Capitolo 36: La strada verso Burok

Enora si svegliò presto quella mattina. Avevano fatto una breve sosta nel tragitto verso Burok e doveva aiutare i sacerdoti a controllare i feriti, soprattutto per scongiurare le infezioni.

L'arrivo dei disertori dell'Armata Nera aveva stranamente ridato una nuova vitalità ai ribelli: il loro gesto gli aveva fatto capire che combattevano dalla parte giusta e, nonostante molti avessero abbandonato le fila dopo l'arrivo degli stregoni, nell'aria si respirava un leggero ottimismo. Nayél si era fatto promotore della campagna di accettazione della magia, mostrava con fierezza il petto privo di cicatrici e parlava a tutti con grande animosità delle migliorie che avrebbero potuto apportare alla Resistenza. Anche gli stregoni, dal canto loro, avevano dismesso le tuniche e si erano mescolati tra i ribelli mostrando cautamente ciò che erano in grado di fare, e aiutando chi aveva meno paura negli affari quotidiani. Non tutto era perduto.

Enora si preparò in fretta senza preoccuparsi di mangiare qualcosa: da quando aveva scoperto la verità sulle sue origini aveva faticato a trovare l'appetito. Mentre si dirigeva verso la zona allestita per i feriti allungò il collo alla ricerca di Noor, senza però avere successo. Era diventato praticamente impossibile riuscire a parlargli in privato, tanto era il tempo che passava insieme a Nahil. Lui e Korinna, infatti, avevano iniziato a passare la maggior parte del giorno con lui dopo la morte di Ares: il generale aveva perso molto dell'uomo che era stato in passato e accettava di buon grado il loro aiuto, utile soprattutto a impedirgli di perdersi tra i ricordi e lasciarsi andare al senso di colpa.

Tutto questo, però, rendeva Noor introvabile durante il giorno e troppo stanco la notte, tanto che Enora non aveva avuto modo neppure di raccontargli cosa fosse successo o, forse, non si era sforzata abbastanza per farlo. Non riusciva ad ammettere a sé stessa che aveva una paura folle di rivelargli di non essere sua sorella, di essere la figlia di un tradimento, di non essere più vincolata dalla collana. Erano cose a cui aveva volontariamente evitato di pensare e parlarne con lui o con chiunque altro l'avrebbe solo costretta a ragionarci su. Si sentiva più sola che mai, e l'unico momento in cui riusciva ad annullare tutti i pensieri e concedersi un attimo di pausa dalle ruminazioni era quando entrava nella tenda dei feriti. Toccare con mano la sofferenza e sapere perfettamente come agire per alleviarla la faceva sentire bene, al suo posto. Lì ogni cosa aveva un senso logico: ogni ferita aveva una causa e una soluzione, la maggior parte delle volte, e nel bene o nel male era in grado di prevederne l'evoluzione. In mezzo ai gemiti sofferenti, sporca di sangue fino ai gomiti, lei sentiva di avere il controllo. Nel resto della sua vita, invece, le sembrava di averlo completamente perso.

«Buongiorno, Mylene» disse raggiungendo la sacerdotessa.

«Ciao, Enora, ci sono solo feriti lievi qui. Tu occupati di lei». Con un cenno del capo indicò una ragazza più in fondo. Enora riconobbe Arkara dalla massa di capelli rossi, era distesa e girata di spalle.

Si avvicinò quasi in punta di piedi, con il fiato sospeso, e le toccò la spalla. Quando lei si volto, notò che aveva gli occhi gonfi e rossi. Vederla così la faceva stare male. Da quando erano entrambe entrate nella Resistenza avevano avuto poco tempo per stare insieme, come facevano quando andavano in giro per Olok e la loro unica preoccupazione era non rientrare tardi a casa.

«Immagino tu sia qui per la ferita». Arkara la guardò con un sorriso vuoto, mostrando in quel piccolo gesto tutto il dolore che l'aveva trasformata in una persona molto diversa da quella che era stata fino a poco tempo prima.

Enora, in silenzio, poggiò la pastura sul bordo delle coperte su cui era seduta e iniziò a sfilarle la vecchia fasciatura alla gamba.

«Nahil mi ha detto che la morte di Kimav ti ha sconvolta, ma non ha voluto dirmi perché. So che da quando siamo qui non abbiamo avuto tanto tempo per parlare come prima, ma vorrei tu sapessi che non sei sola».

Era vero, da quando erano entrate negli Elyse il loro rapporto non era più lo stesso, ma nemmeno loro lo erano. Non riusciva neppure più a ricordare come fosse la sua vita al di fuori della routine massacrante nella Resistenza, come fosse vivere senza la paura continua di perdere coloro che ami. Era una persona diversa, soprattutto da quando aveva saputo chi fosse realmente, e non ne aveva neanche parlato con la sua migliore amica. Averla lì vicino le fece ricordare i tempi spensierati, e si rese conto di avere davvero bisogno di parlare con qualcuno di tutto ciò che aveva scoperto, di ciò che provava.

Arkara trattene una smorfia. La ferita le faceva male, e parecchio, ma non voleva mettersi a frignare per quello; voleva tornare presto in forze per battersi e vendicare la morte di suo fratello e di Breit. Era l'unica cosa che le importava.

«Kimav era mio fratello» disse solo. Enora sgranò gli occhi sorpresa, completamente spiazzata. A quanto pareva, non era la sola ad avere dei segreti.

Arkara sospirò tristemente.

«Angela e Hugene non sono i miei veri genitori» iniziò dopo qualche secondo, e le raccontò tutto. Le parole le affiorarono alle labbra come se non avessero aspettato altro che essere raccontate, e parlò quasi senza prendere fiato. L'amica rimase immobile per tutto il tempo, con un senso di angoscia che le cresceva in petto a ogni parola.

«È tutta colpa mia» le confessò alla fine, espirando il proprio senso di colpa. L'amica le rivolse uno sguardo interrogativo, così Enora si guardò intorno, controllando che non ci fossero orecchie indiscrete.

«La Regina Isidora è mia madre» le sussurrò all'orecchio. Arkara portò le mani alla bocca in un gesto istintivo e poi l'abbracciò. La strinse a sé come non faceva da tempo, e si ritrovarono di nuovo vicine come se niente fosse cambiato.

«Ares mi ha detto della Regina e del soldato di cui si era innamorata. Alec distrugge ogni cosa che contiene amore, noi siamo solo delle vittime del suo folle gioco. Abbiamo perso molto, tutte e due, ma dobbiamo riprenderci ciò che è rimasto... a partire dalla nostra amicizia». Le sorrise sinceramente e asciugò le lacrime che erano riuscite a scendere, nonostante i suoi sforzi.

«Parlami di Christopher, lo incontrerai?» le chiese, mentre la osservava lavorare sulla coscia priva di sensibilità.

«Sì. Si sta dirigendo a Burok» rispose nervosa.

«So cosa stai passando: sei arrabbiata, delusa anche. Vorresti non vederlo, perché Danker è stato tuo padre in tutti questi anni e per te c'è sempre stato. Ma ascoltami, Enora, ogni giorno per noi è un rischio: non perderti l'occasione di mettere da parte la rabbia e l'orgoglio, incontralo e parla con lui».

«È difficile» ammise, distogliendo lo sguardo.

«Lo so, ma non avrai rimpianti. Se avessi accettato di conoscere Kimav la prima volta che mi venne a cercare, avrei passato più momenti con lui e, magari, questo vuoto che adesso sento sarebbe meno grande».

Una fitta alla gamba ricordò ad Arkara il motivo per cui si trovava in quella tenda.

«Dimmi la verità» disse indicandola con la testa. Enora si fece seria.

«Va un po' meglio, ma è molto grave. Arkara, non credo che potrà tornare come prima, è già un successo che non ci sia stato bisogno di amputarla».

«Io voglio combattere» ribatté arrabbiata, e delusa, e impotente.

«No. Tu ora devi riposare, non posso perdere anche te».

Nahil guardò la cartina del Regno di Holtre che aveva disteso su un ripiano improvvisato, non c'era tempo per montare la sua tenda: quella era una sosta breve. Avevano superato il confine della Terra del Pesce, ed erano a solo mezza giornata di distanza da Burok.

«L'esercito del Re Seamus ha appena completato l'attraversamento del fiume Giona e dobbiamo organizzare il nostro, adesso. Io guiderò le carovane davanti, a Korinna dirò di stare in mezzo e andare insieme ai cavalli, tu chiuderai la fila e controllerai che tutto sia a posto» ordinò concentrato, indicando la mappa con le dita della mano sinistra, l'unica che gli era rimasta.

Noor annuì. Aiutare il generale lo faceva sentire davvero utile e così, da quando era finita la battaglia a Naos, aveva passato quasi tutto il suo tempo con lui. Lavorare in quel modo, inoltre, gli dava la possibilità di non rimuginare sui sentimenti per Arkara che diventavano sempre più incontrollabili ma che, evidentemente, non erano ricambiati. Aveva notato la sua reazione alla morte di Breit e, in quel momento, si era ripromesso che avrebbe fatto di tutto per farla stare meglio. Sarebbe stato un buon amico, solo un dannatissimo amico.

«Attraverseremo col buio, così sarà più difficile incontrare qualcuno. Cominceremo dopo il crepuscolo e voglio tutti dall'altra parte all'alba. Prima arriveremo a Burok, meglio sarà» continuò Nahil, richiamandolo dai suoi pensieri.

«Passeremo il ponte senza intoppi, vedrai. L'esercito di Alec sarà ancora in marcia per tornare a Olok».

Il generale gli si avvicinò e parlò con tono serio.

«Hai pensato a cosa vuoi fare? Hai visto in che situazione siamo: se tu imparassi, per noi sarebbe un'arma in più».

Era la prima volta che riprendeva quell'argomento. Noor aveva potuto vedere con i propri occhi di cosa erano realmente capaci gli stregoni ma, nonostante questo, non aveva cambiato idea: non si vedeva in quella veste e pensare di stare nella tenda a sentire tediose lezioni lo innervosiva. Non c'era tempo e non poteva imparare tanto in fretta da poter essere utile.

«Sì, ho deciso. Io voglio combattere e restare ad aiutarti».

Nahil sospirò, sconfitto.

«Spero che non dovrai pentirti di questa decisione, Noor».

Quella frase gli procurò una stretta allo stomaco, scacciò via quella sensazione e il silenzio venne interrotto da Korinna.

«Mylene sta finendo di controllare i feriti, così potremmo iniziare a prepararci» annunciò. I due annuirono ed entrambi uscirono per cominciare a organizzare il resto dei ribelli.

Razor era al riparo dietro un albero, la chioma lo proteggeva dal sole e il tronco dagli occhi indiscreti. I due soldati che aveva portato con sé erano poco distanti e separati. Xavi lo accompagnava, l'altro era rimasto al confine con la Terra Centrale, con i cavalli sellati e pronti a partire non appena avrebbero fatto ritorno.

Non mangiavano un pasto decente da due giorni, ormai, si muovevano piano e per lo più di notte. Seguivano la Resistenza da quando avevano lasciato Naos e, a giudicare dal percorso di viaggio, era abbastanza sicuro che fossero diretti a Burok, la capitale della Terra del Toro. Sperava di non sbagliarsi, aveva ideato un buon piano e doveva riuscire a portarlo a termine o per lui era finita: doveva catturare il bersaglio che aveva scelto, così Alec lo avrebbe perdonato per aver perso la battaglia.

Il generale a capo di quei bastardi era un osso duro: anche se gli mancava una mano, aveva una tecnica invidiabile e non voleva rischiare di mandare tutto in fumo. La sua scelta era ricaduta sul ragazzo che maggiormente aveva visto accanto a lui, sicuramente aveva accesso a molte informazioni utili. Il capo dei ribelli si faceva aiutare da due ragazzini, e uno dei due era addirittura una donna! Quel pensiero gli fece digrignare i denti. Con la complicità di Xavi sarebbe stato facile stordire quel soldato e portarlo con sé, raggiungere Beyesh e tornare immediatamente a Olok. Aveva bisogno di un bagno caldo, di un pasto decente e di una sgualdrina.

Dopo molte ore finalmente giunse il crepuscolo, dei rumori non troppo lontani lo fecero destare dal sonno veglia in cui era caduto. Si alzò lentamente dal suo nascondiglio e sbirciò oltre il tronco. La figura del generale a cavallo che attraversava per primo il ponte gli provocò un ghigno soddisfatto; sembrava che la fortuna giocasse a suo favore, quella sera.

Xavi era nascosto lì vicino e attendeva un suo segnale, ma ci sarebbe voluto un po' prima di agire. Ci voleva pazienza. Rimase in piedi a guardare i movimenti dell'accampamento per molto tempo e, quando la luna fu alta in cielo e la maggior parte dei ribelli avevano attraversato il ponte, finalmente lo vide. Il soldato stava in piedi vigile mentre controllava che l'ultimo flusso del piccolo esercito attraversasse il ponte: era senza cavallo e chiudeva la fila. Razor alzò un braccio e chiuse la mano in un pugno: era il segnale che stava aspettando, potevano attaccare.

Noor guardò i soldati muoversi in sincronia per oltrepassare il ponte e si stava preparando anche lui a farlo. La stanchezza si faceva sentire ogni giorno di più e la tensione che aveva lasciato la battaglia di Naos era ancora palpabile, ma finalmente l'indomani si sarebbero ritrovati a Burok e avrebbero potuto riposare.

L'ultimo gruppo di soldati cominciò la risalita del ponte e il ribelle si preparò a seguirli. Diede un ultimo sguardo veloce dietro di sé, poi si incamminò tenendo una mano sull'elsa della spada in un gesto che gli trasmetteva sicurezza, pronto all'attacco.

Bastò un rumore, un ramo spezzato, per farlo girare allarmato mentre con la mano afferrava l'elsa ed estraeva la spada, ma quella prontezza di riflessi non fu sufficiente. Ebbe il tempo di distinguere i contorni di un soldato dell'Armata Nera, poi perse i sensi.

Razor usò Xavi come diversivo, così che mentre lo attaccava frontalmente, lui poté colpirlo alla testa con un colpo secco, tramortendolo. Usò la corda che aveva con sé per legargli i polsi dietro la schiena e lo caricò sulle spalle reggendolo insieme al suo sottoposto. Dovevano raggiungere in fretta Beyesh, non sarebbe passato molto tempo prima che si accorgessero di ciò che era successo.

Le Armate Verdi della Terra del Leone erano appena arrivate a Burok sotto gli sguardi diffidenti di tutti i cittadini. Il loro ingresso nella capitale della Terra del Toro era stato rapido e silenzioso, senza il giubileo a cui era abituato Seamus al ritorno dalle sue battaglie. Si diressero immediatamente verso il Castello Reale, ma anche lì furono accolti freddamente dai nobili della corte. Klethus, mesi prima, gli aveva riferito che non erano stati felici di ricevere un reggente della Terra del Leone senza prima essere stati consultati, ma allora aveva dovuto organizzare la spedizione verso Sansea e aveva purtroppo trascurato di considerare l'umore di chi si ritrovava a essere governato da uno straniero.

Ci avrebbe pensato dopo. Adesso, la priorità era curare i soldati del suo reggimento; doveva pensare a salvare il suo consigliere.

Fece portare tutti i feriti lievi in enormi stanze adibite appositamente a quello scopo, con un continuo via vai di donne e uomini che trasportavano brocche di acqua fresca, bende nuove e pasture mediche. I più gravi vennero sistemati in stanze più piccole in cui vi era meno gente e meno rumore, mentre coloro che erano morti nel viaggio vennero bruciati fuori le mura con una semplice preghiera alla dea.

Klethus era stato sistemato tra i feriti gravi. Non aveva ripreso conoscenza per quasi tutto il viaggio e la febbre aveva continuato a salire facendolo delirare in quei pochi momenti in cui era stato sveglio. Adesso stava un po' meglio, ma la paura di perderlo attanagliava il re in una morsa.

Tra un giaciglio e un altro Seamus aveva disposto che venissero messe delle tende per separare i feriti gravi da quelli infetti ed evitare il più possibile che venissero contagiati. Quelle tende, inoltre, gli davano la libertà di sedersi accanto a lui e smettere per un attimo di essere il sovrano di due Terre, in combutta con la Resistenza e traditore del Regno, per essere semplicemente un uomo stanco e preoccupato.

Si recò negli alloggi che erano appartenuti a Rotghar per studiare le carte della Terra, in modo da avere un'idea chiara e diretta sia delle questioni economiche che, banalmente, per imparare la planimetria del castello ed evitare di perdersi tra le innumerevoli riunioni a cui era costretto a partecipare. Stava proprio leggendo la disposizione delle stanze della reggia, quando gli affiorò alla mente il giorno in cui conobbe Klethus.

Era da un paio di settimane che un piccolo esercito delle ormai Terre Escluse della Bilancia cercava di attaccare il suo regno. Erano facilmente riusciti a oltrepassare la Terra del Toro: i suoi abitanti non erano mai stati dei guerrieri. Al confine con la Terra del Leone erano stati subito bloccati dai suoi uomini, che avevano effettuato un attacco diretto per spazzarli definitivamente e rimandarli indietro.

Era al trono da poco più di un anno e già si trovava a gestire una situazione di certo non facile.

Lo scudiero aveva finito di vestirlo, ed era pronto a cominciare la battaglia.

Tutto procedeva secondo i suoi piani: l'attacco aveva colto di sorpresa l'esercito nemico, grazie soprattutto a un paio di truppe che li avevano colpiti alle spalle passando dai confini della Terra del Toro, e anche lui era sceso in battaglia per dare man forte al suo esercito. Sapeva che un re non avrebbe mai dovuto esporsi in quel modo, ma la furia della battaglia gli entrava dentro e lui non poteva far altro che rispondere al richiamo.

Combatteva da cavallo, così come gli avevano insegnato in Accademia, e nessun nemico era riuscito a disarcionarlo. Fino a quel momento. La lama contro cui lottava aveva all'improvviso cambiato traiettoria, rendendo inutile il movimento di difesa, puntando alle zampe anteriori del suo destriero piuttosto che alla sua gola.

Era caduto rovinosamente a terra, evitando per un soffio di rimanere schiacciato dall'animale, ma con un'intuizione fortunata era riuscito a parare il fendente che il soldato gli calava dall'alto.

Quella, però, non era la sua giornata fortunata, e se ne sarebbe accorto in pochi secondi. L'avversario, senza dargli il tempo di rialzarsi, aveva estratto un piccolo pugnale e glielo aveva conficcato con forza all'inizio della gamba destra. Lui aveva urlato di dolore e si era accasciato sul terreno fangoso quasi privo di sensi.

Il nemico, pronto per colpirlo ancora, era stato scaraventato a terra da uno dei suoi uomini, trafiggendolo alle spalle da parte a parte. In quello stesso momento l'Esercito Escluso batteva in ritirata.

Avevano vinto.

«Vostra Maestà, state bene?»

Si era girato verso l'uomo che gli aveva salvato la vita, e la prima cosa che aveva visto erano stati degli occhi verdi, intensi e brillanti, incorniciati da capelli ricci e neri che gli ricadevano sul viso.

«Sì, tutto bene. Devo solo...». Aveva cercato di estrarre il pugnale dalla coscia, ma un dolore intenso si era propagato per tutto il corpo. Per trattenersi dall'urlare il suo volto si era fatto paonazzo, facendo preoccupare il suo benefattore.

«Vi porto nella tenda della medicazioni, Sire. Cercate di non muovervi» gli aveva detto, e lo aveva trasportato fin lì insieme a un piccolo gruppo di uomini.

Il viso del sacerdote si era tramutato di colpo di fronte alla ferita, e tutti i presenti erano usciti in fretta. Tutti, tranne l'uomo che gli aveva salvato la vita.

«Vostra maestà, temo di dovervi dare una brutta notizia. gli aveva annunciato Finn, il sacerdote – Il pugnale si è conficcato in una vena e se provassi a estrarlo morireste dissanguato».

«Cosa suggerite di fare, allora?»

«Devo amputare l'intera gamba, Sire» gli aveva risposto il sacerdote, cupo.

Non poteva credere a ciò che aveva sentito. Per salvarsi la vita avrebbe dovuto rinunciare a una parte di sé, per sempre.

«Mai». Furono le uniche parole che era riuscito a dire.

«Ma, Sire, il sacerdote ha detto che morirete» intervenne il ragazzo dagli occhi verdi.

«Ho sentito che cosa ha detto, e io ho preso la mia decisione».

«Ma cosa ne sarà del regno?»

«Osi contraddire il tuo re?»

«Siete voi che contraddite voi stesso. - lo aveva ripreso il soldato, con uno sforzo visibile per raccogliere il coraggio necessario - Prima di ogni battaglia ci esortate sempre a combattere e ad andare avanti, qualunque cosa accada. Voi siete il sovrano di questa Terra, dovete rappresentare i valori che saggiamente diffondete ed è vostro preciso compito continuare a difendere i vostri sudditi. Non importa se dentro o fuori il campo di battaglia».

Aveva ascoltato sbalordito quel ragazzo dalla pelle ambrata che gli stava ricordando i suoi doveri, e aveva dovuto ammettere che aveva ragione, su tutto. Aveva fatto un semplice segno di assenso a Finn dando il consenso all'amputazione e, da quel giorno, la sua vita era cambiata sotto molti aspetti.

Era stato faticoso abituarsi all'assenza di una parte di sé che aveva creduto indispensabile, a riuscire a muoversi usando un bastone per reggersi e, infine, ad accettare la gamba di legno che i suoi falegnami avevano creato apposta. Quando un giorno il suo esercito dovette scendere in campo per contrastare ancora gli Esclusi, però, lui si era sentito inutile. I suoi consiglieri non erano stati in grado di aiutarlo né tanto meno di capirlo, così aveva deciso di richiamare quel soldato che lo aveva salvato da morte certa, scoprendo che il giovane aveva una mente brillante capace di ragionare in maniera strategica. Da quel momento in poi Klethus, questo era il suo nome, non lo aveva più abbandonato: era rimasto al suo fianco, lo aveva consigliato nelle questioni del regno, e aveva ascoltato tutte le sue preoccupazioni.

Seamus, riscuotendosi dai vecchi ricordi, si rese conto di quanto la presenza di Klethus fosse stata preziosa per lui e, adesso che rischiava di perderlo, la sua mente si costrinse ad accettare ciò che aveva tenuto nascosto agli altri e perfino a sé stesso. Si alzò dalla poltrona che aveva messo vicino alla finestra e decise di andare nella stanza dove si trovava il consigliere. Doveva fargli sapere quanto era importante.

«Sire, non mi aspettavo di vedervi a quest'ora della notte». Finn era nella stanza di Klethus quando il re entrò. Era il migliore dei guaritori che aveva al suo servizio e lo aveva fatto richiamare da Rhowar apposta per lui.

«Sono passato per informarmi sulle sue condizioni. Ci sono stati miglioramenti?». Seamus cercò di parlare tenendo sotto controllo il tremolio della voce causato dalla preoccupazione.

«L'infezione è molto estesa, ma sono sicuro di poter escludere che la sua vita sia in pericolo. Klethus saprà reagire».

Quelle parole riuscirono a confortarlo, ma non se ne sarebbe andato senza fare ciò che si era prefissato.

«Lasciatemi da solo con lui».

«Mi accerterò che nessuno entri».

Quando la porta della stanza si chiuse dietro le spalle di Finn, Seamus si sedette vicino al giaciglio in cui Klethus respirava piano. Stavano dormendo tutti. Era nervoso, si contorceva le mani, e per molti minuti non riuscì a dire nulla.

«So che non sentirai una parola di quello che ti dirò, credo che sia per questo motivo che adesso sono qui». Seamus poggiò la mano su quella inerme del consigliere.

«Ho pensato alla prima volta che ci siamo incontrati, immagino la ricordi bene anche tu. Allora non sapevo e ho continuato a non capire per tutto questo tempo, finché non ti ho visto in queste condizioni. Ho realizzato e accettato ciò che mi ero sempre costretto a ignorare, a scacciare via. Perché tu mi hai ridato la vita, Klethus, in tutti i modi possibili. Sono pronto ad accettare che...».

Una stretta forte e decisa alla mano lo costrinse a fermare quel soliloquio.

«Non lo dire, Seamus – disse debolmente, guardandolo con occhi sfocati. Era la prima volta che lo chiamava per nome – Non devi dirmelo o sarà reale, e io non potrò più far finta di niente».

Ma il re era testardo, lo conosceva bene. Era il suo re e, se era venuto fin lì, non si sarebbe tirato indietro. Seamus si avvicinò come se ascoltasse i suoi pensieri, riducendo la distanza tra loro.

«Consigliere, non puoi darmi ordini». Sorrise, e negli occhi stanchi di Klethus scorse lo stesso desiderio che gli divampava dentro. Sapevano entrambi, senza bisogno di altre parole, che avevano taciuto troppo a lungo dei sentimenti che avevano creduto impossibili.

«E allora ditelo, Sire. Dopo, però, non si potrà più tornare indietro».

«Ti amo, Klethus».

E il consigliere non rispose, non ne ebbe il tempo, poiché finalmente sentiva il sapore delle labbra di Seamus.

Ora era tutto reale, e sarebbe stato tremendamente più difficile.

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