Capitolo 37: L'erede

Alec era infuriato.

«Mio Re, c'è una spiegazione a quanto successo».

«Silenzio!» tuonò. Il generale della sua armata aveva osato presentarsi al suo cospetto dopo giorni dall'arrivo dell'Esercito sconfitto, in seguito a una ritirata, con gli uomini decimati.

Inspirò ed espirò lentamente.

«Pensavo foste un uomo intelligente, Razor. Avreste fatto meglio a non tornare affatto» aggiunse, recuperando tutta la sua flemma.

«Non sono tornato a mani vuote, Sire. Ho un prigioniero».

Il re si voltò verso di lui con la furia negli occhi, sforzandosi per non sbraitare ancora.

«Un prigioniero? Erano stremati, Razor, e noi avevamo tre eserciti!» gli disse a denti stretti, sbattendo il pugno sul bracciolo del trono su cui era seduto.

Nonostante i soldati gli avessero parlato delle stranezze che erano accadute e della punizione del generale verso i disertori, Alec non era riuscito a cancellare l'umiliazione che sentiva bruciare per una sconfitta tanto eclatante. Era stato inflessibile. Molti dei suoi uomini avevano subito sulla propria pelle le conseguenze della sua ira, e al ritorno di Razor aveva ordinato che venisse punito con cinquanta frustate. Il generale, giunto a Olok, si era immediatamente precipitato dal Sommo Sovrano per raccontargli quanto accaduto e portarlo dal prigioniero nelle segrete ma, a quanto sembrava, Alec non era interessato.

«Potremmo ottenere informazioni importanti, mio Re. Questo ragazzo, Noor, è il braccio destro del generale» provò a convincerlo Razor. Alec trasalì a quel nome.

«Portatemi da lui immediatamente».

Noor sentì dei passi farsi sempre più vicini, ma aveva la vista annebbiata e la testa confusa a causa dei colpi che si era guadagnato a ogni tentativo di fuga durante tutto il tragitto, e non riuscì a capirne la provenienza.

«Quindi, siete voi il prigioniero».

Il ragazzo avvertì lo sguardo del re su di sé e cercò di cancellare ogni traccia di sofferenza dal proprio volto.

«Ditemi il vostro nome, ribelle».

«Noor Barker» rispose lui senza esitazione con il petto pieno d'orgoglio. Aveva appena firmato la sua condanna.

Alec lo guardò in silenzio, compiaciuto adesso più di prima dai lividi che vedeva sparsi lungo tutto il corpo. Si voltò senza dire niente e ripercorse la strada a ritroso con Razor appena dietro di lui, camminando fino alle sue stanze private. Il generale stava per andare via quando il re lo fermò.

«Questa volta lascerò correre, ma non succederà un'altra volta o non sarete così fortunato».

«Li ucciderò fino all'ultimo, mio Re» gli assicurò servile con un inchino. Alec lo congedò con un rapido gesto della mano e poi fece entrare Angus che lo aveva aspettato fuori dalla porta per dargli alcune comunicazioni.

Minerva si recò verso la Sala del Trono di Olok presso cui era stata convocata. Dopo la battaglia di Naos si era trattenuta nella Capitale insieme al suo esercito, soprattutto per ottenere più informazioni possibili sulle prossime mosse di Alec, ma era evidente che lui non si fidasse di lei: non solo non le diceva più del necessario, ma sembrava proprio che la evitasse. Per questo motivo era stata sorpresa dalla richiesta di udienza privata e camminava con un certo grado di apprensione: da quell'uomo, ci si doveva aspettare di tutto.

«Finalmente siete arrivata. – iniziò il re non appena lei varcò la soglia – Cominceremo subito».

Sedeva sul trono con la corona e il mantello cerimoniale, da solo, in quella stanza enorme illuminata dall'abbagliante luce solare. Minerva represse la collera che le stava già montando in corpo e prese posto dove le era stato indicato.

«Di cosa volete parlare?»

Alec la guardò scettico.

«Non ne siete a conoscenza? Eppure è accaduto nella vostra città. Oh, Minerva, dovrete migliorare la vostra rete di informatori se vorrete avere una speranza come sovrana di Holtre».

«Cosa è successo alla mia gente?»

«Mi preoccuperei piuttosto di cosa la vostra gente ha fatto. – ribatté Alec, pregustando ciò che stava per dirle – Hanno ucciso Re Marvin. Il cocchiere lo ha riportato a Lasion con una pugnalata allo stomaco, e ora la sua Terra è in subbuglio poiché il regno è privo di eredi».

Minerva fece molta fatica per cercare di nascondere le emozioni, ma la confusione che sentiva era ben visibile sul suo volto.

«Non è possibile, Marvin non sarebbe mai andato a Shagos da solo».

«Magari, voleva solo conoscere sua figlia».

La regina avvampò e scattò dalla sedia; Alec rise.

«Calmatevi, Minerva, Hemelya sta bene. Anzi, mi sono giunte voci che ci sia proprio lei dietro la morte di uno dei miei sovrani. – il Sommo Re si fece d'un tratto serio – E qui sorge per me un grosso problema. Marvin era sotto il mio comando e, lo dico a malincuore, sotto la mia protezione: capirete bene che non posso semplicemente andare oltre a quanto accaduto, e che dovrò consegnare almeno un colpevole alla Terra dello Scorpione; se non altro, per accaparrarmi la loro benevolenza».

«Non gli darete in pasto mia figlia».

«Il popolo vorrà vendetta».

«Offrite me al popolo» propose, sedendosi nuovamente: le gambe le erano diventate molli.

Alec sorrise. Andava tutto come aveva previsto.

«Gesto nobile da parte vostra, Minerva, ma non posso accettare. Io penso che i nobili siano persone che non possono essere sacrificate se non per giusti motivi, e questo non lo è. Voi siete molto conosciuta a Holtre, nonostante tutto, ma nessuno conosce la principessa. Il popolo vi considera ancora una regina, ed è a una regina che voglio affidare il regno. Potrei incolpare la Resistenza, ovviamente, e salvare vostra figlia, ma questo avrebbe dei costi».

Minerva inspirò lentamente. Ecco dove voleva andare a parare.

«Quali?»

«La Terra della Bilancia».

La regina sorrise amara. Era sicura di potersi fidare di lui? No. Poteva permettersi di rischiare? Nemmeno. La vita di Hemelya valeva più della sua Terra?

«D'accordo» pronunciò in un filo di voce, con il viso che aveva ormai perso tutto il colorito. Il Sommo Re allargò le braccia dirigendosi verso di lei.

«Perfetto, Vostra Altezza. – disse con un'evidente nota ironica – Non ci resta che recarci a Lasion e presentarvi al popolo».

Minerva si alzò senza accettare il suo aiuto.

«E cosa vi fa pensare che mi accetteranno? È a voi che spetta la Terra in assenza di eredi».

«Avrei il comando solo in qualità di reggente e in attesa di un nuovo sovrano. Dopotutto, darò loro quello che vogliono, poco importa se il vostro potere sarà solo una farsa: loro non lo sapranno. Preparate i bagagli, mia regina, partiremo dopo pranzo».

Minerva si allontanò rivolgendogli un ultimo sguardo di sdegno prima di varcare la soglia della Sala del Trono, cogliendo l'insopportabile aria vittoriosa che avrebbe voluto togliergli a furia di schiaffi. Rilassò i muscoli solo dopo aver chiuso l'uscio delle sue stanze dietro di sé ed essersi precipitata verso lo scrittoio. Gettò via molti biglietti a causa del tremore delle sue mani, ma dopo vari tentativi riuscì a sigillarne due con mete diverse. Chiamò un paio di soldati fidati e li spedì verso le destinazioni designate: Shagos e Burok. Ora poteva solo sperare.

A Burok la situazione non era facile. Seamus passava le giornate diviso tra colloqui con Nahil, udienze con i nobili della Terra del Toro e visite nella stanza dei feriti. La Resistenza si era accampata fuori le mura della città e il generale aveva deciso di non alloggiare al castello per rimanere con i suoi uomini, ma Seamus sapeva che, in realtà, quella vicinanza serviva più a lui che ai ribelli: dopo il rapimento di Noor il suo umore era nuovamente peggiorato, e stare con l'esercito lo costringeva a non lasciarsi andare. I nobili di Burok, d'altra parte, avevano espressamente chiarito di non volere gli Elyse all'interno della Capitale, poiché la loro Terra non voleva schierarsi. Questo, però, voleva dire che ogni giorno Seamus doveva uscire dalla città per incontrare Nahil, e che c'era un continuo via vai di messaggeri che lo cercavano ovunque nel castello e in tutti i momenti del giorno e, a volte, anche della notte. Da quando aveva parlato con Klethus, infine, non avevano più accennato a quanto accaduto, e avevano addirittura evitato di toccarsi per paura che i loro sentimenti ormai chiari per loro, potessero esserlo anche per gli altri.

Fu con quest'animo che quella mattina si diresse verso l'ennesima riunione con i consiglieri di Burok. Dopo un'intera settimana erano riusciti finalmente ad accordarsi su qualcosa: Seamus non avrebbe unificato la Terra del Leone e del Toro, ma avrebbe assunto il ruolo di reggente in attesa di un successore. Era meglio così, dopotutto; Seamus non aveva mai voluto quella responsabilità né quel potere, ma doveva ancora imporsi sull'ultima decisione: il nome del sovrano. Era fondamentale che fosse qualcuno di cui potesse fidarsi e che lo avrebbe appoggiato nella guerra contro Alec. Ma chi? Gli erano bastati pochi giorni per capire che molti dei nobili presenti alle riunioni avevano mire più o meno solide sul trono, e che molti lo avrebbero preso senza farsi troppi scrupoli sul come. Doveva essere stata una vera lotta per Rotghar mantenere la pace all'interno di quel Concilio.

«La vostra famiglia non è abbastanza potente per poter reggere un simile incarico».

«La mia famiglia serve questa Terra da generazioni! Non permetterò oltre che le vostre parole ne infanghino il nome».

Il Tesoriere e il Gran Capo del Commercio stavano litigando. Ancora. Seamus li ascoltava in silenzio da diversi minuti: ognuno di loro reclamava il trono per ragioni diverse e ugualmente futili. Ghendi, il tesoriere, affermava che nessuno avrebbe potuto governare la Terra del Toro meglio di chi ha perfetto conteggio delle sue possibilità economiche; Petyr, il gran capo del commercio, continuava invece a ripetere che un regno non era altro che un enorme mercato e che nessuno poteva eguagliarlo nella gestione.

Il re del Leone aveva passato le ultime notti a studiare le carte contabili del regno, e si chiese come fosse possibile che uomini tanto abili nel loro mestiere potessero dimostrarsi così stupidi.

«Basta così» ordinò, decidendo che ne aveva abbastanza. I due vecchi si zittirono all'unisono e tutti gli occhi vennero puntati su di lui.

«Sono giorni che continuate a ripetere le solite litanie e non siamo ancora venuti a capo di niente. Siamo una dozzina in questa stanza e ognuno di voi ha espresso al meglio le proprie ragioni. C'è, però, uno di voi di cui non ho ancora ascoltato la storia». L'attenzione di tutti si spostò all'uomo che sedeva al capo opposto rispetto a Seamus.

Liam era il cugino di Rotghar, figlio del fratello di suo padre, ed era colui che più di tutti in quella stanza poteva reclamare il trono: era il discendente più prossimo del defunto re e, se Rotghar non avesse scritto quella lettera, il regno sarebbe spettato a lui di diritto dopo la concessione formale di Alec. Ma il giovane re non si era fidato del Sommo Sovrano e, per evitare il rischio di una nomina pericolosa e di una guerra, aveva preferito lasciare a lui l'arduo compito. Eppure, Liam non aveva mostrato astio nei suoi confronti in quei giorni né, tantomeno, aveva proferito parola.

Seamus aveva raccolto informazioni su ogni uomo presente in quella sala, e Liam sembrava molto conosciuto e ben voluto dal popolo. Viveva a Orden, una cittadina vicino al confine con la Terra del Leone e, a quanto pareva, faceva un buon lavoro con quel poco di cui disponeva. Prima di formarsi un'idea su di lui, però, doveva ascoltarlo.

«Credo che le presentazioni siano superflue, Vostra Maestà. Ognuno di noi ha svolto le proprie indagini prima di essere qui, e temo che non potrei dire di più di quanto vi abbiano riferito i vostri informatori».

Liam era stato molto sfacciato a sottintendere in quel modo di aver capito di essere spiato; e furbo, anche. Tutti gli uomini attorno al tavolo si voltarono per osservare la reazione del sovrano, ma lui sorrise appena.

«Bene, allora. Posso quindi fare il mio annuncio».

Un brusio si sparse presto per tutta la stanza interrompendosi nell'istante in cui il re si schiarì la voce. Nessuno parve sorpreso quando venne pronunciato il nome di Liam Tibourg, legittimo erede al trono per discendenza.

Seamus riuscì a scorgere la delusione nel volto di alcuni nobili, ma nessuno ebbe il coraggio di opporsi. Era la scelta più giusta e lo sapevano tutti: eleggere a sovrano qualcuno al di fuori della famiglia reale voleva dire creare un precedente scomodo a cui tutti potevano appellarsi per reclamare maggiore diritto al trono; inoltre, Seamus aveva saputo di molte battaglie in cui il nuovo re del Toro si era distinto per coraggio e ardore contro le Armate Nere e i ribelli di Minerva. Lo osservò attentamente mentre gli altri nobili si congratulavano con lui, e si ritrovò a sperare che l'incredibile somiglianza fisica con il suo giovane predecessore si rispecchiasse anche in una similarità di carattere, di valori e di giudizio.

Era appena uscito dalla Sala del Consiglio quando un servo lo raggiunse con un biglietto tra le mani. L'ennesimo. Quello però, scoprì presto, portava notizie decisamente inaspettate scritte dalla mano tremante di Minerva.

In quello stesso momento, la Regina delle Terre Escluse scese dalla carrozza Reale che l'aveva accompagnata fino al Castello di Lasion.

Tutta la città si era accalcata ai lati delle strade che avevano percorso da quando erano entrati all'interno delle mura, e non erano mancate grida di dissenso contro gli stranieri.

«Non preoccupatevi, sono solo confusi da quanto sta succedendo. È gente semplice, li sapremo convincere» le aveva detto Whyle, il secondogenito di Alec e nuovo erede al trono.

Il re aveva cominciato a farsi affiancare dal figlio da quando aveva compiuto quindici anni, affermando che la prosperità del regno sarebbe dipesa da quanto sarebbe riuscito a imparare da lui. Era la prima volta in tutta la sua vita che lasciava il Real Castello e aveva passato l'intero viaggio con il naso fuori dal finestrino o, alternativamente, ficcato tra le pagine di tomi enormi. Il principe l'aveva guardata con i suoi grandi occhi viola che gli conferivano un'aria un po' stralunata, e Minerva non aveva potuto fare altro che annuire titubante a quel ragazzino sempre così silenzioso. Aveva richiuso le tende della carrozza e non aveva guardato più fuori per il resto del tragitto, ma ora non poteva più ignorare l'ostilità che leggeva negli occhi di chiunque incontrasse.

Nei giorni seguenti il Sommo Sovrano riuscì a convincere gran parte degli uomini di potere di quella Terra che lasciare regnare una donna straniera fosse la scelta migliore che avrebbero potuto fare nella loro vita e non fu difficile, da quel momento, persuadere tutti gli altri. Era stato anche grazie agli interventi di Whyle che molti si lasciarono convincere: sebbene fosse solo un ragazzo, nessuno era in grado di ribattere a ciò che diceva, sembrava sapere esattamente quello che gli altri volevano sentirsi dire, e Minerva fu sconcertata dall'incredibile capacità che padre e figlio condividevano.

La regina fu costretta a stringere diversi accordi commerciali con ognuno dei presenti, ma in poco più di una settimana si ritrovò a essere la legittima sovrana della Terra dello Scorpione. Sapeva che la parte più difficile doveva ancora arrivare, che avrebbe dovuto superare la diffidenza del popolo, ma nonostante questo si ritrovò a sorridere verso il soffitto della sua stanza privata, distesa in un letto morbido come non provava da tempo, circondata da una quantità d'oro sufficiente a pagare molti dei suoi debiti. Si era assicurata il futuro che lei e sua figlia avevano sempre meritato, ed era anche riuscita a farlo combattendo dalla parte giusta, più o meno. Il suo piano stava funzionando.

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