morte del fratello che non aveva fatto in tempo a conoscere; forse per condividere con lei quel peso, o forse perché nel profondo sperava di farla soffrire. Si riscosse dall'apatia in cui stava annegando, si scostò dall'abbraccio e la guardò in viso per la prima volta, riconoscendovi molte cose del proprio.
Ingrid aveva già pianto a lungo la morte del suo primogenito, e la osservò da oltre il velo di lacrime che le permeavano gli occhi scuri.
«Mi dispiace» bisbigliò, includendo in quelle parole una moltitudine di significati.
La ragazza sentì qualcosa spezzarsi dentro di lei; tutti gli anni di ricerca, la rabbia di non sapere, la sofferenza del sentirsi rifiutata dalla sua stessa famiglia, tutto svanì dentro gli occhi liquidi di sua madre che la guardava da qualche centimetro più in basso. Allungò una mano per stringere quelle di lei e le si avvicinò azzerando la distanza che aveva poco prima interposto tra loro.
«Va tutto bene, madre».
La donna trattenne i singhiozzi che le scuotevano le spalle e le carezzò il viso delicatamente, rivedendo in lei tutto ciò che non aveva potuto vivere con Yler, il capitano ribelle del settimo battaglione di Alec, morto dal lato sbagliato della guerra senza neppure sapere che sua moglie fosse incinta di una bambina. Sebbene Ingrid avesse sua figlia davanti per la prima volta dopo quasi vent'anni, non la stava realmente guardando, persa nei pensieri di ciò che sarebbe potuto essere. Fu proprio il ricordo di ciò che invece era stato a riscuoterla dal torpore.
«Gli scontri sono giunti fino alla diciassettesima strada...». La donna non osò continuare, ma sapeva benissimo che non c'era bisogno di aggiungere altro. Il volto di Arkara, infatti, che fino a quel momento sembrava quasi in pace con il mondo, si tramutò in una maschera d'orrore.
«Sono scappati?» chiese in un soffio, senza essere sicura di voler conoscere la risposta. Le parole della dama di compagnia avevano confermato i suoi incubi peggiori e adesso era semplicemente terrorizzata e impreparata per affrontare la verità.
Ingrid abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello di sua figlia. Arkara sbatté le palpebre un paio di volte per ricacciare all'interno le lacrime che le bruciavano gli occhi, annuì e la oltrepassò senza neppure guardarla, cominciando a incedere claudicante.
«Dove stai andando?». La voce della donna la fermó.
«A casa mia. Dai miei genitori» rispose senza neppure voltarsi, varcando la soglia della tenda che, in quel momento, sembrava impedirle di incamerare aria a pieni polmoni.
«Non puoi entrare in battaglia in queste condizioni, ti farai ammazzare!». Ingrid fece per inseguirla: non avrebbe perso anche lei, anche a costo di impugnare un'arma per la prima volta in tutta la sua vita. Flynn, però, che aveva assistito al dialogo tra le due senza capirci molto, fermò la donna per un braccio e le fece prendere posto nell'ammasso di coperte sulle quali era stato seduto fino a un attimo prima.
«Andrò io con lei» le assicurò, senza la minima traccia della vergogna che lo aveva invaso poco prima; si incamminò con solo indosso una leggera e lacera casacca marrone e raggiunse Arkara in fretta.
La gamba e la neve ostacolavano il passo rapido che la ribelle avrebbe voluto avere, e le lacrime che le offuscavano la vista le impedivano di vedere dove stesse andando, lasciando nel terreno bianco delle impronte incerte come se non conoscesse la strada verso casa. Si rese subito conto che il ragazzo dalla barba ispida l'aveva raggiunta, ma non aveva né la forza né la voglia di dirgli di andare via e Flynn, dal canto suo, non proferì parola.
L'area era ormai quasi priva dei soldati di Alec: i ribelli erano riusciti ad avanzare ancora, e tutte le armature nere che si vedevano erano stese per terra senza vita. Solo pochi di loro avevano il coraggio di alzarsi dal terreno nel tentativo di scappare ma, nella maggior parte dei casi, non riuscivano a raggiungere neppure i cancelli della città.
Flynn impugnò il suo spadone a due mani solo una volta, ordinando a sé stesso di non cedere al dolore delle braccia ustionate che sembravano lacerarsi di nuovo a ogni movimento; il nemico che affrontò, comunque, aveva ferite aperte ben peggiori delle sue, e si ritrovò a torreggiare su di lui dopo solo pochi affondi. Recuperò in fretta la distanza che lo separava da Arkara, che nel frattempo aveva continuato ad arrancare visibilmente stremata, e si fermò poi subito dopo di fronte a una casa distrutta nella diciassettesima strada ovest. Le spalle della ragazza iniziarono a essere scosse da tremiti incontrollabili, così lui le si avvicinò e gliele cinse con le mani desiderando che il suo tocco fosse sufficiente a farla stare meglio.
«Questa è casa mia». Piegò il braccio per poggiare la mano su quella di lui, lieta nonostante tutto di avere il suo calore a difenderla dal gelo che provava dentro.
Avanzò di qualche passo verso la casa crollata e rimase impietrita. Le immagini intorno a lei presero a vorticare come se fossero mosse da un crudele giostraio, e lei non poté far altro che accasciarsi sotto il peso della testa confusa e della gamba che esigeva riposo, squarciata dall'ineluttabilità di ciò che si era ritrovata a guardare.
Appena dietro la soglia distrutta di quell'abitazione alla diciassettesima strada ovest, i corpi di Angelin e Hugene giacevano immobili nel loro ultimo abbraccio: le mani del padre avvolte attorno al fisico minuto della madre nell'inutile tentativo di proteggerla, i crani spaccati dal tetto che gli era crollato addosso.
Arkara non riuscì ad alzarsi, nessun muscolo sembrava reagire ai comandi che il cervello urlava nella sua testa e, per la seconda volta nella sua vita, si ritrovò a strisciare nel terreno fangoso verso i corpi morti dei membri della sua famiglia.
Quando Flynn la vide rannicchiarsi accanto alle figure dei suoi genitori non riuscì più a rimanere fermo. La raggiunse e le prese il volto tra le mani toccandole la fronte con la propria per distoglierla da quella vista, completamente dimentico dell'imbarazzo che gli causava mostrarle il viso sfigurato. Lei non si oppose, si lasciò guidare da quel soldato di una Terra così lontana dalla sua, senza neppure schiudere gli occhi che aveva serrato per non guardare tutta la sua vita andare in frantumi, con la gamba offesa mollemente abbandonata sul terreno, priva di ogni sensibilità.
Flynn se la caricò sulle spalle stringendole saldamente gli avambracci attorno ai polpacci, facendo sì che il dorso combaciasse perfettamente con ogni parte del corpo di lei, mentre i lunghi capelli rossi gli ciondolavano davanti al petto mossi dal vento gelido.
«Non ho potuto fare niente, sono stata inutile». Arkara, stremata dal dolore e dalla fatica, aveva accettato di lasciarsi trasportare, e si trovava adesso a parlare con la testa nell'incavo tra il collo e la spalla di colui che non poteva più considerare uno sconosciuto.
Il soldato poteva sentire l'umido che le sue lacrime gli lasciavano sulla nuca e che scendevano fino a percorrergli l'intera schiena. La vicinanza del suo corpo, però, gli impediva di sentire qualunque sensazione di freddo nonostante la leggera casacca con cui era uscito ad affrontare l'inverno. Non sapeva cosa fare per lenire il dolore che riusciva a percepire senza nemmeno il bisogno di guardarla, né riusciva pensare a qualcosa che potesse alleggerirne il peso, così si limitò a stringere la presa sulle sue gambe, sperando che quel semplice gesto bastasse a trasmetterle tutte le parole che non era in grado di dirle.
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