Capitolo 38: Parte 1 - L'orgoglio del silenzio
Noor aveva perso la cognizione del tempo. Non riusciva a capire da quanto fosse rinchiuso in quelle segrete: non era in grado di distinguere quando faceva giorno, né quando arrivava la sera.
Era sporco, senza forze. A malapena gli davano dell'acqua e il cibo era costituito da avanzi, molto spesso marci. Quel giorno, però, un soldato comparì davanti la sua cella con un ricco vassoio e l'odore del pane appena sfornato gli fece brontolare lo stomaco. Si trattenne nell'afferrarlo e divorarlo, perché dietro al soldato fece la sua comparsa Razor.
«Buongiorno, prigioniero. È appena sorto il sole, anche se tu non puoi saperlo» ghignò. Noor lo detestava e, se ne avesse avuto le forze, lo avrebbe ammazzato in quel preciso istante.
«Oggi è un giorno speciale, il re è stato così magnanimo da farti avere questo meraviglioso pasto. Mangia e rimettiti in forze, questo è il messaggio che sono venuto a portarti direttamente dal Sommo Sovrano».
Il ribelle non disse nulla; non capiva il perché di quel gesto, sembrava l'ultimo pasto di un condannato a morte, ma il suo corpo era troppo debole e la fame vinse sulla ragione. Non appena il soldato posò a terra il vassoio, lui si avventò sul cibo e prese a mangiare con voracità.
«Ci rivediamo domani, ti consiglio di dormire». Il generale dell'Esercito Nero parlò con un'eccitazione malsana nella voce, ma Noor nemmeno lo sentì e continuò il suo pasto. Non lasciò nulla, mangiò anche le briciole e svuotò avidamente la brocca d'acqua fresca che gli arrivò dopo che un'altra guardia venne a ritirare il vassoio vuoto.
«Dì tutto ciò che sai». Il soldato parlò piano, quasi sussurrando. Noor non si aspettava che parlasse, nessuno gli aveva mai rivolto la parola da quando era incatenato in quella cella buia.
«Che vuoi dire?»
L'altro si alzò in fretta.
«Non posso trattenermi qui, segui solo il mio consiglio: dì tutto quello che sai». Sembrava spaventato, come se dovesse succedere qualcosa di molto brutto.
Le ore passarono e Noor si addormentò, suo malgrado, senza accorgersene: era sazio e dissetato dopo un'infinità di tempo, e il corpo si arrese alla stanchezza di quei giorni. Fu un sonno profondo e senza sogni, dal quale venne svegliato bruscamente da Razor che aveva preso a colpirlo sul braccio con l'elsa della spada.
«Adesso noi due andiamo a divertirci un po'. Le manette!» ordinò al soldato che lo accompagnava.
Due cerchi di ferro uniti da una catena si chiusero attorno ai polsi del ribelle; venne scortato in un'altra stanza delle segrete e, quando Razor aprì la porta, finalmente realizzò ciò che sarebbe accaduto.
La sala era a base circolare, priva di finestre, e l'unica fonte di luce proveniva dalle numerose lanterne sparse sulle pareti di pietra. Sui muri Noor notò subito il sangue rappreso, mentre sul pavimento, accatastati in un angolo, c'erano un mucchio di vestiti e armature che sicuramente erano appartenuti ai vecchi prigionieri che avevano avuto la sventura di trovarsi lì.
Venne spintonato contro un parete da cui pendevano delle lunghe catene, simili a quelle che aveva ai polsi, e venne imprigionato con la schiena attaccata al muro. Razor era poco distante, vicino a un massiccio tavolo di legno ricoperto da vari strumenti in ferro che Noor non sapeva distinguere, ma che non promettevano nulla di buono. Appena dietro al tavolo, su cui si riconoscevano delle pinze da fabbro simili a quelle che usava suo padre in officina, una piccola fornace era accesa e bruciava; appese al muro di fianco, invece, c'erano fruste di vario genere, spade e mazze chiodate.
Gli mancò il fiato, la paura gli attanagliò le viscere e sentì le gambe cedergli sotto il peso del suo stesso corpo, ma, ora più che mai, doveva dimostrare a sé stesso di essere forte.
Alec comparve poco dopo da un ingresso secondario che non aveva notato, accanto al punto in cui era incatenato; non erano mai stati così vicini e lesse nei suoi occhi una malvagità che non aveva mai incontrato prima. Il re si avvicinò tenendosi a poca distanza e lo osservò compiaciuto.
«Vi stavo aspettando, Vostra Maestà. Possiamo cominciare». Razor si inchinò.
«Pazientate, generale. Vediamo se il nostro prigioniero è disposto a collaborare, così da poterci risparmiare tanta fatica. Noor Barker, - pronunciò con falsa cordialità nella sua direzione - mi è stato riferito che durante i vostri tristi giorni alla Resistenza avete passato molto tempo con Nahil; e, a proposito, spero di gioire presto della sua morte così come ho fatto per quella di suo fratello».
Il ribelle lo guardò dritto negli occhi: il re lo stava provocando, ma non si sarebbe fatto sopraffare dall'odio, nonostante si sentisse ribollire di rabbia.
«Dunque, vi propongo un semplice accordo, uno scambio equo che dimostra tutta la mia onestà. Voi mi dite tutto ciò che sapete, e io vi faccio scarcerare immediatamente. Sarete libero. Una manciata di informazioni in cambio della vita, mi sembra molto vantaggioso, non credete?» gli propose con calma il Sommo Re. Noor sputò a terra e gli piantò addosso gli occhi nocciola offuscati dalla paura ma incredibilmente determinati.
Il primo colpo di frusta arrivò inaspettato in pieno petto lacerando la carne del ribelle, il quale emise un unico grido soffocato di dolore.
«Non rivolgerti così a Sua Maestà!» ruggì Razor facendo schioccare la frusta un'altra volta. Alec lo fermò alzando un solo dito.
«Come vedete, è inutile opporre resistenza. Decidete voi come preferite andarvene da qui, se tutto intero o da cadavere. Io otterrò comunque tutte le informazioni che vorrò, perché parlerete. Oh, sì che parlerete. Tutti abbiamo un limite, e quando troverò il vostro mi direte ogni cosa. Prima di ricominciare, però, vi offro ancora una volta la possibilità di vuotare il sacco e andarvene di qui. Ditemi, quali sono i piani di Nahil? E cosa prevede l'alleanza con Seamus l'usurpatore?»
Noor ebbe la forza solo di alzare lo sguardo su di lui. Il petto gli urlò di dolore quando respirò prima di parlare. Ma non avrebbe urlato, non più. Sarebbe stato forte e avrebbe resistito a qualunque costo.
«Uccidetemi adesso e fatela finita. Non vi dirò nulla». Usò tutto il fiato che aveva in corpo, deciso a non cedere. L'espressione di Alec si accigliò, fece qualche passo indietro e si rivolse a Razor.
«Dieci frustate. Cominciate dalle gambe».
Due soldati tirarono le catene che gli pendevano dai polsi e costrinsero Noor a rimanere in piedi. Il generale aveva un'espressione sadica, era contento di ciò che stava per fare: infliggere dolore in quel modo lo faceva sentire potente. Carezzò la frusta lasciando scorrere le corde tra le mani e poi cominciò, una frustata dietro l'altra.
Colpì Noor dieci volte. Sulle ginocchia, sulle cosce, sulle caviglie.
Il dolore era lancinante, sentiva bruciare tutti i muscoli, e a ogni colpo il sangue imbrattava il pavimento attorno a sé. Il corpo assunse pose innaturali, muovendosi al tocco della frusta quasi come fosse una danza folle, disumana. Serrò la mascella, chiuse gli occhi, si morse la lingua per evitare di cedere. Cercò di resistere finché poté, cercò di non urlare, ma fu impossibile. Quando finì, Razor ritirò indietro la frusta un po' affannato.
Alec attese qualche secondo prima di parlare.
«Peccato, - disse guardandogli le gambe martoriate - confidavo nel tuo buon giudizio. Magari, allora, sarai più incline a parlare di tua sorella e del modo in cui ha ottenuto la vista». Il sovrano pronunciò quelle parole con un'eccitazione che faticava a nascondere. Gli aveva parlato prendendosi una certa confidenza, lasciando intendere che da quel momento le cose avrebbero preso una piega decisamente diversa.
Noor alzò il viso sorpreso, senza capire come facesse a sapere di Enora né del perché gli interessasse, con lo sguardo appannato dal dolore che gli impediva di vedere nitidamente.
«Mia sorella non è affare che vi riguarda» riuscì a dire dopo un interminabile lasso di tempo. Alec fece una smorfia di disappunto: troppe volte aveva visto quel coraggio nei prigionieri, quell'impavido desiderio di resistere alla sua autorità. Ma era sempre riuscito a piegare tutti. Doveva solo avere pazienza, tutto giocava a suo favore.
«Allora, potresti dirmi dove saranno diretti i tuoi compagni della Resistenza; vorrei tanto fargli una visita». Alec si compiacque del suo spiccato sarcasmo.
«Non so quante domande avete per me, ma non otterrete nessuna risposta» sputò, cercando di mantenere la testa alta e gli occhi fissi nei suoi.
«So che si è unito a voi re Kamal e che state organizzando un esercito alle mie spalle, mi serve solo sapere dove. - Alec fece una pausa come se stesse pensando a qualcosa - Razor, cinquanta frustate al petto e cinquanta sulla schiena» concluse con noncuranza.
Il viso di Noor perse d'un tratto tutto il colore: credeva che gli servisse vivo, che se non avesse parlato avrebbe guadagnato tempo. Era sicuro che Nahil avrebbe fatto di tutto per liberarlo, ma non era più certo che sarebbe riuscito a sopravvivere prima del loro arrivo.
Il generale gli si avvicinò con il solito ghigno e cominciò.
Ogni colpo bruciava, sanguinava e lo faceva tremare di dolore. Alla decima frustata le gambe gli cedettero, ma i soldati tenevano salde le catene e lui fu costretto a stare in piedi. Brandelli di pelle volarono di nuovo via, e dopo poco sentì la testa confusa e pesante.
Era vagamente consapevole di ciò che gli accadeva al corpo, ma la mente si era estraniata dalla sua naturale sede fisica assopendo la coscienza quel tanto che bastava per permettergli solo di tenere il viso alto in modo che Razor non lo colpisse. La frusta gli sibilava avida e feroce sotto al mento, il generale non falliva un colpo, e lui si ritrovò presto a essere solo uno spettatore del macabro spettacolo di cui era protagonista. Aveva chiara contezza della pelle dilaniata, dei muscoli scoperti che si contraevano e del sangue che zampillava via insieme alla vita. Teneva gli occhi chiusi e cercava di dare un vago ritmo costante al respiro, sentendolo via via sempre più raschiato fino a quando non gli giunse sul palato il ferroso sapore del sangue.
Visse in questo stato limbico per un tempo indefinito, perdendo la cognizione della realtà e chiedendosi se fosse solo un sogno, se stesse semplicemente rivivendo lo stesso momento nella sua mente, ancora e ancora. Le urla sincopate, però, manifesto del dolore incontenibile che lo squarciava senza tregua, gli assicurarono con assoluta certezza che quella fosse la realtà, e che non aveva vie di fuga.
Quando lo girarono, si abbandonò senza più nemmeno la forza di gridare, e scivolò nel buio. Nelle orecchie il rimbombo della frusta che schioccava.
Alec attese fino a quando il comandante del suo esercito non finì, ma per allora il prigioniero era svenuto e diede quindi l'ordine di riportarlo in cella. Uscì dallo stesso ingresso da cui era arrivato e chiamò Angus.
«Va' nelle segrete, occupati del prigioniero della Resistenza e guarisci le sue ferite. In modo rapido. Non ho ancora finito con lui».
Il servitore assentì e si allontanò con un inchino, sparendo tra i corridoi del Real Castello.
Enora era distesa in una tenda ma non dormiva: da quando si era sparsa la voce del rapimento di suo fratello faceva fatica a riposare. In realtà tutto le veniva difficile, mangiava poco e aveva smesso di andare da Mylene. Trovava conforto solo quando si allenava, e così andava da sola di notte o la mattina presto per sfogarsi. Il sudore si confondeva con le lacrime e lei si sentiva finalmente svuotata. Non riusciva ad accettare che suo fratello non fosse più vicino a lei, che fosse in grave pericolo e che non potesse fare nulla per salvarlo. Non aveva neanche la certezza che fosse ancora vivo, e non era neppure riuscita a parlargli.
Quando i primi raggi di sole filtrarono attraverso il tessuto lacero che la riparava dall'umidità notturna, Enora si alzò. Afferrò la spada e si recò nello spazio che la Resistenza aveva scelto come arena di allenamento, in cui un fantoccio di legno stava immobile al centro. Sguainò la spada, si avvicinò e cominciò a colpirlo, ripetendo tutti i movimenti che aveva imparato da quando si era unita agli Elyse.
«Sei brava. Ma devi pensare anche alla difesa, non solo ad attaccare».
Una voce le giunse da dietro, lei si interruppe di colpo e si voltò di scatto con la spada puntata.
«Chi siete?» domandò seria, scrutando lo sconosciuto con una strana sensazione allo stomaco. Gli occhi verdi la fissavano dolcemente, il viso era stanco e provato ma la bocca accennava a un sorriso. L'uomo ci mise un po' prima di rispondere, come se cercasse le parole giuste.
«Sono Christopher, Elisea, tuo padre». Si rilassò, come se pronunciare quelle parole gli avesse tolto un macigno dalle spalle. Aveva aspettato quel momento da tutta la vita, e finalmente adesso poteva guardare sua figlia negli occhi.
«Il mio nome è Enora». Fu l'unica cosa che riuscì a dire.
«Hai ragione, ma ci tenevo tanto a chiamarti con il nome che io e tua madre abbiamo scelto». Christopher le si avvicinò piano e con una mano le fece una delicata carezza al viso. Enora rimase immobile, rigida, non si spostò né lo guardò. Il suo volto non lasciava trasparire nulla.
«Mi avevano informato che sareste venuto. Adesso che siete qui, potrete spiegarmi il motivo per il quale mi avete abbandonata. Lo ha già fatto Stenphield, ma voglio sentirlo da voi» pronunciò con tono piatto.
«Noi abbiamo sempre voluto proteggerti. Avevamo già rischiato di perderti e restare con me o con Stenphield ti avrebbe esposta a un pericolo troppo grande. Isidora ha scelto di assicurarti una vita normale, lontana da tutto il male che Alec avrebbe potuto farti».
La guardò speranzoso; voleva ardentemente sapere cosa provava, cosa pensava di lui, non gli importava se gli avesse urlato addosso tutta la sua rabbia. Tutto sarebbe stato meglio di quel silenzio.
«Io non sono altro che il modo per vendicare i vostri torti. Per voi sono sempre stata solo questo, fin dal primo momento. Mi avete ingannata dall'inizio per raggiungere i vostri scopi, e adesso sono diventata l'arma che volevate fossi: ucciderò Alec, ma non per un diritto che voi pensate mi appartenga, ma per salvare Noor, mio fratello».
Christopher non riuscì più a guardarla, quella profonda indifferenza lo lacerava. Ma non poteva arrendersi così, non dopo tutti gli anni passati a osservarla crescere da lontano senza mai avvicinarsi, non dopo tutto quello a cui aveva rinunciato.
«Io capisco cosa hai provato, figl...». Un gesto della mano di Enora lo fermò.
«Se voi aveste capito, ci sareste stato». La ribelle si voltò e andò via, svuotata da qualsiasi emozione.
Ripercorse di nuovo il sentiero per raggiungere l'accampamento, in cerca di quella solitudine che sembrava l'unica cosa che riuscisse a comprenderla. Le bastò incrociare lo sguardo di Nayél per crollare. Lui la salutò con il suo solito largo sorriso e lei cedette senza nessuna riserva. Pianse mentre scivolava a terra, lasciando scorrere, insieme alle lacrime, anche tutto il peso che aveva cercato di eliminare con le interminabili ore in compagnia della spada.
Nayél le corse incontro, la sorresse delicatamente e la portò in una tenda vuota, stringendola a sé fino a quando i singhiozzi di lei non cessarono del tutto.
«Grazie» gli disse sottovoce quando fu in grado di parlare. Lui si staccò per guardarla.
«Non pensavo che il mio buongiorno fosse tanto terribile» provò a dire lui, cercando un modo per farla sorridere.
Nayél non perdeva mai il suo umorismo, nemmeno nelle situazioni più difficili, e questo l'aveva fatta ridere in molte occasioni in cui avrebbe solo voluto piangere.
«Forse devi migliorarlo un pochino» rispose lei, con un piccolo sorriso tirato che le si allargava sul viso.
«Ti prometto che mi impegnerò, a patto che tu mi dica cosa ti sta succedendo. È per Noor, vero?»
Istintivamente gli strinse la mano sentendo un nuovo nodo alla gola formarsi rapidamente.
«Mi manca e mi angoscia non sapere se sta bene. Ho così tanta paura che...»
«Non pensarlo nemmeno. - la zittì lui con voce delicata ma decisa al tempo stesso - Noi andremo a salvarlo: non abbandoneremo mai un nostro compagno».
«Non è la sola cosa che mi preoccupa. Stamattina ho incontrato mio padre... il mio vero padre». Alzò lo sguardo appannato dalle lacrime e incrociò quello confuso di Nayél. Poteva fidarsi di lui, glielo aveva dimostrato parecchie volte, e così gli raccontò tutto ciò che sapeva. Le parole le premevano in gola come se volessero uscire, e lei non fece nulla per impedirlo, assecondando il suo estremo bisogno di sfogarsi.
«... quindi, l'incontro di stamattina è stato talmente inaspettato che non ho nemmeno reagito. Ero bloccata, mi sentivo vuota, e non gli ho detto nulla di tutto ciò che avrei voluto».
«Hai sopportato tanto, da sola. Datti tempo per pensare e capire cosa fare».
Enora si ritrovò ancora a specchiarsi negli occhi così azzurri di lui, come quando le aveva rivelato di sapere cosa fosse successo con Fabian, ma in quel momento le sue emozioni erano così diverse da allora che se ne sentì quasi sopraffatta. Le apparve chiaro il motivo per il quale i suoi poteri si fossero rivelati a Naos proprio in quel momento, proprio per salvare lui; le rimbombarono nella testa le spiegazioni di Stenphield sui motivi per i quali si manifestano i poteri e fu assolutamente certa delle emozioni che la facevano tremare sin nel profondo. Così, fece l'unica cosa che le sembrava potesse dare un senso al marasma che le affollava la mente, e lo baciò.
Non aveva lo stesso sapore del primo bacio, non provava le stesse sensazioni che l'avevano travolta con il principe, ma era qualcosa di nuovo, qualcosa di puro, non macchiato dalle brutture della guerra che la perseguitavano da un anno. Tutto il dolore che sentiva svanì di colpo non appena le braccia di lui le cinsero la vita, in una stretta prima insicura e poi via via sempre più forte fino a farle perdere il fiato. Sentire le sue mani forti premerle dietro la schiena, scivolare dietro la nuca, tra i capelli, le fece provare delle sensazioni che non aveva mai provato prima e, all'improvviso, capì di cosa aveva bisogno.
Di lui.
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